Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Il codice mondiale anti-doping 2015 (di Ulrich Haas, Professore ordinario nell’Università di Zurigo. Daniele Boccucci, Avvocato in Roma.)


The World Anti-Doping Code (WADC) is the backbone of the world-wide fight against doping in sports. The WADC seeks to harmonize and coordinate the fight against doping between the international stakeholders. The 2015 edition of the Code – the third revision after 2003 and 2007 – was adopted in November 2013 in Johannesburg, South Africa following the World Anti-Doping conference. The WADC 2015 is the product of three rounds of open consultations, managed by a commission appointed by the World Anti-Doping Agency. The WADC 2015 is a logical continuation and further development of the practices developed and employed in the previous editions of the WADC. The stakeholders rejected “radical” reform proposals during the consultation process. The purpose of the following article is to examine some of the solutions that emerged from the numerous contributions which were adopted or rejected in the Code review process.

SOMMARIO:

1. Il contesto del Codice - 2. La cannabis - 2.1. Ripensare la «Prohibited List» - 2.1.1. Le peculiarità della «Prohibited List» - 2.1.2. Proposte di riforma - 2.2. Riconsiderare le conseguenze - 2.3. In breve - 3. Le sanzioni standard per gli atleti - 3.1. Contesto - 3.2. Il criterio dell’«intenzionalità» - 3.2.1. La definizione di «intenzionale» - 3.2.2. Il punto di riferimento del significato di «intentional» - 3.2.3. Norme sull’onere della prova - 4. Riduzione della sanzione per gli atleti - 4.1. Riduzioni basate sulle attenuanti «fault-related» - 4.1.1. «No Significant Fault» - 4.1.2. Prodotti contaminati - 4.2. Riduzioni indipendenti dal grado di colpa - 4.2.1. Collaborazione fattiva - 4.2.2. Ammissione - 5. Personale di supporto degli atleti - 5.1. Associazione proibita - 5.2. Assistenza nelle violazioni relative al divieto di partecipazione - 5.3. Investigazioni automatiche contro l’ASP - 5.4. Rafforzamento del «role model» dell’ASP - 6. Accesso alla giustizia - 6.1. Eccezione: esclusione di ogni tutela giuridica - 6.2. Concentrazione di competenza in favore del TAS - 6.2.1. Portata sostanziale dalla clausola arbitrale - 6.2.2. Ambito personale della clausola arbitrale - 6.3. Oggetto del riesame - 7. Da una politica anti-doping quantitativa ad una qualitativa - NOTE


1. Il contesto del Codice

Il Codice Mondiale Anti-Doping (il «Codice WADA» o il «Codice») costituisce la spina dorsale della lotta al doping a livello mondiale e serve ad armonizzare e a coordinare tale lotta a detto livello [1]. L’edizione 2015 del Codice – la terza dopo quelle del 2003 e 2007 – è stata adottata nel novembre 2013 a Johannesburg al termine della Conferenza mondiale anti-doping. L’adozione del Codice WADA 2015 rappresenta il culmine di un processo di riforma durato circa diciotto (18) mesi [2]. A tutti i «firmatari» del Codice, e cioè, in particolare, alle Federazioni Internazionali (International Federations, d’ora in poi «IF»), ai Comitati Olimpici Nazionali e alle agenzie nazionali antidoping (National Anti-doping Organization, d’ora in poi «NADO») era stato affidato il compito di dare di attuazione al Codice nei rispettivi regolamenti, ponendo come data entro la quale detta attuazione avrebbe dovuto perfezionarsi quella del primo gennaio 2015, data in cui, come noto, il nuovo Codice è entrato in vigore. Come, a suo tempo, per il Codice 2003 ed il Codice 2007, anche il Codice WADA 2015 è il prodotto di tre fasi di consultazione aperta, gestite da una Commissione nominata dal­l’A­gen­zia mondiale antidoping («WADA») [3]. Durante le diverse fasi di consultazione, tutti gli interessati hanno avuto l’opportunità di partecipare e di contribuire al processo di riforma. In totale, 315 parti interessate hanno espresso la loro opinione sui punti riguardanti la riforma del Codice. La gran parte degli interventi può essere suddivisa nelle seguenti categorie: movimento sportivo (149); agenzie regionali o nazionali antidoping (84); istituzioni statali o sovranazionali (36). Sono state presentate, nel complesso, 3987 proposte di riforma. L’entità di tale dato è, tuttavia, senz’altro da attribuirsi alla portata del processo di riforma. Il Codice WADA 2015 rappresenta la logica continuazione e l’ulteriore sviluppo della prassi in materia di lotta al doping. Le proposte di riforma «radicale», infatti, sono state quasi sempre respinte dalla maggioranza delle parti interessate. Di seguito verranno esaminate alcune delle questioni più rilevanti emerse dai numerosi contributi in sede di revisione del Codice [4].


2. La cannabis

Il numero di atleti risultati positivi alla cannabis è in cima alle statistiche della maggior parte delle organizzazioni anti-doping («ADO») [5]. Alla luce di tale dato, è stata spesso sollevata la questione se sia davvero un compito della lotta contro il doping, quello di occuparsi delle cosiddette «droghe sociali». Dubbi al riguardo sono stati sollevati, nell’ambito del processo di riforma, da molti dei partecipanti (tra i quali, in particolare, le agenzie antidoping a carattere regionale e nazionale), i quali hanno sostenuto che non dovrebbe essere preteso che le scarse risorse di cui dispone la lotta contro il doping vengano utilizzate per contrastare l’uso della droga. In tale contesto, sono state formulate diverse proposte – a modifica degli indirizzi seguiti finora – per fare in modo che le ADO fossero sollevate delle problematiche relative all’uso di droghe.


2.1. Ripensare la «Prohibited List»

Il punto focale della definizione di doping è quello delle violazioni relative alla «presenza di una sostanza vietata o dei suoi metaboliti o marker in un campione biologico dell’atleta» (art. 2.1) ed all’«uso o tentato uso da parte da parte di un Atleta di una sostanza vietata o di un metodo proibito» (art. 2.2). Entrambe le violazioni antidoping («ADRV» secondo l’acronimo inglese) menzionate fanno riferimento alla cosiddetta «Lista delle sostanze proibite» («Proihibited List»), di cui all’art. 4 del Codice WADA 2015. In detta lista sono elencati le sostanze e i metodi il cui uso è proibito in ambito sportivo, con l’ulteriore precisazione che, mentre per alcuni di tali sostanze o metodi l’uso proibito è soltanto quello fatto nel contesto delle competizioni («in competizione»), per altre sostanze o metodi il divieto è più esteso e relativo anche all’uso fatto al di fuori di tale contesto («fuori competizione»)


2.1.1. Le peculiarità della «Prohibited List»

Due aspetti sono, essenzialmente, caratteristici della «Prohibited List». In primo luogo, infatti, il Codice WADA determina i criteri in base ai quali una sostanza o un metodo particolare possono essere inclusi nella lista di cui si tratta. Ciò avviene quando essi siano potenzialmente idonei a mascherare l’uso o la presenza di una sostanza o di un metodo proibito (art. 4.3.2), o quando sussistono due dei seguenti tre criteri [6], vale a dire: la potenziale idoneità al miglioramento delle prestazioni sportive; un rischio, anche solo potenziale, per la salute dell’atleta; che l’uso di una sostanza o di un metodo rappresenti una violazione dello «spirito sportivo», come descritto nel Codice WADA 2015. In secondo luogo, poi, la «Prohibited List» si caratterizza per il fatto di porre una distinzione tra le sostanze vietate «in competizione» e quelle vietate (anche) «fuori competizione». Ciò parrebbe, a rigor di logica, contraddittorio, visto che i criteri innanzi menzionati non sembrano ammettere una simile distinzione [7]. Ed infatti, il giudizio sul se l’assunzione di una sostanza sia idonea a migliorare le prestazioni, sia (almeno potenzialmente) dannosa per la salute o sia contraria all’etica è completamente indipendente dalla considerazione sul quando la sostanza in questione sia stata assunta. Ad ogni modo, la differenziazione all’interno della «Prohibited List» tra quelle proibite «in competizione» e quelle proibite (anche) «fuori competizione» ha lo scopo di limitare in maniera «razionale» la portata della lista delle sostanze vietate. Tale obiettivo, come detto, dovrebbe essere raggiunto distinguendo all’interno della «Prohibited List» tra sostanze e metodi proibiti solo nel contesto di una competizione e quelli proibiti (anche) all’infuori di tale contesto. La «Prohibited List» contiene, infatti, due liste di sostanze vietate, di cui quella relativa all’elenco delle sostanze vietate «in competizione» è assai più ampia rispetto a quella delle sostanze di cui l’uso o l’assunzione sono proibiti anche «fuori competizione».


2.1.2. Proposte di riforma

Le proposte di riforma volte a «depenalizzare» la cannabis per quanto concerne la lotta al doping sono legate alle caratteristiche della «Prohibited List» innanzi indicate. Così, ad esempio, è stato proposto di modificare la classificazione dei criteri che determinano l’inclusione di una sostanza o di un metodo sulla lista. È stato proposto (per il caso in cui la sostanza non rappresenti un «agente mascherante»), di introdurre come criterio obbligatorio quello relativo al «potential to enhance sport performance». Tra i due criteri che devono sussistere per l’inclusione nella lista, quindi, quello relativo al «potential to enhance sport performance» dovrebbe risultare sempre integrato. In base alla proposta in questione, pertanto, dovrebbe escludersi ogni riferimento al doping in presenza di una assunzione di sostanze non idonee al miglioramento delle prestazioni sportive, con la conseguenza che il doping sarebbe essenzialmente equiparato ad un il­lecito miglioramento delle prestazioni. Tale proposta presenta innegabili vantaggi. In primo luogo, infatti, aiuta a definire in maniera più precisa il (finora piuttosto vago) si­gnificato di «doping». Vi è, poi, che anche il Codice WADA, in varie parti, attribuisce senz’altro un significato particolare al «performance enhancement» [8]. Nonostante sussistessero delle buone ragioni in favore della proposta in oggetto, la stessa non ha trovato, alla fine, accoglimento, per ragioni di carattere politico [9]. Resistenze al riguardo sono state fatte dalle autorità statali, le quali si sono principalmente opposte ad un declassamento della protezione della salute nell’ambito della lotta al doping (in favore del criterio del miglioramento delle prestazioni). A tal proposito si è temuto, infatti, che l’impegno statale nella lotta al doping, e in particolare il supporto economico per le rispettive organizzazioni nazionali anti-doping («NADO»), potesse venire meno o essere significativamente ridotto; ciò in quanto la principale ragione giustificatrice della partecipazione statale alla lotta al doping è quella della tutela della salute. D’altra parte, era (ed è) controverso, tra gli esperti, il fatto che l’uso di cannabis in casi di particolari discipline (ad esempio il «downhill» e il [continua ..]


2.2. Riconsiderare le conseguenze

Dal momento che non si è riuscito ad ottenere la maggioranza per una riforma radicale della «Prohibited List», è stata considerata la possibilità di mitigare le conseguenze di una ADRV in relazione all’uso di cannabis. Anche in questo caso si è, in un primo momento, cercato di affrontare la questione da un punto di vista più generale, ovvero non con riferimento esclusivo al problema cannabis, bensì a tutte le «droghe sociali» («substances of abuse») [10]. A questo proposito, la bozza circolata nella seconda tornata di consultazioni con riferimento al sanzionamento delle ADRV recitava come segue (art. 10.4.3): «Where the anti-doping rule violation involves a substance that is identified on the Prohibited List as a Substance of Abuse, and the Athlete or other Person establishes no intent to enhance sport performance, then the Anti-Doping Organization with results management authority may allow the Athlete the opportunity to participate in a program of rehabilitation, at the Athlete’s expense, in lieu of an appropriate part of the period of Ineligibility which would otherwise be applicable». Anche questa proposta, tuttavia, non ha riscosso il consenso della maggioranza. È stato osservato in particolare, che non tutte le ADO hanno le risorse finanziarie necessarie per istituire un «programma di riabilitazione» e che, di conseguenza, rischierebbe di favorirsi una disparità di trattamento degli atleti nei singoli Paesi.


2.3. In breve

È da ritenersi, pertanto, che il consumo (talvolta diffuso) di cannabis tra gli sportivi sollevi degli interrogativi rilevanti con riferimento al senso ed allo scopo della lotta al doping. Gli interessati non sono riusciti a raggiungere un consenso su una «grande» soluzione per un riaggiustamento generale delle coordinate della lotta contro il doping sia sul piano fattuale (attraverso la riforma della «Prohibited List»), che sulle conseguenze giuridiche (attraverso la riforma delle sanzioni). Si è ritenuto, invece, che – qualora ve ne fosse bisogno – una soluzione al problema dovrebbe trovarsi, in ogni caso, all’interno del quadro di riferimento normativo esistente, ciò che, come si vedrà, appare (salvo fratture interne a tale quadro) alquanto difficile.


3. Le sanzioni standard per gli atleti

In linea di principio, a differenza della precedente versione, il Codice WADA 2015 prevede due sanzioni standard per gli atleti che commettono una ADRV ai sensi degli artt. 2.1 e 2.2 (presenza od uso di una sostanza o metodo proibito). Per le violazioni «intenzionali», il Codice WADA 2015 prevede una sanzione base di quattro anni di inibizione (art. 10.2.1). Per le violazioni non intenzionali, invece, la sanzione base prevista è quella di due anni di inibizione (art. 10.2.2). Le sanzioni standard di cui sopra si applicano a prescindere dalla sostanza vietata o dal metodo proibito utilizzato dall’atleta. Solo l’onere della prova per dimostrare una ADRV intenzionale varia, a seconda del fatto che la sostanza proibita sia una cosiddetta «sostanza specificata» («specified substance») oppure no. Nella «Prohibited List» si definiscono «specified substances» quelle «which are more likely to have been consumed by an Athlete for a purpose other than the enhancement of sport performance» [11].


3.1. Contesto

La nuova normativa contenuta negli artt. 10.2.1 e 10.2.2 del Codice WADA 2015 rappresenta un inasprimento, rispetto a quella della precedente versione del Codice (2009) [12]. Sebbene, infatti, anche il vecchio Codice prevedesse l’irrogazione di sanzioni più elevate nel caso di sussistenza di «circostanze aggravanti» (indipendentemente dal fatto che si trattasse di «specified substances», oppure no) [13], la prassi adottata dagli organismi antidoping ha mostrato che l’applicazione di tale aggravante è stata abbastanza infrequente [14]. Il concetto di «aggravating circumstances», di cui all’art. 10.6 del Codice WADA 2009, inoltre, era chiaramente più restrittivo con riferimento all’elemento della «intenzionalità». Prerequisito per la sussistenza di «circostanze aggravanti» è, infatti, che oltre all’intenzionalità da parte dell’atleta, ricorrano altre circostanze che siano meritevoli di un particolare biasimo. La nuova normativa, pertanto, ha significativa­mente ridotto la soglia per l’inasprimento della sanzione, visto che, d’ora in avanti, sarà sufficiente l’intenzionalità della violazione per giustificare una sanzione (di entità maggiore di due anni). Oltre a ciò, la nuova normativa non prevede – diversamente da quanto faceva il vecchio art. 10.6 (del Codice WADA 2009) – alcuna «sliding scale» con riferimento alle conseguenze giuridiche della violazione. Ogni qual volta, infatti, l’atleta abbia agito con intenzionalità, non vi sarà spazio per alcuna cornice sanzionatoria, all’interno della quale fissare la sanzione da irrogare, ma troverà applicazione una sanzione «fissa» di quattro (4) anni. La base di un simile inasprimento è rappresentata da numerose circostanze. In primo luogo, il caso «Armstrong» [15] (scoppiato nel corso del processo di riforma del Codice) ha senz’altro contribuito a creare un clima favorevole ad un innalzamento della sanzione [16]. In considerazione del «doping scheme, more extensive than any previously revealed in professional sports history» [17] – come accertato nella «Reasoned Decision» dell’USADA – è parso, infatti, difficile opporsi, da un punto di vista politico, alle [continua ..]


3.2. Il criterio dell’«intenzionalità»

Il criterio dell’«intent» pare essere, almeno a prima vista, un criterio appropriato per un inasprimento della sanzione, visto che la ADRV commessa intenzionalmente ha, di norma, una «intensità antigiuridica» superiore a quella che contraddistingue una ADRV commessa da un atleta per negligenza. Il rinvio al criterio dell’«intenzionalità» per la determinazione della sanzione standard, pertanto, risulta essere coerente con delle valutazioni di proporzionalità che portano ad ancorare la durata della sanzione al grado di colpa dell’atleta.


3.2.1. La definizione di «intenzionale»

Guardando alle due sanzioni standard previste dal Codice WADA 2015, risulta evidente che la distinzione tra una ADRV intenzionale ed una ADRV commessa con negligenza è fondamentale [21]. Il Codice, infatti, non lascia la determinazione dei relativi confini alla giurisprudenza, ma la pone in maniera diretta, con ciò facendo tesoro dell’espe­rienza passata. Il criterio dell’intenzionalità, infatti, era previsto anche nel Codice WADA 2009 (si veda l’art. 10.4) [22]. Il TAS, tuttavia, ha mostrato di incontrare non poche difficoltà con il significato da attribuire a tale criterio [23]. Al riguardo, infatti, si registravano diversi orientamenti. Nel lodo Qerimaj il TAS ha tracciato i confini del significato di «intent» nel seguente modo [24]: «Intent is established – of course – If the athlete knowingly ingests a prohibited substance. However, it suffices to qualify the athlete’s behaviour as intentional, if the latter acts with indirect intent only, i.e. if the athlete’s behaviour is primarily focused on one result, but in case a collateral result materializes, the latter would equally be accepted by the athlete. If – figuratively speaking – an athlete runs into a “minefield” ignoring all stop signs along his way, he may well have the primary Intention of getting through the “minefield” unharmed. However, an athlete acting in such (reckless) manner somehow accepts that a certain result (i.e. adverse analytical finding) may materialize and therefore acts with (indirect) intent». Non tutti i collegi arbitrali hanno condiviso la pronuncia appena riportata [25]. Una delle critiche ad essa mossa è relativa al fatto che la linea divisoria tra l’«indirect intent» (dolus eventualis) e la negligenza sarebbe assai sottile e, pertanto, il significato di «intent» o «intentional» sarebbe da interpretarsi in senso stretto, vale a dire come un «intento diretto» [26]. Una simile opinione desta delle perplessità, visto che l’indica­zione dei presupposti che valgono a determinare quando un atleta agisca in maniera intenzionale o negligente rappresenta una questione giuridica, alla quale un collegio arbitrale del TAS non può esimersi dal dare una risposta per il solo fatto che la delimitazione dei relativi confini è complessa. [continua ..]


3.2.2. Il punto di riferimento del significato di «intentional»

È lecito chiedersi quale sia il punto di riferimento del significato del termine «intentional». Da un punto di vista giuridico, la situazione è chiara qualora una sostanza sia proibita sia «in» che «fuori competizione», caso in cui il riferimento andrà fatto all’as­sunzione od utilizzo della sostanza proibita, da cui deriva la ADRV. Se, dunque, l’atleta avrà assunto o utilizzato la sostanza in oggetto di proposito, dovrà essere irrogata la sanzione standard di quattro anni. Identico discorso vale per il caso in cui l’atleta abbia assunto una sostanza proibita solo «in competizione» nel corso di quest’ultima. Più complesso, invece, è il caso in cui una sostanza proibita esclusivamente «in competizione» venga assunta dall’atleta «fuori competizione». In tal caso, infatti, dovrebbe (o potrebbe) ritenersi che l’atleta abbia agito in maniera perfettamente lecita, e ciò anche nel caso in cui l’assunzione della sostanza sia avvenuta intenzionalmente. Una simile condotta, tuttavia, diviene illecita quando tale sostanza sia ancora presente nell’organismo dell’atleta nel momento in cui quest’ultimo prende parte ad una competizione. Questo rischio è spesso difficile da gestire per l’atleta. Ciò in quanto, da un lato, l’espressione «in-com­petition period» non ha un significato univoco, visto che le varie FI o le autorità sportive competenti per l’organizzazione di un evento possono definire l’«in-competition period» (ed in tal modo, in via indiretta, anche il «testing menue») a loro discrezione [28]. Dall’altro lato, poi, i laboratori accreditati WADA migliorano costantemente la capacità di individuare la presenza di sostanze vietate, con la conseguenza che quantità sempre più piccole delle varie sostanze sono riscontrabili sui campioni biologici prelevati nel corso di una competizione. Ciò comporta, quindi, che, da un punto di vista pratico, la «finestra» in cui le sostanze non proibite «fuori competizione» possono essere assunte diviene sempre più piccola. Deve rilevarsi, poi, che i tempi per lo smaltimento di determinate sostanze dipendono anche dall’organismo di ciascun atleta e, quindi, da circostanze soggettive [continua ..]


3.2.3. Norme sull’onere della prova

Poiché l’elemento psicologico con il quale l’atleta agisce al momento dell’assun­zione di una sostanza proibita (solo «in competizione») è di difficile accertamento, il Codice WADA fa ricorso a delle presunzioni (relative). A questo riguardo, il Codice pone una distinzione tra «specified substances» e «non-specified substances»; ciò in quanto, nel caso di una sostanza «non-specified» è molto più facile ad assumere un nesso diretto tra l’assunzione della sostanza proibita e la prestazione agonistica. Deve, inoltre, rilevarsi che il Codice WADA 2015 non pone espressamente sull’atleta l’onere di dimostrare che la violazione sia stata commessa in maniera non intenzionale [29]. Le regole concernenti le presunzioni, in particolare, sono strutturate come segue (art. 10.2.3) [30]: «An anti-doping rule violation resulting from an Adverse Analytical Finding for a substance which is prohibited In-Competition shall be rebuttably presumed to be not “intentional” if the substance is a Specified Substance and the Athlete can establish that the Prohibited Substance was Used Out-of-Competition. An anti-doping rule violation resulting from an Adverse Analytical Finding for a substance which is only prohibited In-Competi­tion shall not be considered “intentional” if the substance is not a Specified Substance and the Athlete can establish that the Prohibited Substance was Used Out-of-Competi­tion in a context unrelated to sport performance». Oltre a quanto si è visto, non deve essere obliterato che le regole probatorie appena menzionate non hanno carattere autoreferenziale, ma sono strutturate sul presupposto della parte iniziale della previsione all’interno della quale sono contenute (l’art. 10.2.3), la quale è volta ad individuare gli atleti che devono considerarsi come degli «imbroglioni» («cheaters»), stabilendo che solo per questi l’inibizione di quattro anni deve considerarsi appropriata [31]. L’intenzionalità di una ADRV, pertanto, dovrebbe ritenersi accertata da parte di un collegio del TAS soltanto in casi in cui la dimostrazione di tale elemento sia ben chiara.


4. Riduzione della sanzione per gli atleti

Al fine di stabilire se e quali circostanze attenuanti siano applicabili, è necessario previamente individuare quale sia la sanzione base applicabile, e cioè se ci si trovi dinanzi ad una ADRV intenzionale o meno. Nel primo caso, le uniche attenuanti che assumono rilievo sono quelle «non-fault-related» (art. 10.6 del Codice WADA 2015). Nel secondo caso, invece, possono trovare applicazione sia le attenuanti appena menzionate, che quelle del tipo «fault-related». Alla base di questa differenza sta il fatto che il nuovo Codice WADA si prefigge di essere più flessibile nei confronti degli atleti che abbiano commesso una ADRV per mera disattenzione, mentre mostra di voler essere chiaramente inflessibile nei confronti di coloro che intenzionalmente fanno ricorso al doping. Il fatto che in caso di ADRV «intenzionali» sia esclusa una riduzione della sanzione per motivi «fault-related» si evince già da una interpretazione sistematica delle previsioni sull’inibizione. La possibilità di riduzione della sanzione per motivi attinenti alla colpa viene prevista agli Artt. 10.4 e 10.5 del Codice. Ai sensi di tali disposizioni, presupposto per una riduzione della sanzione è che la condotta dell’atleta, con riferimento alla violazione commessa, sia esente da colpa o negligenza (art. 10.4 «No Fault or Negligence» – «NF») o da colpa grave (art. 10.5 «No Significant Fault or Negligence» – «NSF»). È evidente che ambedue le ipotesi siano necessariamente da escludersi nel caso in cui l’atleta abbia commesso la ADRV intenzionalmente [32]. Del resto, il fatto che in presenza di una ADRV commessa intenzionalmente debba escludersi la possibilità di una riduzione della sanzione ai sensi degli Artt. 10.4 e 10.5 del Codice, viene espressamente stabilito in diverse sezioni di quest’ultimo. Così, ad esempio, nel commento all’art. 10.5.2 si legge: «Article 10.5.2 may be applied to any anti-doping rule violation, except those Articles where intent is an element of the anti-doping rule violation … or an element of a particular sanction (e.g., Article 10.2.1) or a range of Ineligibility is already provided in an Article based on the Athlete or other Person’s degree of Fault». Nella «Appendix Two Examples of the Application of Article 10», con [continua ..]


4.1. Riduzioni basate sulle attenuanti «fault-related»

Al centro delle riduzioni basate sulle attenuanti «fault-related» si trovano due novità del Codice WADA 2015.


4.1.1. «No Significant Fault»

Nel nuovo sistema introdotto dal Codice WADA 2015, non è possibile applicare riduzioni della sanzione in correlazione con il grado di colpa dell’atleta (nel caso di una ADRV commessa involontariamente), quando tale grado eccede la soglia della «NSF». Oltre tale soglia, dunque, si rimane sulla sanzione base prevista dall’art. 10.2.2 (due anni di inibizione). Una riduzione, invece, è possibile quando il grado di colpa del­l’atleta non superi la soglia indicata. Ciò vale indipendentemente dalla sostanza o dal metodo utilizzati nei singoli casi. Nei vari casi che si presentano, stabilire il grado di colpa di un atleta può rivelarsi un compito tutt’altro che facile. Delle linee guida al riguardo possono trarsi sia dallo stesso Codice WADA 2015, che dalla giurisprudenza del TAS nei casi decisi sinora [34]. – (i) Valutazione di tutte le circostanze del caso concreto Il Codice WADA 2015 chiarisce, in primo luogo, che per l’accertamento del grado di colpa o negligenza debbono considerarsi tutte le circostanze del caso concreto. A tale riguardo, con riferimento alla NSF, si legge nella «Appendix Definitions»: «The Athlete or other Person’s establishing that his or her Fault or negligence, when viewed in the totality of the circumstances and taking into account the criteria for No Fault or Negligence, was not significant in relationship to the anti-doping rule violation …». – (ii) La concretizzazione dei doveri di diligenza oggettivi Stabilire se l’atleta abbia agito con NSF o NF è possibile soltanto alla luce dei doveri che, nel caso concreto, gravano sullo stesso [35]. Il principale riferimento, a questo riguardo, va fatto all’art. 2.2.1 del Codice WADA 2015, ai sensi del quale «it is each Athlete’s personal duty to ensure that no Prohibited Substance enters his or her body and that no Prohibited Method is Used». Il dovere di diligenza dell’atleta nell’ambito sportivo derivante da tale primario obbligo non è lo stesso in tutti i casi, ma dipende dalla concreta situazione di pericolo in cui ci si trovi. Ciò è stato sostenuto da un collegio del TAS nel caso Cilic [36]: «At the outset, it is important to recognise that, in theory, almost all anti-doping rule violations relating to the taking of a product containing a prohibited substance [continua ..]


4.1.2. Prodotti contaminati

Un’ulteriore significativa modifica relativa alle riduzioni della sanzione «fault-related» è contenuta all’art. 10.5.1.2 del Codice, che recita: «In cases where the Athlete or other Person can establish No Significant Fault or Negligence and that the detected Prohibited Substance came from a Contaminated Product, then the period of Ineligibility shall be, at a minimum, a reprimand and no period of Ineligibility, and at a maximum, two years Ineligibility, depending on the Athlete’s or other Person’s degree of Fault». – (i) Contesto In via di principio, il tipo di sostanza rilevata nel campione dell’atleta influenza la cornice sanzionatoria applicabile. Nel caso in cui la ADRV (ai sensi degli Artt. 2.1 o 2.2 del Codice) stia in relazione con una «specified substance», la cornice sanzionatoria – nel caso in cui sia raggiunta la soglia della NSF – andrà da un semplice biasimo formale ad un periodo di inibizione di due anni (art. 10.5.1.1 del Codice). Nel caso, invece, in cui si abbia a che fare con una «non-specified substance», la cornice sanzionatoria per la medesima ADRV sarà ricompresa tra un periodo che va da uno a due anni. L’applica­bilità di differenti cornici sanzionatorie, a seconda della sostanza o metodo proibito il cui uso venga riscontrato, è dovuta a diversi fattori. Tale distinzione, ad esempio, è espressione del fatto che l’uso di alcune sostanze è più biasimevole, da un punto di vista sportivo, rispetto all’uso di altre [51]. La distinzione di cui si tratta, inoltre, è anche basata sulla considerazione che un uso involontario delle «specified substance», o meglio un uso per scopi diversi dal miglioramento delle prestazioni sportive, appare «più probabile» che per le altre sostanze proibite. Si tratta, ovviamente, di una tipizzazione che, nei singoli casi, può portare a risultati chiaramente iniqui, come illustrato in un caso di cui si è occupato il TAS [52]. I fatti alla base del caso di cui si tratta sono i seguenti: la nuotatrice di livello internazionale Hardy aveva assunto per un notevole periodo di tempo (otto mesi), prima dei Giochi Olimpici di Pechino, un integratore alimentare del produttore A. L’atleta era a conoscenza del fatto che le autorità sportive avvertono regolarmente sui [continua ..]


4.2. Riduzioni indipendenti dal grado di colpa

Accanto alle riduzioni della sanzione «fault related», il Codice WADA 2015 prevede anche delle riduzioni indipendenti da tale elemento, le quali vengono regolate dall’art. 10.6. Tale norma, infatti, prevede tre tipi di «circostanze attenuanti» indipendenti dal grado di colpa e cioè la collaborazione fattiva («substantial assistance») (di cui all’art. 10.6.1), l’ammissione in assenza di altre prove (di cui all’art. 10.6.2) e l’am­missione tempestiva («prompt admission») di una ADR (art. 10.6.3). Le circostanze di cui si tratta possono, in via di principio, trovare applicazione indipendentemente dal fatto che l’atleta abbia commesso la ADRV in maniera intenzionale o meno. Queste attenuanti, comunque, saranno per lo più applicabili – da un punto di vista pratico – alle sole ADRV commesse intenzionalmente, visto che solo in questi casi l’atleta potrà veramente avvalersi delle riduzioni della sanzione indipendenti dal grado di colpa, il che pone delle questioni di giustizia sostanziale (con particolare riguardo all’atte­nuante della «collaborazione fattiva» di cui all’art. 10.6.1). Un atleta, infatti, potrà riferire, al­meno di norma, di ADRV commesse da terzi soltanto quando sarà stato egli stesso in qualche modo coinvolto. Solo i «bad dopers» hanno una buona storia da raccontare che possa rappresentare una collaborazione fattiva. Per tale motivo, le riduzioni della sanzione indipendenti dal grado di colpa sono state al centro di un controverso dibattito nelle fasi di consultazione. Nel complesso, comunque, è prevalsa l’opinione secondo la quale la conoscenza ottenuta tramite la collaborazione fattiva o l’ammis­sio­ne in assenza di ulteriori prove ed il risparmio di tempo e costi ottenuto per il tramite del­l’ammissione tempestiva giustificano un allontanamento dallo scopo di infliggere all’atleta una sanzione adeguata alla ADRV commessa [59].


4.2.1. Collaborazione fattiva

L’art. 10.6.1.1 del Codice prevede (come già l’art. 10.5.3 del Codice WADA 2009) [60] una riduzione della sanzione quando un atleta dopato abbia prestato una collaborazione fattiva («substantial assistance») ad una ADO, ad un’autorità penale o ad un organo disciplinare di un ordine professionale. Le informazioni fornite con tale assistenza agli enti menzionati giustificano, in via di principio, una riduzione della sanzione quando sono tali da consentire la scoperta o il (migliore) perseguimento di altre ADRV o di crimini legati al doping. Il significato di «substantial assistance» viene definito dall’Appendice 1 («Definizioni») del Codice come segue: «For purposes of Article 10.6.1, a Person providing Substantial Assistance must: (1) fully disclose in a signed written statement all information he or she possesses in relation to anti-doping rule violations, and (2) fully cooperate with the investigation and adjudication of any case related to that information, including, for example, presenting testimony at a hearing if requested to do so by an Anti-Doping Organization or hearing panel. Further, the information provided must be credible and must comprise an important part of any case which is initiated or, if no case is initiated, must have provided a sufficient basis on which a case could have been brought». A differenza dei casi in cui la sanzione viene ridotta sulla base di circostanze legate al grado di colpa, la riduzione della sanzione nei casi di collaborazione fattiva è rappresentata non da una riduzione della durata della sanzione, ma da una mera «sospensione» di una parte della sanzione. Qualora la collaborazione prestata dall’atleta dovesse, alla fine, rivelarsi «non fattiva» («not substantial»), o magari incompleta o addirittura falsa, sarà possibile revocare la sospensione in tutto o in parte. Il massimo del periodo di sanzione sospendibile ai sensi dell’art. 10.6.1.1 è quello di ¾ del periodo di sanzione complessivamente imposto (e, altrimenti, da scontare per intero). L’attenuante della collaborazione fattiva ha avuto, in passato, un carattere alquanto anonimo nella pratica (fatte salve poche eccezioni). Il motivo di ciò è rappresentato dalla difficile valutabilità della norma, vale a dire dalla mancanza di certezza giuridica per l’at­leta, [continua ..]


4.2.2. Ammissione

Un’ammissione può giustificare una riduzione della sanzione sotto due diversi punti di vista. Una riduzione della sanzione ai sensi dell’art. 10.6.2 del Codice sarà possibile, tuttavia, soltanto qualora l’atleta ammetta di aver commesso una ADRV in un momento in cui non vi siano altre prove contro lo stesso, vale a dire qualora la confessione rappresenti l’unica base per il sanzionamento della violazione («admission is the only reliable evidence of the violation at the time of admission»). Una riduzione della sanzione (ai sensi della norma di cui si tratta), invece, non sarà possibile in presenza di un risultato positivo di un analisi su di un campione biologico, e ciò indipendentemente dall’eventuale comunicazione del risultato all’atleta [64]. L’ammissione, inoltre, deve essere «spontanea». Tale requisito non sarà integrato quando l’atleta confessi in un momento in cui sia già al corrente del fatto che una ADO gli sia «alle calcagna» con delle prove a sua disposizione [65]. Al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 10.6.2, il periodo di inibizione (altrimenti applicabile) può essere ridotto fino alla metà. La seconda attenuante legata alla «ammissione» è rappresentata dall’art. 10.6.3. Ai sensi di tale norma, in particolare, la sanzione potrà essere ridotta quando l’atleta ammetta tempestivamente la ADRV (intenzionale) dopo che quest’ultima gli sia stata contestata (ed alla quale, quindi, essendo intenzionale, è legata la sanzione dell’inibizione della durata di quattro anni) [66]. Anche in questo caso, il periodo di inibizione può essere ridotto fino alla metà (due anni). La riduzione, tuttavia, potrà essere concessa soltanto previo assenso della WADA e dell’ADO competente. Si tratta di una valutazione discrezionale da parte della WADA, con riferimento alla quale alcuna pretesa può essere fatta valere né dall’atleta, né dall’ADO interessata. Per tale motivo, quindi, non è possibile stabilire ex ante se l’ammissione da parte dell’atleta possa sortire il risultato da quest’ultimo sperato.


5. Personale di supporto degli atleti

Uno dei principali aspetti della lotta al doping, con riguardo al quale si avverte una seria preoccupazione, è rappresentato dalla mancata possibilità di imporre obblighi e di infliggere sanzioni a carico dell’entourage dell’atleta (ad esempio gli allenatori ed i medici che seguono l’atleta) [67]. Tale entourage gioca, assai spesso, un ruolo chiave nel favoreggiamento del doping [68]. Il Codice WADA 2015, pertanto, contiene delle previsioni che – in maniera assai più marcata rispetto alle sue precedenti versioni – sono indirizzate al cosiddetto «Athlete Support Personnel» («ASP») [69]. Nell’espressione ASP vengono ricompresi «[a]ny coach, trainer, manager, agent, team staff, official, medical, paramedical personnel, parent or any other Person working with, treating or assisting an Athlete participating in or preparing for sports Competition» (si veda l’Appendice 1 «Definizioni»). Nella sostanze il Codice WADA 2015 prevede le novità di seguito esposte.


5.1. Associazione proibita

Accade sempre più di frequente che, nella pratica, l’ASP continui indisturbato a fornire le proprie prestazioni in favore di atleti, club o federazioni, nonostante lo stesso (ASP) stia scontando un periodo di inibizione o sia stato definitivamente espulso dalla famiglia sportiva [70]. Sussiste, pertanto, il rischio che queste persone (ASP) favoriscano il doping nello sport anche in futuro. Per impedire (o, almeno, ostacolare) ciò, e bandire i soggetti in questione in maniera più efficace, il Codice WADA 2015 ha introdotto, all’art. 2.10, una regola volta al «boicottaggio» degli stessi. La norma in questione, infatti, introduce una fattispecie di violazione che risulta esser integrata allorquando un atleta od altra persona soggetta all’autorità di una ADO si avvalga delle prestazioni di ASP che stia scontando un periodo di inibizione (art. 2.10.1) o che sia stato sanzionato penalmente o a livello disciplinare (anche professionale) per condotte che avrebbero potuto essere sanzionate, se la normativa del Codice WADA fosse stata applicabile all’ASP in questione (art. 10.2.2). La cerchia di persone circoscritta dagli Artt. 2.10.1 e 2.10.2 diviene, pertanto, quasi «inavvicinabile» per i membri dello sport organizzato (non solo atleti, ma anche responsabili dei club, responsabili di organismi sportivi nazionali ed internazionali, ecc.). Questi ultimi, infatti, non potranno avere contatti di carattere professionale o per motivi legati allo sport, né direttamente, né per il tramite di terzi, con tali persone (art. 2.10.3). La contravvenzione di un simile divieto viene punita con la sanzione di due anni di inibizione (art. 10.4). Il commento all’art. 2.10 descrive i contatti vietati (di carattere personale o per motivi legati allo sport) nel seguente modo: «obtaining training, strategy, technique, nutrition or medical advice; obtaining therapy, treatment or prescriptions; providing any bodily products for analysis; or allowing the Athlete Support Person to serve as an agent or representative. Prohibited association need not involve any form of compensation». Poiché, tuttavia, non vi è alcun registro centralizzato dell’ASP «inavvicinabile» e, quindi, non è possibile informarsi sul fatto che una persona (ASP) stia scontando una sanzione inibitoria o sia stata coinvolta in una fattispecie di doping che avrebbe [continua ..]


5.2. Assistenza nelle violazioni relative al divieto di partecipazione

Lo status di uno sportivo durante il periodo di inibizione si evince dall’art. 10.12 del Codice. La disposizione di cui si tratta stabilisce, all’art. 10.12.1, che «no Athlete … who has been declared Ineligible may, during the period of Ineligibility, participate in any capacity in a Competition or activity … authorized or organized by any Signatory, Signatory’s member organization, or a club or other member organization of a Signatory’s member organization …». Nel caso di violazione di tale disposizione da parte dell’atleta, la sanzione inibitoria verrà estesa nella sua durata (art. 10.12.3). Qualora un ASP «assista» un atleta nel commettere la violazione relativa al divieto di partecipazione durante un’inibizione, si renderà punibile ai sensi dell’art. 2.9 del Codice. Ciò è chiaramente stabilito dall’ultimo comma dell’art. 10.12.3. L’art. 2.9 del Codice sanziona il coinvolgimento in una ADRV commessa da altra persona. La sanzione base prevista per tale violazione è quella di un periodo di inibizione dai due ai quattro anni (art. 10.3.4).


5.3. Investigazioni automatiche contro l’ASP

Il Codice WADA 2015 obbliga le FI e le ADO a mettere sotto la «lente di ingrandimento» la condotta dell’ASP. Il nuovo Codice prevede, innanzitutto, che in determinati casi debbano essere automaticamente avviate delle indagini nei confronti dell’ASP. Ciò avviene quando l’ASP abbia fornito le proprie prestazioni ad un atleta minorenne che sia coinvolto in una ADRV o quando l’ASP abbia fornito le proprie prestazioni a più atleti nei cui confronti sia stata accertata una ADRV (si vedano gli Artt. 20.3.10 e 20.5.9). Queste previsioni vengono completate dall’art. 21.2.5, il quale prevede per l’ASP l’ob­bligo «[t]o cooperate with Anti-Doping Organizations investigating anti-doping rule violations». Il commento alla disposizione di cui si tratta stabilisce inoltre che un «Failure to cooperate is not an anti-doping rule violation under the Code, but it may be the basis for disciplinary action under a stakeholder’s rules». Il commento ora riportato, quindi, lascia alla discrezione delle varie ADO la possibilità di prevedere che la mancata collaborazione da parte dell’ASP sia passibile di sanzione. Alla base di una normativa così «vaga» vi è il fatto che non sussiste troppa chiarezza sull’ambito e la portata del dovere di collaborazione. Si pone, in particolare, la questione sul se, ed eventualmente in quale misura, sussista un obbligo di collaborare alla scoperta delle violazioni commesse dallo stesso ASP e, quindi, se e in quale misura il principio penale «nemo tenetur se ipsum accusare« ponga dei limiti all’obbligo di collaborazione. Tale questione giuridica non è stata ancora abbastanza chiarita e indagata. Da un lato, comunque, è chiaro che i principi sviluppati nel diritto penale non possono essere riportati ad occhi chiusi ai procedimenti disciplinari in materia di doping. Ciò è dimostrato, tra l’altro, anche dal fatto che l’atleta è obbligato – a pena di sanzione – a fornire un campione biologico per i test anti-doping e, in tal modo, a contribuire alla scoperta della violazione dallo stesso atleta eventualmente commessa (art. 2.3). D’altro canto, però, deve considerarsi anche l’opi­nione di Kaufmann-Kohler/Rigozzi del 13 luglio 2007 sul Codice WADA 2009, con la quale si è ritenuto che il principio [continua ..]


5.4. Rafforzamento del «role model» dell’ASP

Il possesso di sostanze o metodi proibiti da parte dell’ASP (senza valida giustificazione) rappresenta una ADR (art. 2.6 «possession of a prohibited substance or method»). La sanzione base per tale fattispecie è quella di quattro o due anni di inibizione, a seconda del fatto che la violazione sia stata commessa intenzionalmente, o meno (art. 10.2). Va rilevato, comunque, che il possesso «fuori-competizione» di una sostan­za vietata solo «in-competizione» è lecito. Siccome, tuttavia, l’ASP ha una funzione di fungere da esempio da seguire per gli atleti, l’art. 21.2.6 del Codice WADA stabilisce che, anche nei casi in cui il possesso di una sostanza vietata non integri una ADRV, l’ASP «shall not Use or Possess any Prohibited Substances or Prohibited Method without valid justification». Il commento all’art. 21.2.6 motiva questo divieto – che si estende oltre la portata di quello previsto dall’art. 2.6 – come segue: «In those situations where Use or personal Possession of a Prohibited Substance or Prohibited Method by an Athlete Support Person without justification is not an anti-doping rule violation under the Code, it should be subject to other sport disciplinary rules. Coaches and other Athlete Support Personnel are often role models for Athletes. They should not be engaging in personal conduct which conflicts with their responsibility to encourage their Athletes not to dope». Questo divieto integrativo viene smussato da due previsioni che si indirizzano sia alle FI, che ai comitati olimpici nazionali (art. 20.4.13). In base ad esse, gli organismi sportivi ora menzionati sono obbligati «[t]o have disciplinary rules in place … to prevent Athlete Support Personnel who are Using Prohibited Substances or Prohibited Methods without valid justification from providing support to Athletes within … [their] authority». Una violazione dell’art. 21.2.6 da parte del­l’ASP, quindi, non integra una ADRV. Gli organismi sportivi in questione, però, devono punire le violazioni della previsione sulla base delle regole disciplinari comuni [72]. La sanzione disciplinare corrispondente viene definita in maniera alquanto generica. In base ad essa all’ASP è fatto divieto di «provide support to athletes». È completamente aperto, poi, il tema sull’entità della [continua ..]


6. Accesso alla giustizia

Le decisioni emanate ai sensi del Codice WADA 2015 toccano, come logico, i diritti dei vari soggetti direttamente interessati. Ogni qual volta, però, a venire in questione siano anche gli interessi ed i diritti di terzi, deve sussistere la possibilità di una tutela giuridica degli stessi in loro favore. L’esclusione di una tutela giuridica è ammissibile soltanto in casi eccezionali ben definiti ed individuati.


6.1. Eccezione: esclusione di ogni tutela giuridica

Il Codice WADA prevede solo pochi casi in cui viene esclusa ogni tutela giuridica. Particolare rilievo, a tal riguardo, assumono le «decisioni» emanate dalla WADA. Così, ad esempio, una decisione della WADA ai sensi dell’art. 10.6.1.2 su «what it considers to be an appropriate suspension of the otherwise applicable period of ineligibility» non può essere appellata da alcun altra ADO. Un ulteriore esempio si trova all’art. 4.3.3, ai sensi del quale «WADA’s determination of the Prohibited Substances and Prohibited Methods that will be included on the Prohibited List, the classification of substances into categories on the Prohibited List, and the classification of a substance as prohibited at all times or In-Competition only, is final and shall not be subject to challenge by an Athlete or other Person …». Per garantire un trattamento uniforme a tutti gli atleti, il contenuto della «Prohibited List» – vale a dire la determinazione di quali sostanze e metodi presentino le caratteristiche per l’inclusione nella lista – viene stabilito per tutto lo sport organizzato tramite una valutazione periziale su base annuale. Tale valutazione è formulata dal «List Expert Group», vale a dire un collegio di uomini di scienza, selezionati dalla WADA per la loro esperienza a livello internazionale [73], il quale propone annualmente delle revisioni della «Prohibited List» all’esito di un procedimento trasparente, revisioni che vengono poi adottate dal Comitato Esecutivo della WADA, divenendo, in tal modo, vincolanti per tutto il movimento sportivo organizzato [74]. L’insin­da­cabilità della «Prohibited List» si spiega – oltre che sulla base del trattamento uniforme per gli sportivi – anche in considerazione del fatto che sul suo contenuto già si dispone, come si è visto, di una perizia ad opera del «List Expert Group» e, quindi, non vi è necessità di un’ulteriore verifica nei singoli procedimenti in materia di doping [75].


6.2. Concentrazione di competenza in favore del TAS

Per garantire una sua uniforme applicazione, il Codice WADA 2015 prevede – allo stesso modo delle sue precedenti versioni – una concentrazione di competenza in favore del TAS (art. 13.1). Si tratta di una giurisdizione arbitrale obbligatoria, visto che lo sportivo avrà quale unica scelta quella di accettare la relativa clausola arbitrale, oppure di rinunciare a partecipare allo sport organizzato o ad esercitare funzioni al suo interno. L’ammissibilità di una tale giurisdizione arbitrale obbligatoria è stata ultimamente contestata sia dinanzi al TAS [76], che dinanzi alle corti statali [77]. È fuor di dubbio che in un tale caso la legittimazione della competenza arbitrale, per ciò che concerne l’auto­nomia delle parti, sia limitata. Tale dato, tuttavia, non è sufficiente a far ritenere inam­missibile la convenzione di arbitrato in favore della competenza del TAS. Ciò tanto più considerando che vi sono ragioni di buona amministrazione della giustizia che pesano in favore di una concentrazione della competenza arbitrale, visto che soltanto l’arbit­rato può garantire un’applicazione uniforme del Codice WADA a livello mondiale, indipendente, in particolare, dagli interessi nazionali [78].


6.2.1. Portata sostanziale dalla clausola arbitrale

La portata sostanziale della clausola arbitrale di cui all’art. 13.1 del Codice WADA viene precisata all’art. 13.2, il quale riporta un’elencazione tassativa delle decisioni che possono essere appellate al TAS. Tale previsione contiene alcune lacune. Così, ad esempio, la possibilità di ricorrere al TAS non è prevista per le violazioni da parte del­l’ASP ai sensi dell’art. 20.4.13 (si veda quanto riportato in precedenza). L’uso di una sostanza vietata deve essere sanzionato – nel caso in cui già il mero possesso non rappresenti una ADRV – per il tramite di misure disciplinari comuni. Tali misure disciplinari non sono considerate come una ADRV. Nel caso in cui, perciò, una tale misura di­sciplinare venga effettivamente adottata, non vi sarà possibilità di appello al TAS, secondo quanto previsto dall’art. 13.2. Lo stesso vale nella fattispecie in cui una ADO abbia previsto una sanzione per il caso in cui l’ASP «does not cooperate with Anti-Doping Organizations investigating anti-doping rule violations» (art. 21.2.5), visto che anche la mancata collaborazione non rappresenta una ADRV ed è, quindi, esclusa dalla portata materiale della clausola arbitrale di cui all’art. 13.2. Delle problematiche sorgono anche con riferimento all’art. 2.10 («associazione proibita»), previsione che rappresenta – come si è visto in precedenza – una misura volta al boicottaggio. Sembra, infatti, che, sebbene tale previsione sia formalmente diretta a tutti gli atleti o altri soggetti sottoposti all’autorità di una ADO, reale destinatario della stessa sia l’ASP al quale, per il tramite di tale previsione, dovrebbe essere impedito di fornire delle prestazioni nei confronti degli altri membri della famiglia sportiva. Una sanzione irrogata nei confronti di un atleta per una ADRV ai sensi dell’art. 2.10, pertanto, inciderà non soltanto sui diritti dell’atleta, ma anche su quelli dell’ASP oggetto di boicottaggio. A differenza dell’atleta, però, quest’ultimo non sarà vincolato – se si muove al di fuori dell’ambito dello sport organizzato – né dalle previsioni del Codice WADA, né, quindi, dalla clausola arbitrale di cui all’art. 13.1. A differenza dell’atleta, dunque, l’ASP potrà [continua ..]


6.2.2. Ambito personale della clausola arbitrale

Gli Artt. 13.2.1 e 13.2.2 pongono una distinzione, per ciò che concerne le impugnazioni proponibili, con trattamenti differenziati a seconda che si abbia a che fare con un «atleta di livello internazionale», o meno, e che la fattispecie intorno a cui verte il procedimento sia relativa ad un «evento internazionale», oppure no. Una decisione di una ADO adottata in presenza di uno dei due elementi di «internazionalità» appena menzionati, infatti, potrà essere impugnata soltanto dinanzi al TAS. Qualora, invece, tali elementi non sussistano, la decisione in materia di doping dovrà essere – in via di principio – impugnata (in prima istanza) dinanzi ad un «independent and impartial body in accordance with the rules established by the National Anti-Doping Organization». Il livello «internazionale» di un atleta dovrà essere, di norma, determinato solo sulla base dei regolamenti della FI interessata [79]. Si ha a che fare con un evento internazionale, invece, quando «the IOC, the International Paralympic Committee, the International Federation, a Major Event Organization, or another international sport organization is the ruling body for the Event or appoints the technical officials for the Event». L’inda­gine relativa alla sussistenza degli elementi di internazionalità può condurre a degli esiti – almeno a prima vista – sorprendenti. Così, ad esempio, è possibile che un atleta che abbia partecipato ad un campionato nazionale venga classificato come «atleta di livello nazionale», sebbene lo stesso abbia preso parte ai Giochi Olimpici nello stesso anno [80]. Per garantire uniformità nella giurisprudenza sulle fattispecie di doping, quindi, il Codice WADA 2015 stabilisce che anche nei casi in cui per l’appello sia competente, in un primo momento, un organo nazionale indipendente ed imparziale sussista, in seconda (o ultima) istanza, una competenza del TAS. Ciò si evince chiaramente dall’art. 13.2.3 (comma 2). È controverso, tuttavia, quali soggetti possano impugnare la decisione «nazionale» al TAS. A tal riguardo, all’art. 13.2.3 si legge: «For cases under Article 13.2.2, WADA, the International Olympic Committee, the International Paralympic Committee, and the relevant International Federation shall also have the the [continua ..]


6.3. Oggetto del riesame

Il mandato del TAS nei procedimenti in materia di doping si determina essenzialmente tramite il regolamento di procedura del TAS. A questo riguardo, l’art. R57 (1) del Codice TAS prevede: «The Panel shall have full power to review the facts and the law. It may issue a new decision which replaces the decision challenged or annul the decision and refer the case back to the previous instance». Tale mandato «de novo» è soggetto a due limiti. Una prima eccezione si evince dallo stesso Codice TAS, posto che all’art. R57 (3) si legge che «the Panel has discretion to exclude evidence presented by the parties if it was available to them or could reasonably have been discovered by them before the challenged decision was rendered». Un’ulteriore eccezione si rinviene nella giurisprudenza del TAS, la quale, talvolta, interpreta tale mandato «de novo» in senso alquanto restrittivo [83]. A questo pro­posito, in un lodo del TAS [84], si legge quanto segue: «To the extent the exercise of such discretion does not run against internal rules of the association, the mandatory provisions of the law applicable or fundamental general principles of law, the Panel finds itself limited by the respect to be paid to the freedom of association to set the way to secure observance by its associates of the association rules. … To extent that the sanction is not grossly disproportionate to the offence, therefore, it is appropriate to let the sanction remain as determined by the Chamber». Le restrizioni al potere di revisione del TAS si rivelano alquanto problematiche sia con riferimento alle loro giustificazioni, che con riguardo alle loro conseguenze. Un collegio del TAS ha formulato queste preoccupazioni nel seguente modo [85]: «CAS Panels in the past have contrary to the clear wording accepted restrictions to art. R57 of the CAS Code, where the first instance was – in view of the very special circumstances of the case and/or in view of its technical expertise – in a better position to decide the matter (e.g. field of play decisions). However, no such specific situation is given in the case at hand. The rules that are at stake here are based on the WADC, the purpose of which is to ensure the uniform application of anti-doping standards throughout the world and across all sports. The Sole Arbitrator cannot see why a federation would have more expertise in [continua ..]


7. Da una politica anti-doping quantitativa ad una qualitativa

L’efficacia di una politica anti-doping viene, ancora oggi, misurata in maniera prevalentemente quantitativa. Così, ad esempio, nel «Factsheet – The Fight against Doping and Promotion of Athletes’ Health – Update January 2014» [86] si legge: «Since then [creation of WADA in 1999] [87], the IOC has stepped up the number of tests (from 2,359 at Sydney in 2000 to 5’051 at London in 2012)». I soli numeri dicono, però, ben poco sull’efficacia delle rispettive politiche antidoping. Le statistiche, infatti, nascondono diversi aspetti. Le statistiche, in primo luogo, non rivelano che i campioni biologici prelevati dagli atleti non vengono testati nei vari laboratori per tutte le sostanze riportate sulla «Prohi­bited List». I laboratori, invece, analizzano di norma i campioni solo per una parte delle sostanze riportate sulla «Prohibited List», vale a dire solo per uno «standard menue» [88]. Così, ad esempio, il campione biologico di un atleta sarà testato per l’ormone della crescita («hGH») soltanto nel caso in cui l’ADO, sotto la cui autorità il campione sia stato prelevato, abbia richiesto espressamente tale esame. Ancora, se per il campione biologico prelevato da un atleta che pratichi uno sport di resistenza non viene commissionata una apposita analisi per l’EPO, una simile sostanza non sarà riscontrata. I motivi per i quali queste analisi aggiuntive non vengono commissionate possono essere molteplici. Da un lato, queste analisi aggiuntive comportano un notevole aggravio di costi, visto che per esse è previsto un pagamento aggiuntivo. Se, quindi, si volesse sottoporre a tali analisi aggiuntive tutti i campioni prelevati, sarebbe necessario ridurre il numero di test anti-doping (e, quindi, di campioni prelevati). Ciò può dar luogo a potenziali polemiche quando – come di norma avviene – le cifre vengono pubblicate. Dall’altro lato, poi, non tutti i laboratori sono in grado di condurre tutte le analisi aggiuntive. Se, quindi, una ADO lavora (volontariamente o per previsione legale) prevalentemente con un laboratorio che manchi delle capacità di cui si tratta, le sostanze per le quali i controlli aggiuntivi dovrebbero condursi non verranno mai controllate. Potrebbe, infine, anche accadere che una ADO non abbia alcun interesse a far [continua ..]


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