Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Una lettura alternativa circa l´argomento della specificità dell´attività sportiva alla luce delle norme di concorrenza in europa* (di Massimiliano Granieri, Professore associato di Diritto privato comparato presso l’Università degli Studi di Brescia.)


This article is concerned with the question of the applicability of antitrust rules to sport and the rationale behind the claim that because of the social role and peculiarities of sports there should be immunity from antitrust rules. Although there has been an, attempt – also in case law – to support the idea of sporting activities as intrinsically not economic and thus not subject to antitrust scrutiny, eventually antitrust came to play a fundamental role to shape the behavior of those involved in sports. This article aims at reviewing the application of antitrust rules to sport and to show how the argument of specialty became an internal parameter of antitrust rules and their application to sport.

SOMMARIO:

1. Il tema della specificità dell’attività sportiva e l’applicazione delle norme di concorrenza - 2. Soggetti rilevanti del fenomeno sportivo ai fini dell’analisi antitrust. - 3. Applicabilità delle norme antitrust (artt. 101 e 102 TFUE) allo sport. Conseguenze e svantaggi di un’applicazione decentrata - 4. Il Wouter test e l’argomento della specificità dell’attività sportiva. Una lettura alternativa - 5. Conclusioni - NOTE


1. Il tema della specificità dell’attività sportiva e l’applicazione delle norme di concorrenza

Non solo in Europa, si è assistito in passato a tentativi, tanto a livello di applicazione giurisprudenziale, quanto con il contributo della dottrina, di sottrarre il fenomeno sportivo – già di per sé connotato di autonomia all’interno degli ordinamenti giuridici – all’applicazione delle norme di concorrenza, sulla scorta dell’argomento della specificità dell’attività sportiva [1]. Si è detto, cioè, che la peculiarità della manifestazione sportiva, dei suoi attori, delle rispettive organizzazioni, a partire da quelle dilettantistiche e fino alle istituzioni internazionali, sarebbe caratterizzata da una dimensione (prevalentemente) non economica o non commerciale che avrebbe come conseguenza quella di escludere che la logica delle norme di concorrenza e la finalità del diritto antitrust siano estensibili, come tali, al mondo dello sport [2].

Negli Stati Uniti, prima ancora che in Europa, l’esenzione antitrust per lo sport aveva ricevuto un avallo decisivo da parte della Corte Suprema, quanto meno con riferimento al baseball, che notoriamente è lo sport statunitense per eccellenza [3]. Nella dinamica dell’ordinamento federale, concorreva a questa visione la circostanza che l’evento sportivo era prevalentemente statale e i riflessi interstatali rimanevano limitati; caratteristica irrilevante di per sé, ma non per l’ordinamento statunitense, in cui lo Sherman Act, di cui si invoca l’applicazione, è una porzione della legislazione federale [4]. Sfruttando la competenza degli stati, in non poche occasioni, le organizzazioni locali avevano anche avuto buon gioco nell’ottenere dai parlamenti locali regimi ulteriori di esenzione e privilegio [5].

La dimensione prevalentemente non commerciale dello sport, che giustificava l’immunità, è venuta meno – ancora una volta prima negli Stati Uniti che in Europa – con l’avvento delle trasmissioni televisive e delle vicende relative al commercio dei diritti di ritrasmissione degli eventi [6]. Le conseguenze di questa evoluzione mutano lo scenario. In primo luogo, perché la manifestazione sportiva e, nel complesso, i campionati divengono improvvisamente eventi a diffusione non locale, travalicando i confini dei singoli stati e fornendo un’occasione di applicazione alle norme federali. In secondo luogo, perché a fronte della rilevanza degli eventi e dell’esposizione mediatica, l’atleta come singolo assume ora maggiore potere contrattuale, che non aveva in precedenza se non a livello sindacale (ragione per la quale erano state introdotte esenzioni anche a favore della contrattazione collettiva, al fine di assicurare che l’autono­mia privata potesse rappresentare un adeguato strumento di bilanciamento del potere negoziale ed economico delle organizzazioni sportive), costringendo a una riconsiderazione dei presupposti iniziali di un trattamento differenziato. E infine perché il mondo delle trasmissioni sportive aggiunge all’interesse non commerciale (talvolta minimizzandolo) quello economico connesso con lo sfruttamento degli eventi e delle immagini degli sportivi, le sponsorizzazioni, le scommesse [7].

L’argomento dell’immunità – che anche in Europa ha avuto il suo fascino e il suo credito – è stato progressivamente eroso dalle vicende giurisprudenziali che hanno interessato il fenomeno sportivo di fronte a giudici e autorità antitrust (nazionali, così come europee). Fin quando è stato condiviso, questo argomento, prima ancora che sul piano giuridico si è alimentato, sul piano della logica, di un paradosso perché la specificità dell’attività sportiva dovrebbe, semmai, portare ad un aumento dell’esigenza di controllo sulle condotte dei soggetti coinvolti, proprio per la natura stessa delle norme di concorrenza come tecniche di controllo sociale dirette ad assicurare un processo, quello competitivo, che dell’attività sportiva è l’essenza [8].

Certo, competizione sul piano economico e competizione agonistica non sono necessariamente la stessa cosa, almeno se si guarda allo sport semplicemente dal punto di vista del gioco come tale e non del gioco nel contesto di un’organizzazione che lo rende possibile. E, tuttavia, è proprio la constatazione che lo sport non è più soltanto un insieme di competizioni e di regole del gioco ad aver alimentato una visione progressivamente più complessa e la necessità di un’analisi sub specie juris che coinvolga anche il parametro delle regole di concorrenza.

Da un certo punto di vista, quello della specificità come espediente per invocare l’esistenza di una zona franca per lo sport, non è una novità assoluta o un tentativo rispetto al quale l’ordinamento sportivo può vantare una qualche esclusiva [9]. Diverse attività economiche hanno rivendicato, di volta in volta, la propria particolarità e la sussistenza di interessi superiori che avrebbero comportato la messa a repentaglio dell’attività stessa ove la logica antitrust fosse entrata ‘a gamba tesa’ – per così dire – in quel determinato comparto [10]. Non sarà fuori luogo ricordare che il settore bancario – che è per definizione un settore economico – a lungo ha preteso (e in qualche modo ottenuto) un trattamento differenziato sulla base dell’argomento della rilevanza del rischio sistemico.

L’esito è noto, per l’attività bancaria, così come per lo sport e, in generale, per tutte le attività che hanno un riflesso sul mercato: l’antitrust è pervasivo – in Europa anche in ragione della posizione normativa assunta rispetto al processo di integrazione europea – e la sua incidenza è progressivamente aumentata negli anni, lasciando ben poco di non soggetto alle regole di concorrenza, soprattutto in considerazione dell’incre­mento delle finalità che si vuole riconnesse all’antitrust stesso [11].

Con riferimento al mondo sportivo, l’interesse che, dall’interno, giustifica i tentativi di esenzione dall’applicazione delle norme antitrust è presto detto. Il movimento sportivo rispetto all’ordinamento giuridico generale gode universalmente di autonomia, che si declina dal punto di vista normativo, dal punto di vista organizzativo e dal punto di vista giurisdizionale [12]. Non vi è dubbio sul fatto che il momento organizzativo è una precondizione sia delle attività agonistiche che danno vita ai vari sport, sia delle funzioni normative e giurisdizionali, che si esercitano a livello di associazioni sportive e poi di federazioni nazionali e internazionali [13]. La dimensione organizzativa e comportamentale sono quelle di diretta incidenza delle norme antitrust, sicché il controllo sociale che ne consegue finisce per ripercuotersi inevitabilmente sull’ordina­mento sportivo nel complesso, rischiando di comprimerne l’autonomia [14]. La casistica antitrust, in effetti, quando si è misurata con l’attività sportiva (e non con quelle economiche ad essa collegate, come la gestione dei diritti televisivi oppure la vendita dei biglietti delle manifestazioni) ha avuto riguardo agli aspetti organizzativi e a quelli regolamentari e, secondo alcuni studi, proprio l’estensione del controllo antitrust sul mondo dello sport professionistico avrebbe concorso a dar forma anche alla sua dimensione finanziaria [15].

Sulla scorta delle premesse appena svolte, resta da chiedersi quale merito abbia ancora l’argomento della specificità e se – come si cercherà di dimostrare nei paragrafi che seguono – esso giochi un ruolo nell’applicazione delle norme antitrust al mondo dello sport a livello europeo.


2. Soggetti rilevanti del fenomeno sportivo ai fini dell’analisi antitrust.

Mette conto chiedersi, in prima battuta, chi siano i soggetti del mondo dello sport che sono (o divengono) contestualmente rilevanti per l’antitrust [16]. Certamente lo sportivo a livello individuale, sia esso dilettante o professionista, è il cardine dell’ordina­mento e in più di un’occasione – a partire dalla vicenda Bosman – si è posta la questione della rilevanza dell’individuo come soggetto direttamente destinatario delle norme sulla concorrenza.

Più spesso, i protagonisti delle vicende antitrust sono state le squadre e (soprattutto) le federazioni e le leghe, sia dal punto di vista delle condotte collettive, sia dal punto di vista degli abusi della posizione egemone detenuta dalle federazioni (sia nazionali sia internazionali), eventualmente nella versione della posizione dominante congiunta [17]. Che si tratti di soggetti di natura imprenditoriale è ormai assodato, alla luce dell’approccio funzionale seguito dalla Commissione nella rilevazione degli indici che connotano l’esistenza di un’attività economica [18]. La sostanza delle attività o delle funzioni prevale sulla formale qualificazione giuridica e sono stati proprio i casi sportivi a contribuire a questo orientamento [19].

Sia i profili individuali sia quelli collettivi presentano aspetti utili alla trattazione dell’argomento della specificità.

La posizione del singolo sportivo, rispetto alla squadra o alla lega o alla federazione, si è visto assumere un rilievo particolare dal punto di vista della valutazione degli accordi collettivi, vuoi per quanto riguarda l’aspetto più propriamente lavoristico, vuoi per quanto concerne più da vicino la possibilità che l’autonomia privata esercitata a livello collettivo possa divenire una forza di bilanciamento nei processi di negoziazione. Da questo punto di vista, l’argomento non è dissimile dai postulati generali del­l’antitrust rispetto al tema della contrattazione collettiva in materia di lavoro [20].

Squadre, leghe e federazioni sono state sin da subito le protagoniste delle vicende antitrust e le dirette interessate di quella dimensione pervasiva dell’antitrust che influisce sugli aspetti organizzativi, giustiziali e normativi. Come si vedrà, proprio l’eser­cizio del potere normativo da parte delle federazioni nazionali e internazionali è stato considerato sintomatico di condotte abusive che hanno generato la responsabilità delle stesse di fronte a giudici e autorità [21].

Quando le ragioni dell’esenzione, fondate sulla natura non prevalentemente commerciale dell’attività sportiva, erano assorbenti, il potere normativo era strumentale alla definizione delle regole di un gioco inteso soltanto come attività ricreativa o di intrattenimento. Lo stesso potere, rispetto a finalità economiche (o prevalentemente tali), può divenire – e in alcuni casi è stato certamente così – uno strumento di abuso, dalle notevoli ricadute sul piano economico.

Mentre l’assoggettamento all’antitrust degli enti collettivi è in qualche modo assodato e necessario, visti i mutamenti ancora in atto, non è ancora del tutto chiarita la posizione dell’individuo, anche se le autorità antitrust hanno finora escluso che lo sportivo professionista possa considerarsi al pari dell’impresa come destinatario delle norme imperative del diritto della concorrenza. Strumentalmente, nel caso Bosman, gli avvocati del giocatore avevano tentato di argomentare in questo senso, per l’esigenza di far comparire il giocatore professionista come direttamente leso dalla condotta abusiva della federazione alla quale esso apparteneva. A parte le difficoltà logiche nel sostenere una ricostruzione di questo tipo, va detto che l’elaborazione normativa in materia di danno antitrust si è evoluta e il novero dei soggetti danneggiati è stato ampliato, al punto tale da rendere superflua la ricostruzione del giocatore come imprenditore per il riconoscimento a suo favore della legittimazione attiva all’azione risarcitoria nei confronti di condotte di abuso.


3. Applicabilità delle norme antitrust (artt. 101 e 102 TFUE) allo sport. Conseguenze e svantaggi di un’applicazione decentrata

L’applicazione del diritto antitrust (soprattutto per quanto riguarda gli artt. 101 e 102 TFUE) passa per il riscontro di una serie di elementi normativi all’interno delle fattispecie concrete. In primo luogo, il riconoscimento della natura imprenditoriale in capo ai soggetti del fenomeno sportivo (cfr., retro, paragrafo precedente) [22]. In secondo luogo, la presenza di restrizioni apprezzabili e, dunque, l’interferenza con il processo concorrenziale. In terzo luogo, relativamente alle intese, la valutazione degli effetti delle condotte restrittive sul mercato rilevante nonché, per le condotte individuali, la configurazione di abusi della posizione egemone [23].

Si tratta di passaggi obbligati, nel mettere in discussione i quali anche il mondo dello sport ha cercato, di fronte alla Corte di giustizia, di far valere le proprie ragioni. Per esempio, in Meca-Medina gli sportivi lamentavano nei confronti del CIO tre distinti, ma collegati, profili di abuso (si tratta di argomenti ai quali corrispondono tesi speculari e contrapposte dei convenuti) [24]. In primo luogo, si dolevano dell’esistenza di un’intesa che si sarebbe estrinsecata sul piano regolatorio, nella fissazione di una soglia di tolleranza della sostanza dopante vietata sulla base di «scarse basi scientifiche» (§ 16) e che avrebbe avuto, di conseguenza, effetti ingiustificatamente escludenti per chi si fosse trovato al di sopra dei valori soglia per effetto della normale attività ormonale umana o per il consumo di particolari alimenti. In secondo luogo, additavano lo stesso profilo organizzativo del comitato internazionale come problematico, per aver istituito un meccanismo di responsabilità oggettiva, in base al quale lo sportivo risponde a prescindere dalla possibilità di provare le ragioni a proprio favore. Infine, ritenevano che l’istituzione di organi competenti per la soluzione arbitrale delle controversie in materia di sportiva (vale a dire il TAS e il CIAS) era priva dei necessari caratteri di indipendenza rispetto al CIO (quindi, sul piano giustiziale) e avrebbe avuto la conseguenza di rafforzare gli effetti già restrittivi dell’intesa [25]. Dunque, come si vede, gli stessi fattori attraverso i quali si estrinseca l’autonomia delle federazioni e dei comitati olimpici vengono letti in controluce come gli elementi ordinati di una architettura attraverso la quale si manifesta un’intesa restrittiva che danneggia lo sportivo alla base dell’organizzazione complessiva, in tutti i suoi risvolti. Ed è altrettanto evidente che ammettere l’intervento antitrust esattamente sui predetti profili concreta a tutti gli effetti un’ingerenza nel cuore del fenomeno.

Dei vari aspetti di cui si chiede riscontro nell’applicazione delle norme antitrust proprio sui comportamenti ci si deve soffermare, perché siffatto elemento rappresenta il punto finale di caduta di tutte le considerazioni riguardanti l’idoneità della fattispecie concreta a incidere sul mercato. Se, infatti, non vi sono argomenti per escludere la natura di intesa o la ricorrenza di posizione dominante congiunta in capo alle aggregazioni di soggetti sportivi e se è indubbio che taluni comportamenti (sul piano regolatorio, organizzativo, giustiziale) sono restrittivi, la vera questione diviene quella di comprendere se l’argomento della specificità abbia (ancora) un ruolo nella valutazione concreta degli effetti delle condotte e, quindi, sia elemento in grado di escludere o attenuare la responsabilità antitrust [26]. Dunque, l’argomento della specificità come giustificazione dell’immu­nità è stato superato. Resta, invece, da capire più nel dettaglio in che misura esso possa influenzare (e abbia finora influenzato) l’applicazione delle norme antitrust allo sport, come del resto sottolineato – a livello di necessità istituzionale – proprio dalla Commissione europea nei vari documenti politici sullo sport adottati negli ultimi anni.

Se si guarda alle controversie genuinamente sportive (non quelle legate ad interessi esterni alla competizione, come nel caso dei diritti televisivi o alle scommesse), sul piano della valutazione dei comportamenti delle federazioni e dei comitati olimpici va detto che è una costante il fatto che il contenzioso sia quasi sempre avviato dagli sportivi, che si assumono lesi dai poteri regolatori delle organizzazioni [27]. Gli sportivi, come si è già avuto modo di dire, non sono però in rapporto di concorrenza con le rispettive federazioni e la Corte di giustizia ha negato loro la natura imprenditoriale. La condotta delle organizzazioni sportive cui appartengono però è stata considerata, da Bosman in avanti, come plurioffensiva, cioè capace di ledere contemporaneamente sia gli interessi degli sportivi (dal punto di vista della libertà di circolazione e di prestazione dei servizi) che quelli del mercato nel suo complesso [28].

Questa caratteristica di plurioffensività è stata però, almeno in un caso, oggetto di equivoco e di interpretazione sbagliata [29]. In Meca-Medina, il Tribunale di primo grado (ed è la Corte a correggerne il tiro) incorre in errore di diritto quando ritiene che un regolamento puramente sportivo (si trattava, evidentemente, di quello relativo ai controlli contro il doping), il quale in ragione della sua natura non ricade nell’ambito di applicazione delle norme sulla libera circolazione, sia per questo soltanto estraneo ai rapporti di concorrenza [30]. La decisione non ammette equivoci; ove anche si ritenga che le restrizioni praticate dai soggetti dell’organizzazione sportiva non violino le norme sulla libera circolazione «perché riguardano questioni che interessano esclusivamente lo sport e, come tali, sono estranee all’attività economica (…), tale circostanza non implica né che l’attività sportiva esuli necessariamente dall’ambito di applicazione degli artt. 81 CE e 82 CE [ora 101 e 102, TFUE rispettivamente] né che dette norme non soddisfino i presupposti per l’applicazione propri dei detti articoli» (§ 31) [31].

Incidentalmente, in Meca-Medina, fu proprio l’errore di diritto del Tribunale a consentire l’annullamento della sentenza e, ai sensi dello Statuto della Corte, l’assunzione della decisione nel merito, con la quale la Corte ha avuto modo di aggiungere alcune considerazioni importanti sulla specificità dell’attività sportiva ai fini della valutazione di compatibilità tra la restrizione e l’art. 101.


4. Il Wouter test e l’argomento della specificità dell’attività sportiva. Una lettura alternativa

In Meca-Medina, dopo aver di fatto cancellato la nozione di regole meramente sportive [32] – ovvero aver destituito la nozione stessa della capacità di fungere da scher­mo alle norme sulla concorrenza – la Corte di giustizia, in maniera da taluni ritenuta discutibile [33], ha compiuto un’operazione interpretativa che ha portato l’estensione del test Wouters al mondo dello sport [34]. Si tratta di una scelta che passa per una innegabile forzatura, quale quella di applicare per analogia allo sport uno standard di interpretazione creato per una professione regolamentata (la fornitura di servizi legali e contabili) com’era quella della giurisprudenza Wouters [35].

Per quanto criticabile, l’uso dell’analogia da parte del giudice in posizione apicale è insindacabile [36]; è là che si fissano i precedenti e, per quanto discutibili, essi vanno poi accettati per quello che sono, cioè parte del diritto vivente. L’unica vera ragione, per quanto labile, di possibile accostamento tra i due ambiti è quello della pretesa specificità di ciascuno; in entrambi i casi si trattava di attività non facilmente riconducibile alla mera prestazione di servizi tipica di mercati non regolamenti e rispetto alla quale possono essere coinvolti valori ulteriori rispetto al mero interesse economico di un ideale consumatore.

Ora, rispetto alle critiche seguite alla decisione in Meca-Medina, si tratta di capire se effettivamente il test Wouters sia inappropriato ovvero se, proprio in ragione delle particolarità del mondo dello sport (così come quelle di professioni, sì molto lontane, ma certamente a loro volta distintive), il suo richiamo non valga, in realtà, a dare un vantaggio, in sede di difesa (non in senso tecnico), all’organizzazione sportiva tacciata di restringere, falsare o impedire il gioco della concorrenza nel mercato rilevante con comportamenti che, quanto all’oggetto o per gli effetti, si assumono lesivi del processo concorrenziale. Non è detto che questa proposta di lettura alternativa corrisponda ad una precisa aspettativa o a un’intenzione della Corte di giustizia; anzi, è probabile che allora non fosse ancora del tutto chiaro come la sentenza avrebbe potuto, a sua volta, essere oggetto di interpretazione, soprattutto in ragione del fatto che, spesso, la Corte è cauta e sottopone le decisioni a condizioni affatto particolari, lasciando concretamente agli interpreti i dubbi e la discrezionalità necessari perché il principio di diritto enunciato possa essere esteso ad ambiti ulteriori.

Come è stato correttamente notato, nei passaggi applicativi richiesti dagli artt. 101 e 102 TFUE, la concreta applicazione del test della giurisprudenza Wouters si situa in posizione intermedia, tra il riscontro della presenza di un’impresa o di un’associazione di imprese (circostanza che ormai è fuori discussione per quanto riguarda le federazioni sportive) e i passaggi successivi relativi alla verifica del pregiudizio al commercio tra Stati membri [37] e, in maniera subordinata, all’accertamento degli elementi che, a mente del terzo comma dell’art. 101, possono escludere la responsabilità pur in presenza di una restrizione [38].

In assenza di un’indicazione metodologica come quella sancita dalla Corte di giustizia e della quale si discorre, la dinamica delle azioni antitrust nelle vicende sportive sarebbe quella consueta, nella quale è l’autorità (in Europa, la Commissione) a dover provare la natura restrittiva dell’intesa e la controparte ad addurre argomenti contrari o, nel caso di accertata restrizione, elementi in grado di soddisfare (cumulativamente, si badi) le quattro condizioni previste dall’art. 101, comma 3. Non si può dire che, in questa seconda ipotesi, l’onere della prova a carico del convenuto nell’azione antitrust sia agevole, soprattutto quando la Commissione, come spesso – a torto o a ragione e tra le critiche di molti – ha fatto, mostra di considerare talune restrizioni come pericolose quanto all’oggetto, sollevandosi autonomamente dall’onere di provare gli effetti restrittivi o escludenti che a lei incomberebbe a mente del primo comma dell’art. 101.

Vi è invece ragione di ritenere che, quanto meno con riferimento alle attività delle federazioni sportive, i tre elementi del test Wouters non solo sono più alla portata, ma siano anche in qualche modo idonei a dare ingresso nel ragionamento agli argomenti sulla specialità dell’attività sportiva, rendendo più agevole il compito di chi deve difendersi dall’accusa di comportamenti che rientrano nell’art. 101, comma 1. Ciò non vale evidentemente a ricreare un regime di esenzione, quanto piuttosto a riconciliare l’esigenza di un’applicazione generalizzata delle norme di concorrenza con le caratteristiche tipiche di taluni settori.

Per sommi capi, in Wouters la Corte di giustizia ha chiarito che non tutti gli accordi tra imprese che abbiano effetti restrittivi ricadono per questo nell’ambito di applicazione dell’art. 101 (all’epoca del giudizio, 85) (cfr. § 97 della decisione), introducendo quindi gli elementi che a suo dire devono essere presi in considerazione per una verifica in concreto. Ed è con riferimento a questa precisa constatazione che la Corte ha introdotto gli elementi di valutazione che poi sarebbero stati classificati come i tre termini del test Wouters. A leggere attentamente questo passaggio della decisione, occorre concludere che il soddisfacimento delle condizioni del test eviterebbe addirittura la riconducibilità dell’accordo o della decisione dell’associazione di imprese ad una fattispecie soggetta all’art. 101, con il non trascurabile effetto di porre la Commissione non soltanto nella condizione di non poter ricorrere all’argomento della restrizione per l’oggetto, ma anche di doversi puntualmente fare carico di applicare il test alla fattispecie concreta.

Al dunque, prima di tutto bisogna guardare al contesto globale di adozione della decisione che si assume restrittiva e, in particolare, ai suoi obiettivi, cioè alle ragioni (si deve aggiungere: quelle tipiche del contesto, che con riguardo al mondo sportivo sono quelle della competizione e della relativa organizzazione) che ispirano la decisione. Questo vale a far assumere alla Commissione la prospettiva interna al mondo dello sport, dove sebbene in progressivo affievolimento permangono tuttavia interessi anche di natura non economica che richiedono di essere presi in considerazione.

In secondo luogo, occorre verificare se gli effetti della decisione che si assumere restrittiva siano inerenti al perseguimento degli obiettivi. E anche con riferimento a ciò vi è spazio per tenere conto delle particolarità complessive del contesto in cui gli effetti dovranno dispiegarsi per valutare la pertinenza della restrizione.

Infine, deve aversi riguardo alla proporzionalità della restrizione, che in concreto significa verifica della indisponibilità di alternative meno restrittive. Riferita al mondo dello sport, anche la proporzione tra finalità e mezzi lascia ampio margine di discrezionalità all’ente sportivo che adotta la misura asseritamente restrittiva, soprattutto perché la finalità è tutta interna all’ordinamento sportivo in questo caso e, dunque, esposta a tutti gli argomenti circa la specificità e la molteplicità di valori coinvolti nell’agone sportivo e nella relativa organizzazione.

Visto in quest’ottica, il test di Wouters – che non ha applicazione generalizzata ma che rappresenta un regime circoscritto – offre ampi margini ai soggetti sportivi quanto meno sul piano dell’argomentazione; molto più ampi di quelli che sarebbero disponibili a fronte della convinzione, da parte della Commissione, che una pratica è restrittiva quanto al suo oggetto e, come tale, inevitabilmente catturata dall’art. 101, primo comma. Circostanza, quest’ultima, che facilmente sposterebbe gli equilibri tra le parti, ribaltando l’onere, ben più gravoso, da parte dell’organizzazione sportiva, di farsi carico della dimostrazione che sussistono, nonostante la natura restrittiva dell’accordo o della decisione assunta, i quattro requisiti di esenzione previsti al quarto comma dell’art. 101 [39]. Sembrerebbe che l’accoglimento del Wouters test in sede di istruttoria – pur non avendo istituzionalizzato la rule of reason nel mondo dello sport [40] – abbia persino rafforzato l’onere della prova a carico della Commissione.

Si può discutere se fosse appropriata la valutazione che ha portato – forse frettolosamente – la Corte di giustizia ad estendere il test Wouters al mondo dello sport, ma se si guarda ai possibili risvolti applicativi non è detto che ciò sia necessariamente un male, soprattutto perché il riscontro di tutti e tre gli elementi del test Wouters in realtà consentirebbe alla Commissione e ai soggetti sportivi di valutare e far valere in pieno gli argomenti relativi non soltanto alla specialità dello sport, ma eventualmente anche a quelli della singola disciplina.

Non si è in presenza di un trattamento di favore per il mondo dello sport ma di un tentativo – che solo le successive vicende diranno se riuscito o no – di concedere spazio all’argomento della specificità senza compromettere l’applicazione delle norme antitrust [41]. Bisogna peraltro considerare che questo standard di valutazione, nella misura in cui si affida anche a valutazioni di pertinenza e proporzionalità, il test Wouters, costituisce un segnale alle organizzazioni sportive, che potranno sempre valutare preventivamente l’offensività delle proprie norme interne quanto meno verificando se sono praticabili soluzioni alternative. Tutto ciò non è di poco conto se si tiene presente che in un regime decentrato e di eccezione legale, come quello inaugurato dal Regolamento 1/2003, rientra nella responsabilità dell’organizzazione sportiva la valutazione della distanza tra il suo comportamento e le previsioni dell’art. 101 e una guida, seppur minima, è molto meglio che assenza completa di indicazioni.


5. Conclusioni

Se l’argomento della specificità dell’attività sportiva e quello conseguente della produzione di regole meramente sportive da parte delle organizzazioni hanno perso mordente come espedienti per invocare la totale immunità dall’applicazione delle norme antitrust, si deve probabilmente anche al progressivo, e talora assorbente, avanzamento degli interessi economici che circondano le attività sportive professionistiche o semi-professionistiche. Anche ciò che apparentemente sembra lontano da immediate ricadute sul mercato in realtà può avere implicazioni significative circa l’urgenza di controllo da parte del diritto nazionale o europeo, per quanto riguarda più da vicino l’esperienza giuridica da questa parte dell’oceano Atlantico.

Vi è tuttavia ragione di credere che non sia soltanto il cambiamento di natura dello sport a giustificare l’intervento dell’apparato amministrativo. Vi è un movimento anche nel diritto antitrust, talvolta non generalmente condiviso (e probabilmente non del tutto condivisibile), di apertura alla tutela di valori ulteriori rispetto all’efficienza economica e al benessere dei consumatori [42]. I confini di questa nuova dimensione del diritto della concorrenza non sono ancora del tutto definiti, ma il risultato è già in parte chiaro: non vi possono essere zone franche ove allignano interessi economici che non siano raggiungibili e praticate dall’antitrust. E per effetto del contestuale spostamento di baricentro del mondo sportivo dalla competizione come tale al suo significato anche economico, le due aree si sono incontrate, con gli effetti che sono stati descritti nei paragrafi che precedono.

Anche le conseguenze, almeno in Europa, dell’incontro del mondo sportivo con l’appa­rato antitrust non sono ancora del tutto chiare; quale siano le prospettive di estensione della disciplina sul risarcimento del danno antitrust nei casi di abuso delle federazioni sportive è materia che attende verifica, anche sul piano applicativo [43]. Ve ne possono essere altre.

Non è il caso di generalizzare in questa sede, ma se l’esenzione non è più una soluzione percorribile e non più opportuna alla luce dei cambiamenti – ammesso che lo sia mai stata – non per questo le norme antitrust dovranno trovare applicazione in maniera indistinta in tutti gli ambiti di rilevanza dell’attività anticoncorrenziale delle imprese, anche sportive. È precisamente per questa ragione che l’orientamento recente della Corte di giustizia, ancorché ancora esiguo e non consolidato, può fornire un iniziale contributo a una applicazione del diritto della concorrenza all’interno della quale la specificità passa da iniziale ragione di esenzione a ragione di trattamento differenziato.

A fronte dell’impossibilità di invertire completamente la rotta a favore di un ritorno al non precisato passato, l’alternativa sarebbe stata una totale e incondizionata applicazione del diritto antitrust allo sport. Il precedente Wouters ha rappresentato, in mancanza d’altro, un appiglio, certamente perfettibile, ma per ora suscettibile di un’in­terpretazione e di un’applicazione non del tutto svantaggiose per l’ordinamento sportivo.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che, con l’applicazione decentrata del diritto antitrust, molte risposte verranno dai giudici e dalle autorità nazionali e il ruolo della Corte tornerà ad essere principalmente quello nomofilattico; non mancheranno allora le occasioni per correggere il tiro e fornire indicazioni più precise ai giudici europei e agli operatori in generale riguardo ai rapporti con le norme sulla concorrenza e al modo con il quale esse dovranno trovare applicazione alla dimensione organizzativa, regolatoria e giustiziale del mondo sportivo.


NOTE

* Questo lavoro è destinato agli Scritti in onore di Roberto Pardolesi. Esso riprende, con le inevitabili integrazioni e l’aggiunta di note, il testo della relazione sulla specificità dell’attività sportiva nella prospettiva del diritto antitrust al convegno «L’Europa e lo sport. Profili giuridici, economici e sociali», tenutosi a Bergamo il 24 novembre 2017.

[1] Una trattazione abbastanza completa (anche se ormai fortemente datata) delle condizioni che hanno circondato, con regime di favore, il mondo dello sport rispetto alla normativa antitrust si trova in P.J. Closius, Professional Sports and Antitrust Law: The Ground Rules of Immunity, Exemption, and Liability, in A.T. Johnson, J.H. Frey (eds.), Government and Sport. The Public Policy Issues, New Jersey, 1985, p. 140 ss.

[2] Sui rapporti tra sport e concorrenza la letteratura è alluvionale, sebbene l’argomento della specificità sia stato affrontato soltanto marginalmente; tra i contributi più recenti cfr. A. Pastena, Sport and competition law in the European Union, in Annuario dir. comparato, 2015, p. 577; S. Bastianon, Sport, antitrust ed equilibrio competitivo nel diritto dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2012, p. 485; G. Barozzi Reggiani, Antitrust e ordinamento sportivo: un rapporto difficile, in Dir. economia, 2011, p. 159.

[3] Federal Baseball Club of Baltimore, Inp. v. National League of Professional Baseball Clubs, 259 U.S. 200 (1922); il relatore è nientemeno che Oliver W. Holmes. La decisione negli anni si è guadagnata una pletora di critiche, a partire da G.R. Roberts, The Case for Baseball’s Special Antitrust Immunity, 4 J. Sports Econ. 302, 307 (2003) (secondo cui l’esenzione «has enjoyed almost no support except from the baseball hierarchy itself»); S.J. Matzura, Will Maple Bats Splinter Baseball’s Antitrust Exemptions?: The Rule of Reason Steps to the Plate, 18 Widener L.J. 975, 995 (2009) (l’esenzione è una «aberration and lightening rod for criticism by courts, members of Congress, and scholars»); Note (A.E. Borteck), The Faux Fix: Why a Repeal of Major League Baseball’s Antitrust Exemption Would Not Solve Its Severe Competitive Balance Problems, 25 Cardozo L. Rev. 1069, 1080 (2004), che riconosce quanto l’esenzione sia stata pesantemente criticata dalla dottrina giuridica. Essa è tuttavia difesa negli ultimi anni da N. Grow, In Defense of Baseball’s Antitrust Exemption, 49 Am. Bus. L.J. 211 (2012). Ancora, di recente, sull’organizzazione delle attività sportive per mezzo degli enti intermedi e le norme antitrust, cfr. M.P. Anderson, Self-regulation and League Rules under the Sherman Act, 30 Cap. U. L. Rev. 125 (2002), ove ampia discussione sulla «truncated rule of reason analysis», intesa come giudizio di cognizione intermedio tra la condanna per sé e l’esenzione, risalente alla decisione della Corte suprema nel caso NCAA v. Bd. of Regents, 468 U.S. 85 (1984).

[4] Come ebbe modo di affermare la Corte in quella circostanza, «[t]he business is giving exhibitions of baseball, which are purely state affairs. It is true that in order to attain for these exhibitions the great popularity that they have achieved, competitions must be arranged between clubs from different cities and States. But the fact that in order to give the exhibitions the Leagues must induce free persons to cross state lines and must arrange and pay for their doing so is not enough to change the character of the business», ibid., p. 208 s. Le stesse argomentazioni hanno supportato l’esenzione a favore del football; per tutti gli opportuni richiami di giurisprudenza e una descrizione della sua evoluzione cfr. il resoconto Professional football immune from Sherman Act as a team sport not constituting interstate commerce, in 105 U. Pa. L. Rev. 110 (1956).

[5] Per un breve resoconto delle vicende statali cfr. P.J. Closius, Professional Sports and Antitrust Law, cit., p. 142.

[6] Il primo caso relativo alle trasmissioni televisive di eventi sportivi, in cui i giudici di merito hanno ritenuto di doversi discostare dal precedente della Corte suprema, è stato U.S. v. National Football League, 116 F.Supp. 319, E.D.Pa. (1953).

[7] Per una riflessione iniziale da una prospettiva interna al fenomeno sportivo cfr. M. Coccia, Diritti televisivi sugli eventi sportivi e concorrenza, in Mercato, concorrenza, regole, 1999, p. 519.

[8] I valori dello sport e quelli che, nel contesto dell’attività sportiva, sono promossi dall’Unione Europea trovano ora sanzione ufficiale nell’art. 165 TFUE, dove vi è un preciso riferimento alla natura speciale dello sport come di un parametro di cui tener conto nel contributo alla promozione delle questioni sportive a livello europeo. E, almeno stando alla lettera, siffatta natura è cosa ulteriore e distinta rispetto alla struttura a base volontaristica delle funzioni educative e sociali dello sport. Ancora sulla specificità dello sport si veda recentemente S. Bastianon, Da Cassis de Dijon a Meca Medina: la specificità dello sport tra divieti e deroghe nel diritto dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2017, p. 417. Spunti problematici sul tema della specificità in generale si colgono in G. Greco, Il valore sociale dello sport: un nuovo limite alla c.d. specificità?, in Giorn. dir. amm., 2014, p. 815, in margine al caso Uefa del 2013. Per una discussione sull’inserimento del riferimento allo sport in Lisbona, cfr. L. Di Nella, Lo sport nel diritto primario dell’Unione europea: il nuovo quadro normativo del fenomeno sportivo, in Rass. dir. econom. dello sport, 2011, p. 5, nonché S.M. Carbone, Lo sport ed il diritto dell’Unione europea dopo il trattato di Lisbona, in Studi integrazione europea, 2010, p. 597.

[9] Come chiosano A. Jones, B. Sufrin, EC Competition Law, II ed., Oxford, 2004, p. 93, a proposito di tutti i settori che hanno invocato un trattamento differenziato, «[t]here has been very little sympathy for the claims that these sectors should receive favourable treatment and should be protected from the competitive process» (nota omessa).

[10] B. Van Rompuy, The role of EU competition law in tackling abuse of regulatory powers by sports associations, 22 Maastricht Journal of European and Comparative Law 174 (2015), adduce l’esempio degli enti che svolgono attività di previdenza sociale.

[11] Sulle motivazioni e sulle finalità della legge antitrust, con la descrizione di alcuni retroscena della legislazione statunitense, cfr. C. Osti, Ma a che serve l’antitrust?, in Foro it., 2015, V, c. 114.

[12] Su quest’ultimo punto, sia consentito il rinvio a M. Granieri, Le forme della giustizia sportiva, in C. Vaccà (a cura di), Giustizia sportiva e arbitrato, Milano, 2006, p. 69.

[13] Come noto, la capacità di normazione propria e l’organizzazione (oltre che la plurisoggettività) sono le caratteristiche salienti della natura dell’ordinamento sportivo come ordinamento originario; così, tra gli altri, F. Modugno, Giustizia e sport: problemi generali, in questa Rivista, 1993, pp. 327, 329. Nel senso che si tratta di ordinamento superiorem non recognoscens anche L. Di Nella, Il fenomeno sportivo nell’unitarietà e sistematicità dell’ordinamento giuridico, in questa Rivista, 1999, p. 27. Ma l’ordina­mento sportivo non è sovrano; così M. Sanino, L’arbitrato sportivo in Italia: problematiche, in questa Rivista, 1993, p. 352.

[14] Già nel Libro bianco sullo sport [COM(2007) 391 definitivo, dell’11 luglio 2007 – dunque prima ancora dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona], la Commissione europea aveva espresso questo concetto, ribadendo la necessità di un equilibrio, nel senso che essa riconosceva «l’autonomia delle organizzazioni sportive e delle loro strutture rappresentative (come le leghe), e riconosce anche che la gestione dello sport è soprattutto di competenza degli enti sportivi preposti e, in una certa misura, degli Stati membri e delle parti sociali ma sottolinea che il dialogo con le organizzazioni sportive ha sottoposto alla sua attenzione una serie di questioni». E, conclusivamente, ribadiva la propria convinzione «che la maggior parte delle sfide possa essere affrontata attraverso un’autoregolamentazione rispettosa dei principi di buona gestione, purché il diritto dell’UE sia rispettato, ed è pronta a dare il suo appoggio o, se necessario, a prendere gli opportuni provvedimenti».

[15] Si vedano i dati forniti da H. Bartee, Jr., The Role of Antitrust Laws in the Professional Sports Industry From a Financial Perspective, disponibile su http://thesportjournal.org/article/the-role-of-antitrust-laws-in-the-professional-sports-industry-from-a-financial-perspective/ (ultimo accesso 9 giugno 2018).

[16] Cfr. M. Bertani, Imprese sportive e concorrenza, in Annali it. dir. autore, 2003, p. 24. Sul punto cfr. anche le riflessioni di B. Van Rompuy, The role of EU competition law, cit., p. 178.

[17] È quasi paradossale che l’incerta natura delle leghe (come entità singola piuttosto che come accordo tra imprese) sia talora utilizzata, almeno negli Stati Uniti, come argomento difensivo nelle azioni antitrust a supporto dell’immunità; questo è accaduto in Am. Needle Inp. v. Nat’l Football League, 130 S. Ct. 2201 (U.S. 2010). La decisione è commentata in Italia da R. Pardolesi, A. Giannaccari, Immunità antitrust e leghe sportive americane: «zeru tituli», in Foro it., 2010, IV, c. 432, nonché da M.A. McCann, American Needle v. NFL: An Opportunity to Reshape Sports Law, 119 Yale L.J. 726 (2010). Per una discussione approfondita, ancorché non più aggiornata, della teoria cfr. anche L. Goldman, Sports, Antitrust, and the Single Entity Doctrine, 63 Tul. L. Rev. 751 (1989).

[18] Tra le molte attività che sono state ritenute di natura imprenditoriale e che vale la pena qui ricordare vi è quella degli avvocati, che era stata oggetto di discussione nella decisione Wouters (su cui cfr., infra, par. 4), in cui fu la Corte stessa ad escludere che la «natura complessa e tecnica dei servizi da loro forniti e la circostanza che l’esercizio della loro professione è regolamentato siano tali da modificare questa conclusione» (§ 49).

[19] Due decisioni della Commissione si segnalano come particolarmente significative. La prima è la 1998 World Cup Finals, 4 CMLR 963 (2000), in cui gli organizzatori del girone finale della Coppa del Mondo in Francia vennero considerati colpevoli di abuso di posizione dominante per aver effettuato discriminazioni sulla base della nazionalità. La seconda è relativa alla distribuzione di pacchetti turistici durante il girone finale della Coppa del Mondo del 1990 in Italia [5 CMLR 253 (1994)], in cui la FIFA e il comitato locale organizzatore avevano adottato condotte restrittive per la rivendita dei biglietti degli incontri, escludendo gli operatori turistici non partecipi dell’organizzazione locale.

[20] Sul tema in generale si vedano i contributi di P. Ichino, Contrattazione collettiva e antitrust: un problema aperto, in Mercato, concorrenza, regole, 2000, p. 635, e di L. Di Via, Sindacati, contratti collettivi e antitrust, ibid., p. 279. Per una relativamente recente decisione interpretativa della Corte di giustizia CE, sui termini della esenzione della contrattazione collettiva dai precetti dell’art. 101 TFUE, cfr. Corte giust. CE, 4 dicembre 2014, n. 413/13, FNV Kunsten Informatie en Media p. Gov. Paesi Bassi, che si legge per esteso su Riv. it. dir. lav., 2015, II, p. 566, nonché, soltanto con massima, in Diritti lavori mercati, 2016, p. 143, con nota di M. Arena, La labor antitrust exemption al vaglio della corte di giustizia: quale contrattazione collettiva per i lavoratori p.d. falsi autonomi?. Per la situazione nel diritto nordamericano cfr. ancora P.J. Closius, Professional Sports, cit., p. 142 ss.

[21] Un resoconto aggiornato dei casi europei di abuso del potere regolatorio delle federazioni è offerto da B. Van Rompuy, The role of EU competition law, cit., p. 190.

[22] L’esclusione della natura imprenditoriale in capo alle federazioni, in quanto svolgenti una attività non puramente economica o non prevalentemente economica, è stata sempre improbabile alla luce della nozione accolta di attività economica, cioè di qualsiasi attività tesa alla realizzazione di un interesse economico, anche qualora essa non comporti alcuna remunerazione (in tal senso Corte giust. 20 marzo 1985, causa 41/83, Italia/Commissione; 19 gennaio 1994, causa C-364/92, Eurocontrol). Né d’altra parte può essere messo in dubbio che le federazioni siano imprese perché non orientate al lucro, posto che lo scopo lucrativo (che era stato il cavallo di battaglia del Governo italiano in Bosman) non è essenziale alla definizione di impresa nel diritto europeo e, per la verità, nemmeno nel diritto italiano che, in effetti, lo menziona nella definizione della società (art. 2247 p.p.) ma non dell’impresa (art. 2082 p.p.), benché come noto almeno una parte della dottrina lo consideri implicito nella nozione stessa di attività di impresa. Anche nel caso SNAI/Unire di fronte all’AGCM (si legge in questa Rivista, 1995, p. 825, con nota di P.F. Valdina, Una corsa a handicap: scommesse ippiche e abuso di posizione dominante) si era posta la questione del confine tra un’attività puramente economica e un’altra, soprattutto da quando l’attività sportiva ha incontrato il mondo delle trasmissioni televisive.

[23] Come noto, si dibatte ancora se un riscontro degli effetti che una condotta restrittiva ha sul processo concorrenziale sia necessario anche riguardo agli abusi di posizione dominante (art. 102 TFUE), rispetto ai quali formalmente la norma è silente; si vedano le posizioni del dibattito richiamate in M. Granieri, V. Falce, Search Design Policy, Digital Disruption and Competition Law, 1 Market and Competition Law Review 15, 2017, p. 33. Sul punto, cfr. anche B. Van Rompuy, The role of EU competition law, cit., 189. Per una discussione relativa ad un caso recente (l’abuso di posizione dominante di Intel) cfr. P. Carli, R. Pardolesi, Il caso Intel e l’antitrust europeo: l’approccio economico alla riscossa, in Foro it., 2017, IV, p. 479.

[24] Corte giust. CE, 18 luglio 2006, n. 519/04 P, Meca-Medina p. Commiss. Ce, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2006, p. 1867, con nota di L. Fabiano, Il diritto disciplinare sportivo e la tutela della concorrenza: qualche riflessione sul rapporto fra il diritto comunitario ed il fenomeno del doping, nonché in Giust. amm., 2006, p. 902, con nota di I. Del Giudice, Ordinamento e norme sportive, nonché in Rass. dir. econom. dello sport, 2007, p. 99, con nota di D. Lo Verde, Principio di proporzionalità e regolamenti antidoping.

[25] Quello del vincolo di giustizia è un argomento evocato costantemente; per una discussione approfondita cfr. quanto meno M. Cicogna, Il Tribunal arbitral du Sport (TAS) di Losanna, in C. Vaccà (a cura di), Giustizia sportiva, cit., p. 139 ss.; A. Carlevaris, Arbitrato sportivo, regole di concorrenza comunitaria e principî generali di diritto, in Riv. arbitrato, 2001, p. 545, nonché V. Vigoriti, Il tribunal arbitral du sport: struttura, funzioni, esperienze, id., 2000, p. 425.

[26] Nel Libro bianco sullo sport è la stessa commissione a ricordare che «la specificità dello sport continuerà a essere riconosciuta, ma non può essere intesa in modo da giustificare un’esenzione generale dall’applicazione del diritto dell’UE».

[27] Il che suona a tratti paradossale alla luce dell’argomento della specificità, perché – come notano B. Sufrin, A. Jones, EC Competition Law, cit., p. 93, «the regulatory powers of sports organizations in respect of the non-economic aspects linked to the specific nature of sport, and the rules of sports organizations which uphold matters such as the integrity and the functioning of competitions, are not in principle caught» (nota omessa). Ma come si vede, è difficile comprendere e stabilire con ragionevole certezza quando aspetti relativi all’integrità (come possono essere quelli relativi al doping) rimangano su un piano puramente non economico, soprattutto se si parla di sportivi professionisti o semi-professionisti.

[28] In Meca-Medina, la Corte ha ribadito che «quando un’attività sportiva riveste il carattere di una prestazione di lavoro subordinato o di una prestazione di servizi retribuita, come nel caso dell’attività degli sportivi professionisti o semiprofessionisti (…), essa ricade in particolare nell’ambito di applicazione degli artt. 39 CE e seguenti o degli artt. 49 CE e seguenti» (§ 23). L’argomento, in realtà, risale alle conclusioni dell’avv. gen. Lenz nel caso Bosman.

[29] In senso logico si direbbe che la plurioffensività connette la violazione delle norme sulla libera circolazione e la violazione sulle norme in materia di concorrenza con un [OR] e non con un [AND], sicché è possibile che l’irrilevanza per un aspetto non escluda che lo stesso comportamento sia rilevante per l’altro, e viceversa.

[30] «Tuttavia, se una certa regola sportiva sia compatibile con le norme UE in materia di concorrenza può essere valutato soltanto caso per caso, come recentemente confermato dalla Corte di giustizia europea nella sua sentenza sul caso Meca Medina. La Corte ha fornito un chiarimento per quanto riguarda gli effetti del diritto dell’UE sulle regole sportive, respingendo la nozione di “regole puramente sportive” in quanto irrilevante per la questione dell’applicabilità al settore sportivo delle norme UE sulla concorrenza» (Libro bianco, cit., p. 14). Sulla distinzione tra regole sportive tecniche e regole che disciplinano la dimensione economica dello sport e sulla difficoltà pratica di discernere in concreto la linea di demarcazione cfr. S. Bastianon, Sport, antitrust, cit., pp. 487, 490. La decisione del Trib. I grado Comunità europee 30 settembre 2004, n. 313/02, si legge in Foro amm.-Cons. Stato, 2004, p. 2397.

[31] Come ha scritto S. Bastianon, op. ult. cit., p. 493, «[p]er quanto altamente improbabile, pertanto, nulla esclude la possibilità che venga contestata l’incompatibilità con il diritto dell’Unione europea anche di regole puramente sportive, vale a dire attinenti unicamente ai profili tecnico-sportivi di una data attività e prive di qualunque finalità economica, quali, ad esempio, le regole del gioco».

[32] È forse opportuno ricordare che l’avv. gen. Léger si era espresso in senso contrario alla decisione poi assunta dalla Corte, ritenendo che la regolamentazione sportiva «può non essere priva di qualsiasi interesse economico. Tuttavia, tale interesse è meramente accessorio (…) e non può privare le regolamentazioni antidoping della loro natura puramente sportiva» (§ 28).

[33] Cfr. ancora S. Bastianon, op. ult. cit., p. 495.

[34] Corte giust. CE, 19 febbraio 2002, n. 309/99, in Foro it., 2002, VI, c. 186, con nota di S. Bastianon, Due pronunce, tanti problemi, nessuna soluzione: ovvero, gli avvocati e l’antitrust secondo la Corte di giustizia, nonché in Corr. giur., 2002, p. 602, con nota di B. Nascimbene, S. Bastianon, Avvocati, diritto comunitario e diritto nazionale: recenti orientamenti della corte di giustizia. Si veda, altresì, G. Scassellati Sforzolini, P. Rizza, La tensione fra regole di concorrenza comunitarie e regole professionali e deontologiche nazionali, in Giur. comm., 2003, II, p. 8, nonché, puntualmente, P. Manzini, I parafernali del giudizio antitrust: regola della ragionevolezza, restrizioni accessorie, divieto «per sé», in Giur. agr. it., 2003, II, p. 285.

[35] Dissente dall’argomento che giustifica l’analogia in questo caso S. Bastianon, Sport, antitrust, cit., p. 511, nel presupposto che l’obiettivo dell’equilibrio competitivo come ragione di specificità dell’attività sportiva, «per quanto legittimo (ancorché, forse, eccessivamente enfatizzato), si presenta ben diverso dai c.d. non-economic values invocati nelle pronunce Wouters e Albany International» (corsivi in originale).

[36] La differenza tra criticare un precedente e disapplicarlo ha sfumature inattese, che si colgono probabilmente meglio attraverso il magistero dei giuristi degli ordinamenti basati sull’elaborazione giurisprudenziale; cfr., in particolare, le riflessioni di M.A. Eisenberg, La natura del common law, Milano, 2010, spec. p. 126.

[37] È appena il caso di aggiungere che la prova del pregiudizio agli scambi tra Stati membri non è poi così difficile, posto che – per ormai costante giurisprudenza – un’intesa che si estende a tutto il territorio nazionale è già di per sé idonea a causare frammentazione. Riferito al mondo dello sport, questo orientamento – per la posizione stessa delle federazioni – porterebbe a ritenere sempre provato, quasi in re ipsa, il pregiudizio al commercio tra Stati membri. La questione del mercato rilevante si è posta già in altre vicende sportive a livello nazionale, tra le quali quella risolta da Tribunal [Belgio] Charleroi, 2 luglio 1998, Balog p. Asbl Royal Charleroi Sporting Club, in questa Rivista, 1998, p. 687, con nota di M. Coccia, Il trasferimento dei calciatori e il diritto della concorrenza: quale mercato rilevante?, nonché in Foro it., 2007, IV, c. 52, con nota di M. Granieri, Obbligo del club sportivo di prestito gratuito alla federazione nazionale del giocatore professionista e diritto comunitario.

[38] Cfr. S. Bastianon, Sport, antitrust, cit., p. 497 s.

[39] Vale la pena ricordare che l’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del trattato, rimette indiscutibilmente alla parte accusata l’onere della prova e la Corte di giustizia nel caso GlaxoSmithKline (Corte giust. CE 6 ottobre 2009, C-501/06, in Raccolta, 2009, I, 9291) ha sottolineato che l’onere della prova è soddisfatto quando il convenuto abbia fornito «argomenti (ed elementi di prova) pertinenti, affidabili, verosimili» (§ 82); sul punto cfr. A. Frignani, Le intese, in A. Frignani, S. Bariatti (a cura di), Disciplina della concorrenza nella UE, Padova, 2013, p. 222.

[40] Così B. Van Rompuy, The role of EU competition law, cit., p. 188, ove citata anche altra giurisprudenza a supporto della conclusione.

[41] Anche a fronte della paucitas di casi, pare che la Commissione abbia già fatto uso utilmente del test Wouters; così, B. Van Rompuy, op. ult. cit., p. 190.

[42] Cfr. R. Pardolesi, Chi ha paura dell’interpretazione economica del diritto antitrust?, in Mercato, concorrenza, regole, 2007, p. 119.

[43] Cfr. Direttiva 2014/104/UE del Parlamento e del Consiglio del 26 novembre 2014 relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione Europea.

Fascicolo 1 - 2018