Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Guerra e Sport: uno sguardo retrospettivo (di Francesca Pulitanò, Professoressa associata di Diritto romano e diritti dell'antichità nell'Università Statale di Milano)


Il contributo prende in considerazione la relazione tra guerra e sport nelle fonti antiche greche e romane, soffermandosi in particolare su alcuni aspetti: il significato della tregua olimpica ieri e oggi, i combattimenti spettacolari tipici delle arene romane e l’identificazione tra atleta e guerriero.

War and Sport: a retrospective look

The essay analyses the relationship between war and sport in ancient Greek and Roman sources, focuses in particular on some aspects: the meaning of the Olympic truce in the past and today, the spectacular fights typical of the Roman arenas and the identification between athlete and warrior.

SOMMARIO:

1. L’ideale Olimpico - 2. Alle origini della tregua olimpica - 3. A Roma: lo sport-spettacolo e la stilizzazione della guerra - 4. Gli atleti/soldati: aspetti giuridici, politici, iconografici - 5. Due storie dalla Magna Grecia - 6. Conclusioni: il lanciatore di Diadji Diop - NOTE


1. L’ideale Olimpico

A che cosa serve uno sguardo retrospettivo verso l’antichità? Perché guardare al­l’indietro? Si possono prendere a prestito, per rispondere sinteticamente a questa domanda complessa e sempre attuale, alcune frasi di Italo Calvino [1]: affermava lo scrittore che il mondo classico è «ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona»; e ancora, che ciò che è classico si nasconde «nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».

Anche quello tra guerra e sport è in fondo un binomio che si può definire classico e, come tale, suscita quell’«effetto» che, sempre Calvino, definiva «di risonanza». Scopo di queste note vuole essere quello di seguire l’onda di quell’eco, per coglierne, tra le parecchie possibili diramazioni, quelle più significative in questo contesto. Si fornirà qualche spunto, volto a mettere in evidenza aspetti peculiari del mondo greco e di quello romano, ma nella consapevolezza che si tratta di un tema assai più articolato.

Guerra e sport, dunque. Indagarne la relazione nell’ambito dell’esperienza antica equivale a richiamare alla mente, prima che altre suggestioni, l’antica antitesi, propria della cultura greca, incarnata dalla c.d. ‘tregua olimpica’: ormai un topos anche del nostro tempo, quale valore di riferimento agganciato alle edizioni moderne delle O­limpiadi.

Sia sufficiente ricordare, in via esemplificativa, gli accadimenti più recenti, ai quali il presente contributo si connette inevitabilmente: con la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2-6 dicembre 2021 è stata istituita la tregua olimpica relativa ai Giochi olimpici e paralimpici di Pechino 2022, valida da sette giorni prima a sette giorni dopo l’inizio dei giochi; dopo l’invasione dell’Ucraina, il Comitato Internazionale Olimpico (CIO) ha adottato tre Risoluzioni (24, 25 e 28 febbraio 2022): con la prima, si condanna la violazione della tregua olimpica da parte della Russia in violazione della risoluzione ONU; con la seconda, tale condanna viene confermata e si invitano le federazioni sportive internazionali a cancellare o spostare in altri Stati gli eventi sportivi programmati per svolgersi in Russia e in Bielorussia; la terza, più articolata, invita a vietare agli atleti russi e bielorussi la partecipazione alle competizioni internazionali, e comunque, laddove i tempi non lo permessero, a vietare l’uso di simboli, colori, bandiere, stemmi o inni russi e bielorussi. Viene inoltre ritirato l’Ordine Olimpico in precedenza attribuito a persone con ruoli apicali all’interno del governo russo.

L’ideale Olimpico (l’«Olympic ideal» dei documenti ufficiali) è dunque alla base di quella che ancora oggi è definita ‘tregua olimpica’, e ne fonda la stessa esistenza, rappresentandone, al contempo, il simbolo e la radice. L’auspicio è quello che i conflitti internazionali vengano risolti in maniera pacifica e diplomatica e che gli Stati membri dell’ONU cooperino per attuare collettivamente i valori della tregua stessa nel mondo. È il medesimo auspicio condiviso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la quale, dal 1993, esprime il proprio sostegno ai Giochi Olimpici e al CIO attraverso la risoluzione, emanata ogni due anni, intitolata ‘Building a peaceful and better world through sport and the Olympic ideal’ (Costruire un mondo pacifico e migliore attraverso lo sport e l’ideale Olimpico).

Pur con le profonde diversità che caratterizzano i Giochi Olimpici dell’era contemporanea rispetto a quelli dell’antichità, ripartire dalle radici delle Olimpiadi offre – per usare le parole di Eva Cantarella – «un’occasione per comprendere che la consapevolezza dell’appartenenza a un sistema comune di valori è la sola arma in grado di affrontare e combattere forze disgregatrici che oggi giungono a mettere in discussione la possibilità stessa di una convivenza civile sul pianeta» [2].


2. Alle origini della tregua olimpica

Come detto in precedenza, l’idea di una tregua collegata alle manifestazioni sportive affonda le radici in un tempo assai lontano. È utile allora cominciare proprio da qualche osservazione sulle fonti greche, intorno alle quali sono possibili alcune notazioni storico-interpretative, che, pur attenendo più specificamente all’ambito dell’e­segesi, riflettono la propria portata anche sulla lettura della relazione tra guerra e sport nel nostro tempo.

Una prima difficoltà ricostruttiva riguarda, ad esempio, il rapporto cronologico tra istituzione delle Olimpiadi e istituzione della tregua. La convinzione diffusa che i due fenomeni siano stati simultanei è in realtà riduttiva, perché influenzata dal cosiddetto ‘ideale panellenico’, propugnato dagli oratori e dai sofisti del V e IV secolo a.C.: questo punto di vista ha per così dire monopolizzato la ‘tradizione’, offuscando, di fatto, alcuni snodi storici.

Ripercorrere la vicenda senza pregiudizi significa allora, innanzi tutto, volgersi alla riconsiderazione del disco di Ifito, una testimonianza con cui non abbiamo contatto diretto, ma della quale sappiamo che era stata definita da Aristotele come il monumento più importante della storia del Peloponneso [3]. Del disco ci parla Plutarco, nella vita di Licurgo, in termini piuttosto problematici [4]. Il biografo dichiara, infatti, che non ci sono dati certi relativamente al periodo in cui Licurgo visse [5], e quindi, a maggior ragione, non può essere pacifica la ricostruzione del contenuto dell’accordo tra costui, che era re di Sparta, e Ifito, re dell’Elide. Plutarco sembra riferirsi, pur con tutte le cautele del caso, alla sola istituzione della tregua da parte dei due sovrani, lasciando supporre che i Giochi Olimpici esistessero già. A questa testimonianza antica fa da contrappeso quella, per la verità assai più tarda, di Pausania, che invece pone l’accento sul ruolo dei Giochi, ribaltando i termini della relazione: essi stessi sarebbero stati frutto di un accordo politico tra i due re, volto a fare di Olimpia un territorio che oggi definiremmo neutrale e delle Olimpiadi il simbolo di una tregua politico-militare.

L’interpretazione di quella vicenda storica è resa più complessa anche da considerazioni inerenti alla complessiva situazione politica della Grecia. Le diverse tribù che abitavano il Peloponneso e, in particolare, la regione ove sorgeva il santuario di Olimpia, sperimentavano un conflitto continuo per la superiorità territoriale. Fu forse Oxilo, re degli etoli, a tentare una prima pacificazione della regione, caratterizzata anche dal­l’arrestarsi delle correnti migratorie finalizzate all’egemonia sul territorio [6]. Siamo nell’XI sec. a.C. e risalirebbe a quest’epoca l’istituzione dei primi giochi locali. Successivamente, al riaccendersi dei conflitti tra Elei, Pisati e altri popoli confinanti, il re dell’Elide, Ifito, avrebbe tentato la via del patto con Sparta, ottenendo che il suo regno fosse riconosciuto territorio sacro e inviolabile.

Quale che sia l’interpretazione sul rapporto tra istituzione delle Olimpiadi e istituzione della tregua che si preferisca accogliere, interessa in questa sede soprattutto segnalare il nesso, per così dire, ‘circolare’, tra i due fenomeni. Non solo le Olimpiadi, ma in generale i giochi atletici, avevano la funzione precipua di creare un ponte tra popolazioni in conflitto, per stimolare una – ancorché temporanea – cessazione delle ostilità; dall’angolo visuale opposto, proprio la celebrazione di giochi si poneva come causa fondante della pausa bellica. Appare perciò riduttivo interrogarsi sulla priorità storica dell’una sull’altra, e risulta preferibile ritenere che si tratti delle due facce di una realtà complessa, non schematizzabile in una successione storica, ma, semmai, da valutare in relazione al progressivo formarsi di una consapevolezza dei rapporti internazionali e della necessità della loro gestione organizzata.

Ancora più chiaro risulta allora il carattere polivalente della tregua, che non è da interpretarsi come una vera ‘pace olimpica’, comportante la cessazione delle ostilità, ma, più correttamente, come una forma di immunità che permetteva alle persone di spostarsi senza pericoli da un luogo all’altro in occasione dei giochi. Si aggiunga che lo stesso nome greco, έκεχειρία, in effetti, non richiama la pace, quanto, piuttosto, un più sfumato ‘trattenere le mani’ [7].

Ma non è tutto. La più famosa fonte in tema di violazione della tregua, cioè il racconto di Tucidide sugli eventi del 420 a.C., si presta a diversi piani di lettura: innanzi tutto, quello militare, perché l’episodio trae la propria origine da una operazione bellica dei Lacedemoni, i quali, nel periodo di sospensione delle ostilità, avevano inviato soldati a Lepreo, città in conflitto con Olimpia. Per questo gli Elei avevano condannato i Lacedemoni a pagare una multa e, non avendo ottenuto il pagamento, li avevano esclusi dai giochi. In questo punto lo storico sottolinea anche la simmetria sanzionatoria tra il divieto di celebrare sacrifici e quello di gareggiare, compendiando in una breve frase gli aspetti religiosi e quelli più marcatamente politici [8].

Il rifiuto dei Lacedemoni di sottostare a questa, chiamiamola così, ‘squalifica sportiva’, aveva determinato l’apertura di una vertenza diplomatica, nella quale gli ambasciatori delle due fazioni si erano confrontati su una questione solo apparentemente formale. L’oggetto del dibattito era infatti la relazione cronologica tra l’invio degli opliti e la proclamazione della tregua: i Lacedemoni ritenevano che al tempo della spedizione militare la tregua non fosse ancora stata proclamata, mentre gli Elei affermavano il contrario, basandosi sulla prassi secondo la quale, nella città ospitante, l’an­nuncio della tregua veniva di regola anticipato. Ad ogni modo, la proposta degli Elei si era fatta, a un certo punto, strategica: se i Lacedemoni avessero restituito Lepreo, la multa sarebbe stata loro abbuonata.

Non avvenne nessuna restituzione, e la controversia si spostò infine sul campo di gioco vero e proprio. Accadde, infatti, che il carro di Lica, Lacedemone, avesse vinto la gara di corsa. Poiché, però, i Lacedemoni erano esclusi in quel momento dai giochi, la vittoria era stata assegnata alla Beozia. Lica aveva reagito provocatoriamente, incoronando il proprio auriga e rischiando che la controversia degenerasse sul piano militare. Tucidide espone chiaramente i timori del momento, dando voce alla preoccupazione che i Lacedemoni volessero approfittare della circostanza per forzare l’ingresso al tempio, che era stato loro in precedenza negato [9].

Per fortuna ciò non accadde e la festa poté continuare. La complessità della situazione venuta a crearsi e le perduranti tensioni tra le due fazioni valsero a questi episodi la qualifica di ‘premesse olimpiche’ ai fatti che portarono, vent’anni dopo, al riaccendersi delle operazioni militari tra Elei e Spartani [10].

Guardando alla vicenda nel suo complesso, appare allora preferibile ritenere che il reale significato della tregua sia ben riassunto dalle seguenti parole di Annalisa Paradiso: «la storiografia di lingua tedesca e francese degli anni ’70 del secolo scorso, pur con qualche significativa eccezione, ha rinunciato a intender[la], idealisticamente, come una tregua generale valida per tutte le operazioni militari in Grecia, interpretandola come una forma di ἀσυλία (inviolabilità) e di ἀσφάλεια (sicurezza) come l’immunità, funzionale allo svolgimento dei giochi, concessa a partecipanti, spettatori e a (determinati) luoghi». Da un altro punto di vista, la tregua, più che essere un periodo di forzata pacificazione, rappresentava, semmai, «un’occasione ed il modo per proseguire la guerra con altre ‘armi’, ad esempio sul piano diplomatico» [11].

È di nuovo un passo delle Storie di Tucidide (5.26.2 [12]) che parrebbe confermare questa interpretazione:

‘Poiché stilerà un giudizio erroneo, chi non convenga sul definire guerra l’intervallo d’anni in cui prevalse la tregua. Scruti alla luce dei fatti positivi gli elementi che distinsero questo periodo dal precedente o da quello che lo seguì: e potrà̀ riscontrare quanto sia fuor di luogo attribuire gli autentici caratteri della pace a quest’epoca di passaggio: durante la quale né si riconsegnò, né si ottenne ciò che il negoziato aveva prescritto’.

Si impone, a questo punto, una precisazione: se oggi la guerra è percepita come uno stato patologico, nel mondo antico essa rappresentava una realtà particolarmente frequente nei rapporti internazionali, tanto che si è arrivati a sostenere che a quel tempo lo ‘stato naturale’ dei popoli fosse quello delle ostilità. Secondo questa impostazione, la pace rappresenterebbe allora un’«interruzione contrattuale» del permanente stato di guerra [13]. Oggi tale opinione appare assai ridimensionata e si tende, invece, a ritenere che la guerra, anche in antico, fosse una rottura traumatica della condizione ideale di pace [14]. Ciò nonostante, quello greco resta, secondo Crowley, uno degli ambienti geopolitici più intransigenti della storia, caratterizzato da una profonda, patologica predisposizione alla guerra endemica, alla quale, aggiungiamo, non si abdicava nemmeno durante la celebrazione delle feste legate allo sport [15].


3. A Roma: lo sport-spettacolo e la stilizzazione della guerra

Vediamo ora brevemente come si atteggia, invece, nel mondo romano, la relazione tra guerra e sport. Occorre ricordare, innanzi tutto, che a Roma i giochi atletici rappresentavano una parte marginale dell’attività lato sensu sportiva; accanto alle tradizionali discipline olimpiche (es. atletica, pugilato, corse con i carri), svolgevano un ruolo di primo piano altri grandi eventi di massa, come i combattimenti dei gladiatori e le naumachie.

La relazione tra guerra e sport in questo contesto può essere letta sotto la lente della spettacolarizzazione. I due citati erano infatti spettacoli imponenti: il primo, più vicino alle gare sportive, il secondo, un esempio di pura stilizzazione della guerra; entrambi presentavano rilevanti implicazioni anche politiche [16].

Per Aldo Schiavone la passione dei Romani per i giochi gladiatorii sarebbe da agganciarsi alla storia stessa della grandezza di Roma. Secondo lo Studioso, i Romani, in un’epoca antica, avrebbero sofferto di una certa insicurezza, determinata dalla paura dei propri stessi dei, oltre che di un senso di instabilità dovuto al continuo pericolo di assedio da parte di popolazioni nemiche. Per questo si può affermare che essi riversassero nei giochi un desiderio di esorcizzare la morte «attraverso la messinscena di altre morti, quelle [appunto] dei combattenti nei giochi» [17].

Quella stessa insicurezza aveva però finito per incanalarsi in una pulsione militare verso la conquista, la dominazione e la gloria: «nasceva così quel terribile amore per la guerra e per la gloria in battaglia come forma estrema di agonismo aristocratico, quella irresistibile inclinazione allo ‘stato marziale dell’anima’ […]». In questo quadro «intrinsecamente carico di violenza … la routine bellica e l’accumulo di fantasie ad essa collegate erano diventate uno dei principali motori emotivi della collettività» e i giochi gladiatori «si erano installati al centro della sensibilità e dei gusti popolari».

È da sottolineare il fatto che l’estrazione di molti gladiatori è quella della prigionia di guerra, secondo una regola propria di tutti i popoli dell’antichità, che considerava logica e naturale la riduzione in stato di schiavitù dei nemici catturati [18]. Alcuni di essi (di fatto, ex guerrieri) venivano destinati al ludus, cioè al luogo di addestramento, dove erano sottoposti a durissimi programmi di preparazione alla lotta. In tal modo la loro condizione si avvicinava strettamente a quella di sportivi molto ben allenati, sul piano fisico e, in certi casi, anche motivazionale. A Roma, la presenza di questi ‘sportivi stranieri’, intimamente legata alla ‘migrazione forzata’ dipendente dalla guerra, appare massiccia. I protagonisti erano oggetto di considerazione ambigua: pur esercitando un mestiere disonorevole, capitava di frequente che diventassero idoli di grandi masse [19].

Anche se questi combattimenti non potevano essere propriamente definiti come manifestazioni sportive, i luoghi e i protagonisti ne richiamavano, a tutti gli effetti, le caratteristiche, ponendosi, potremmo dire, al servizio delle emozioni collettive: la vittoria legata alla prestanza fisica, la presenza dell’arbitro, la massiccia partecipazione popolare, il tifo, nelle sue esplicazioni a volte esagerate, realizzavano significative assonanze tra le arene romane e gli stadi odierni [20].

Diverse, ma altrettanto, anzi più spettacolari, erano invece le naumachie, eventi corali sotto tutti i profili. Si trattava di vere e proprie rievocazioni guerresche, per lo più di tempi passati, scelte con attenzione per veicolare messaggi politici. Più rare rispetto ad altri spettacoli, perché richiedevano un enorme dispendio economico e di risorse umane (se ne ricorda una decina in età imperiale), erano allestite in funzione celebrativa di eventi vari: imprese militari, costruzioni di infrastrutture, inaugurazioni di edifici [21]. Anche in queste occasioni i partecipanti ricevevano un apposito addestramento sportivo/militare, che si rivelava più o meno sommario a seconda di chi fosse chiamato a partecipare. Molto spesso, infatti, si inviavano al combattimento prigionieri condannati a morte, che potevano essere ex soldati appartenenti alle file nemiche, oppure anche persone non avvezze alla lotta e pertanto particolarmente esposte a un rapido, tragico epilogo [22].

Ai fini di questo scritto, preme mettere in evidenza l’esistenza di naumachie che, in un gioco di opposti decisamente peculiare, venivano organizzate per celebrare una tregua (ad esempio, quella di Domiziano dell’89 d.C. in occasione dell’importante tregua ottenuta in Dacia). Agli occhi di un lettore moderno si tratta di una contraddizione quasi inspiegabile, ma anch’essa può essere intesa come portato di un mondo nel quale, nei fatti, era più frequente lo stato di guerra che non quello di pace. Mimare la guerra per festeggiare la sospensione di un conflitto reale è, in ultima analisi, un’espressione altamente simbolica dell’equilibrio continuamente altalenante tra le due situazioni.


4. Gli atleti/soldati: aspetti giuridici, politici, iconografici

Un altro elemento rilevante, che accomuna l’esperienza greca a quella romana, è la figura dell’atleta guerriero, che rappresenta un’ulteriore sfaccettatura della profonda identificazione tra cittadino e soldato. Si tratta di un’identificazione politica, giuridica, perfino iconografica.

Le fonti in tal senso sono particolarmente ricche di esempi: Aristofane, Nuv. 985-986, dichiara che i combattenti che hanno vinto a Maratona sono eredi della tradizione atletica della città di Atene; nelle Leggi, Platone (Leg. 814d) individua la lotta, più di qualsiasi altro movimento ginnico, come simile a una vera e propria battaglia: essa deve essere appresa e organizzata secondo precise modalità, che devono contemplare anche la gara tra contendenti appesantiti dalle armi. Il filosofo elogia la costituzione ateniese, ritenendola l’unica nella quale si perfeziona una combinazione ideale tra l’edu­cazione militare e l’allenamento per i giochi (Leg. 832e): i militari sono ‘atleti della guerra’ e i guardiani ideali dello stato sono ‘soldati/atleti’ [23]. E ancora, nella Repubblica, Platone si occupa dei guardiani ideali che egli vorrebbe a difesa dello stato, definendoli, di nuovo, come ‘soldati/atleti’: guerrieri che alla qualità di esperti nella guerra uniscono le doti sportive, sfoggiando una salute fortificata dall’allenamento, da una alimentazione sobria e dalla vita all’aria aperta [24].

Sotto altro profilo, la qualifica di «olimpionici» (olympionikes), o simili, è spesso attestata in iscrizioni per caduti in guerra. Sia sufficiente citare quella di Chilone di Patre, tramandata da Pausania, nella quale la stretta interdipendenza tra gloria bellica e gloria militare è chiaramente documentata:

Paus. 6.4.4: Nel corpo a corpo degli adulti vinsi due volte a Olimpia e a Pito, tre volte a Nemea, quattro all’istmo, in riva al mare, io, Chilone di Patre, figlio di Chilone mi ha sepolto il popolo Acheo per il mio valore, perché sono caduto in battaglia [25].

Anche su un altro piano, quello dei meccanismi tecnico-giuridici, l’identificazione tra lo sportivo e il soldato si manifesta con chiarezza. Fin da un’epoca molto risalente, la riflessione giuridica accomuna, infatti, le due categorie rispetto all’operatività di quelle che oggi definiremmo cause di giustificazione. Basterà, al riguardo, qualche breve accenno [26].

Nella legge di Draconte dell’VIII a.C. era già presente, per usare una terminologia moderna, la valutazione della lesione sportiva quale esimente ‘in embrione’ rispetto all’omicidio. Si parlava in tal caso di φόνος δίκαιος, per indicare una sorta di omicidio colposo durante le gare atletiche [27]. Demostene, nell’orazione Contro Aristocrate (23.53), si occupa dell’uccisione involontaria di un concorrente nel corso di una gara, e menziona anche, in pendant, l’uccisione involontaria di un commilitone da parte di un soldato per dichiararne l’esonero dalla pena dell’esilio.

Nella speculazione giuridica del mondo romano, più tecnicamente strutturata, troviamo diverse fonti che confermano che la pratica atletica, esercitata nel luogo appropriato di addestramento/allenamento, rende pienamente operante la causa di giustificazione, portando alla completa esclusione dell’elemento della colpa. Così, ad esempio, Ulpiano discute sulla possibilità di sanzionare, in base alla legge Aquilia, chi, tirando il giavellotto in un luogo di transito comune, abbia colpito e ucciso uno schiavo, e opta per la soluzione positiva. Viceversa, un passo delle Istituzioni di Giustiniano dichiara inapplicabile la stessa legge al militare che abbia ucciso uno schiavo di passaggio nei pressi nel campo di lancio [28].

In un altro famosissimo testo, anch’esso tratto dall’opera ulpianea (Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.7.4) e tradizionalmente considerato come radice della moderna esimente sportiva, il giurista afferma che chi ferisce o uccide l’avversario nel corso dell’allena­mento o della competizione di pugilato o di pancrazio, non è soggetto alle sanzioni della legge Aquilia, perché non intendeva agire contro il diritto, ma mostrare la propria virtù. Più precisamente, nell’esordio del testo Ulpiano esclude l’iniuria sulla base di un elemento del tutto particolare, quello della causa virtutis et gloriae, che immette un criterio di valutazione nuovo rispetto alla tradizionale elaborazione del concetto di iniuria nel pensiero della giurisprudenza classica [29]. Il nostro giurista, cioè, pare preferire un ragionamento incentrato sul carattere virtuoso dell’attività sportiva ad una spiegazione più tecnica, fondata sul parametro dell’elemento soggettivo dell’illecito. Anche se il passo non si sofferma su un parallelo diretto con i soldati, la motivazione dell’eser­cizio della virtus è strettamente connessa con il ‘codice espressivo’ della guerra. La virtus, senza dubbio uno dei fondamenti del valore militare, coincide con la greca ἀρετή, considerata elemento caratterizzante dell’una e dell’altra attività [30].


5. Due storie dalla Magna Grecia

Il nesso tra guerra e sport appare evidente in due storie di atleti magnogreci, diversamente coinvolti in vicende politico-militari del proprio tempo.

La prima è quella di Euthymos di Locri, un pugile famosissimo presso i contemporanei (siamo nel V sec. a.C.). Campione Olimpico di indiscusso talento, egli partecipò attivamente a un’importante vicenda strategica, quella della conquista della vicina città di Temesa. L’episodio aveva assunto connotati leggendari: la leggenda affermava infatti che Euthymos si fosse recato a Temesa per affrontare un demone, forse identificabile con la trasfigurazione di un compagno di viaggio di Ulisse, ucciso dai Temesi per aver violentato una fanciulla locale [31].

A questo demone era stato dedicato un santuario: qui, ogni anno, per placarne l’ira, occorreva offrire una vergine al di lui desiderio sessuale. Euthymos, indignato da questi fatti, aveva deciso di recarsi sul posto e aveva affrontato il ‘mostro’ con le armi, riuscendo a farlo cadere in mare e a liberare così la città da questa calamità; aveva poi sposato la vergine scampata quell’anno al rito dell’offerta. Da questa impresa era derivato anche l’ulteriore mito secondo cui egli sarebbe stato assunto tra gli dei, ancora in vita, svanendo nel fiume Kaikinos mentre lo attraversava a nuoto.

A questo racconto corrisponde il fatto storico, che troviamo testimoniato da Strabone, della conquista effettiva di Temesa da parte dei Locresi, con un contingente comandato proprio da Euthymos. Come affermato da Costabile, «sotto l’aspetto storico […] essa costituisce una giustificazione – in ottica locrese, come osservò, si è già ricordato, Strabone, Geogr. VI 1.5 – della conquista di Temesa, città rientrante nella sfera di dominio o di influenza di Sibari e, dopo la sua distruzione nel 510 a.C., gravitante attorno a Crotone, cui i Locresi riuscirono almeno per qualche tempo a strapparla». E ancora, «più che negli altri casi, questo racconto ha giocato un ruolo di primo piano nella popolarità di Euthymos: egli si connotava come eroe eminentemente poliade, legato al prestigio olimpionico della città, alla difesa o all’espansione delle sue frontiere territoriali, avendo conquistato, nel fiore dell’età, Temesa (la data è variamente collocata dai moderni per lo più negli anni Settanta del V secolo)» [32]. Prestigio Olimpico, dunque, e valore militare, sono accostati ancora una volta, in questo caso in un racconto a mezza via tra la storia e il mito.

Un altro protagonista dell’epoca è il crotoniate Phayllos [33]: si tramanda che costui, recatosi a Delfi per partecipare alle Pitiche nella primavera del 482 a.C., non avesse fatto ritorno a Crotone, forse per evitare di viaggiare in un periodo in cui le rotte non erano sicure per la stagione invernale. Egli era perciò già presente in Grecia l’anno successivo, in occasione dei giochi istmici. In quello stesso periodo si erano aggravate le tensioni con i Persiani, al punto che «i Greci che pensavano il meglio per la Grecia» avevano deciso di condannare a pagare una decima al dio di Delfi quelli che, essendo greci, erano passati spontaneamente dalla parte del barbaro persiano. Lo stesso Phayllos, che condivideva l’odio contro i Persiani venne allora coinvolto, al fianco dei suoi «fratelli», unico tra tutti i greci d’Occidente, nella battaglia di Salamina del 480 a.C., per la quale armò una trireme a proprie spese. La sua, diremmo, ‘fisiologica’ migrazione sportiva si era ben presto tramutata in scelta politica di permanenza in un luogo; in tal modo l’atleta, combattendo a fianco dei Greci, si era fatto – anche – «testimone della prima manifestazione di panellenismo politico da parte degli hellénes nei confronti dei bárbaroi» [34].


6. Conclusioni: il lanciatore di Diadji Diop

La trattazione che precede permette di affermare che nel mondo antico guerra e sport, più che presentarsi come poli opposti, sono aspetti di una stessa realtà, in una compenetrazione tra piani che rende fluido il confine tra un fenomeno e l’altro. Dal­l’analisi delle fonti emerge, in fondo, una funzione contraddittoria dello sport: esso ci si presenta al servizio, in egual misura, della guerra e della pace. Ma non potrebbe essere diversamente, in un sistema valoriale così diverso dal nostro e, come detto, profondamente condizionato proprio dall’identificazione dell’atleta con il guerriero.

Come ricordato da Angeli Bernardini, l’esperienza sportiva e quella militare partecipano anche dalla cosiddetta ‘verità agonale’, cioè quella del vincitore. Essa è univoca, non sottoposta a contraddittorio, e, come si deduce dalla sua connotazione etimologica, «non si dimentica» [35]. L’a-letheia si oppone infatti a lethe, il silenzio, l’oblio: il richiamo immediato è all’immagine, anch’essa bifronte, dello sconfitto prigioniero del silenzio, inteso come il contrario della gloria. Nella prova del guerriero, insomma, come in quella dell’atleta, vi è una verità che non può essere travisata o alterata e che è rappresentata, in ultima analisi, dalla vittoria il cui ricordo rimane fisso nella memoria.

Per chiudere, un richiamo recentissimo: fino al 15 dicembre 2022, l’Università Statale di Milano ha ospitato la campagna [#WhoWeAre], iniziativa progettata dalla Commissione Europea per «promuovere connessioni intelligenti, pulite e sicure nei settori digitale, energetico e dei trasporti e per rafforzare i sistemi sanitari, di istruzione e di ricerca in tutto il mondo».

La tappa milanese è stata dedicata alla sfida della lotta contro la pandemia da Covid19: per rappresentarla, un artista senegalese, Diadji Diop, ha realizzato una statua completamente rossa, che raffigura un uomo che lancia il virus come se fosse il peso: collocata in un angolo del Cortile del Filarete, essa – come descriveva il sito di comunicazione ufficiale dell’Ateneo – «prendendo in prestito il gesto e lo sforzo condiviso dello sport, diventa fonte d’ispirazione per sconfiggere la pandemia e vincere insieme contro altre minacce globali».

Si tratta di un’espressione artistica moderna, che partecipa di un carattere tipico delle statue antiche, nelle quali era difficile distinguere il guerriero dall’atleta se l’artista non aggiungeva elmo, scudo, lancia o spada. L’atleta guerriero, in questo caso, incarna l’agonismo sportivo come simbolo e sublimazione di una guerra globale, perpetuando il nesso, storico e simbolico insieme, tra valore militare e prestanza sportiva.


NOTE

[1] I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, L’Espresso, 28 giugno 1981, p. 58 ss.

[2] E. Cantarella, E. Miraglia, L’importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro, Milano, 2016, p. 9 ss. e, per la citazione, p. 13.

[3] Per ulteriori dettagli, cfr. E. Franciosi, Athletae, agitatores, venatores. Aspetti del fenomeno sportivo nella legislazione postclassica e giustinianea, Torino, 2012, p. 15. In tempi meno recenti, cfr. M. Amelotti, La posizione degli atleti di fronte al diritto romano, in SDHI 21, 1955, p. 123 ss.

[4] Ecco il testo, che riporto in traduzione italiana per comodità di lettura: Plut. Lic. 1.1: ‘A proposito del legislatore Licurgo, assolutamente nulla si può dire che non sia controverso: sia la sua nascita, sia la sua permanenza all’estero, sia la sua morte, sia infine la sua attività legislativa e politica hanno ricevuto trattazioni differenti, e ancora minore è l’accordo circa i tempi nei quali egli visse. 2. Alcuni infatti sostengono che fu contemporaneo di Ifito e che istituì insieme con lui la tregua olimpica: tra costoro c’è il filosofo Aristotele, che adduce a prova il disco che si trova a Olimpia, sul quale si è conservato inciso il nome di Licurgo. 3. Altri invece, computando il tempo secondo le successioni dei re di Sparta, come Eratostene e Apollodoro, lo dichiarano anteriore di molti anni alla prima Olimpiade. 4. Timeo, poi, pensa che, essendo esistiti a Sparta due Licurgo in periodi differenti, a uno solo vengano attribuite, per la sua fama, le azioni di entrambi […]’. Traduzione di A. Meriani, in Vite, vol. VI, Torino, 1998, p. 27.

[5] Per la possibile differenza di 100 anni, J. Bollansée, Aristotle und Hermippos of Smyrna on the foundation of the Olympic games and the institution of the sacred truce, in Mnemosyne 52, 1999, p. 562 ss.

[6] M. Pescante, G. Colasante, Olimpiadi antiche, in Enciclopedia dello sport, online al link https://
www.treccani.it/enciclopedia/olimpiadi-antiche_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/
. Si veda anche E. Franciosi, Athletae, cit., p. 14 ss.

[7] A.M. Paradiso, Usi politici della tregua sacra in Tucidide, in War-peace and Panhellenic games in memory of Pierre Carlier, Athens, 2013, p. 585.

[8] Tuc. Storie, 5.49.1: ‘Gli Elei interdissero agli Spartani l’accesso al santuario: sicché́ costoro rimasero esclusi dalle cerimonie rituali e dalle gare’ (traduzione tratta da Tucidide. Storie, a cura di E. Piccolo, Napoli, 2009, p. 328).

[9] Peraltro, la stessa vicenda compare anche in altre testimonianze: ne parla, ad esempio, Senofonte, adducendo come primo motivo dell’aggressione da parte dei Lacedemoni quello delle alleanze militari strette dagli Elei con Atene, Argo e Mantinea; solo in seconda battuta egli menziona l’esclusione dalle gare sportive (Sen. Hell. 3.2.21, traduzione a cura di M. Ceva, Milano, 1996, p. 147: ‘col pretesto della condanna loro inflitta, continuavano a escluderli dalle gare ippiche e ginniche […]’). Anche Senofonte richiama, inoltre, il motivo bellico-religioso, in Sen. Hell. 3.2.22: ‘più tardi, quando Agide fu inviato a compiere sacrifici a Zeus come aveva imposto un oracolo, gli elei gli avevano impedito di pregare per la vittoria in guerra, col pretesto che fin dall’antichità era costume che i Greci non consultassero l’oracolo per una guerra contro altri Greci ed era quindi ripartito senza aver compiuto i sacrifici’. In seguito, anche Pausania menzionerà l’episodio (Paus., Viaggio in Grecia 3.8.3), in una forma più stringata, partendo dal livore dei Lacedemoni per l’esclusione dai giochi e individuandone, come conseguenza, una rivendicazione militare: l’intimazione agli Elei di lasciare che i Lepreati fossero indipendenti.

[10] Quello narrato da Tucidide è solo uno dei tanti episodi di violazione della tregua narrati dalle fonti. Si ricordi, ad esempio, un altro significativo racconto, tramandato da Senofonte. Siamo nel 364 a.C. (Hell. 7.4.28, traduzione a cura di M. Ceva, cit., p. 404 s.), momento nel quale gli abitanti di Pisa detenevano il controllo definitivo sui giochi. Durante la prova finale del pentathlon, apparvero gli Elei armati, insieme agli alleati Achei. A questo punto i Pisati dovettero rispondere alla provocazione, e radunarono un esercito comprensivo anche degli Arcadi, loro protettori, duemila opliti di Argo e quattrocento cavalieri ateniesi. Gli Elei cercarono di raggiungere l’altare di Zeus, ma furono fermati dalla resistenza e dal lancio di oggetti dai tetti. Durante la notte furono erette delle palizzate, addirittura smantellando i padiglioni delle Olimpiadi, finché gli Elei, vista l’impossibilità di proseguire l’azione, decisero di rinunciarvi. Cfr. E. Franciosi, Athletae, cit., p. 18.

[11] A.M. Paradiso, Gli usi politici, cit., p. 584 ss.

[12] Trad. E. Piccolo, cit., p. 313.

[13] V. Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, Milano, 1980 p. 38; in tempi meno recenti dobbiamo a Mommsen l’espressione di questa idea, poi abbandonata a favore di quella opposta. Cfr. Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin, 1864, p. 326 ss.

[14] F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum: guerra ‘giusta’ e sistema giuridico religioso romano, in Diritto@storia, 2, 2003, al link https://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Iustum-bellum.htm.

[15] J. Crowley, The Psychology of the Athenian Hoplite. The Culture of Combat in Classical Athens, Cambridge, 2012, p. 89.

[16] Per alcune osservazioni sulle fasi più antiche della gladiatura e sulla nascita di essa come fenomeno funerario e agonistico, cfr. G. Ville, La gladiature en Occident des origines à la mort de Domitien, Roma, 1981, rist. Roma, 2014, p. 10 ss.; si veda anche, sul tema, P. Veyne, Le pain e le cirque: sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris, 1976; P. Weber, Panem et circenses: la politica dei divertimenti di massa nell’antica Roma, trad. A. Martini Lichtner, Milano, 1989; C. Ricci, Gladiatori e attori nella Roma Giulio-Claudia: studi sul senatoconsulto di Larino, Milano, 2006; Ch. Mann, I gladiatori, Bologna, 2014; F. Savi, I gladiatori: storia, organizzazione, iconografia, Roma, 1980; F. Meijer, Un giorno al Colosseo: il mondo dei gladiatori, Roma, 2004; sul mondo dell’anfiteatro, cfr. La Rocca, Linguaggio artistico e ideologia politica a Roma in età repubblicana. In Roma e l’Italia. Radices imperii (a cura di G. Pugliese Carratelli), Milano, 1990; F. Paolucci, Gladiatori: i dannati dello spettacolo, Milano, 2003.

[17] A. Schiavone, Spartaco. Le armi e l’uomo, Torino, 2011, p. 52.

[18] M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 90 s.

[19] E. Franciosi, Athletae, cit., p. 70 ss.; più nello specifico, sui temi legati alla migrazione, L. Gagliardi, Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini romani. Aspetti giuridici, I, La classificazione degli incolae, Milano, 2006.

[20] Intendiamo, in questo senso, riferirci ai soli aspetti legati alla spettacolarizzazione, tralasciando, perché meno pertinente gli scopi del presente scritto, il versante delle esecuzioni nell’arena, su cui P. Arena, Gladiatori, Carri e navi. Gli spettacoli nell’antica Roma, Roma, 2020, p. 82 ss.; in precedenza, si veda ancora G. Ville, La gladiature, cit., p. 345 ss.; K.J. Coleman, Fatal Charades: Roman executions stages as mythological enactements, in JRS, 90, 1980, p. 44 ss.; più recentemente, cfr. M.C. Passera, R. Rubisse, Il rapporto tra pena e corpo, in Il corpo in Roma antica, I, a cura di L. Garofalo, Pisa, 2015, p. 217 ss.; sulle venationes, E. Franciosi, Athletae, cit., p. 140 ss.

[21] P. Arena, Gladiatori, cit., p. 115 s. La prima naumachia è risalente a Giulio Cesare nel 46 a.C., come testimoniato da Svetonio (Arena 2020, 120). Le battaglie richiamavano imprese reali, talvolta anche del passato, per favorire l’accostamento tra condottieri illustri. Augusto nelle res gestae ricorda la naumachia da lui allestita con maggiore dovizia di dettagli rispetto a tutti gli altri eventi, che accorpa in un capitolo cumulativo. Arena (126) afferma che la scelta di rappresentare una naumachia, nella quale si inscenava la contrapposizione tra Ateniesi e Persiani, «era dettata non soltanto dalla volontà di rievocare la vittoria conclusiva delle guerre civili, cui era seguita una pace duratura, ma anche dal desiderio di richiamare un recente successo conseguito da Roma e dall’Occidente sull’Oriente, ossia la ‘vittoria diplomatica’ sui Parti del 20 a.C., tema ideologico, cui era legato lo stesso tempio di Marte Ultore nelle motivazioni della sua edificazione». Si prefigurava, infine, la futura campagna militare sempre contro i Parti. Alla naumachia organizzata da Claudio nel 52 d.C. parteciparono i prigionieri di guerra. Nerone ne fece due, a fini propagandistici; altre naumachie ebbero lo scopo di celebrare delle infrastrutture: es., Tito per l’anfi­teatro Flavio e Traiano per il controllo delle acque.

[22] P. Arena, Gladiatori, cit., p. 119 s.

[23] P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport nella Grecia antica, Bologna, 2016.

[24] Plat. Rep. 3.404b: ‘per gli atleti della guerra occorre – dissi – un regime più accurato, perché devono vegliare come i cani, avere la vista e l’udito il più possibile acuti, e in guerra cambiare spesso acqua e cibi, e sopportare il caldo torrido e il freddo invernale conservando una salute inalterabile’ (Platone, La Repubblica, traduzione di F. Gabrieli, vol. I, libri I-IV, Milano, 1981, p. 103).

[25] P. Angeli Bernardini, Il soldato, cit., p. 68.

[26] Per un’analisi più dettagliata, sia permesso rinviare a F. Pulitanò, Brevi note in tema di attività sportiva, responsabilità ex lege Aquilia e cause di giustificazione, in Archivio Giuridico, 103, 3/2021, p. 707 ss.

[27] L. Pepe, Phonos. L’omicidio da Draconte all’età degli oratori, Milano, 2012, p. 146 ss.

[28] Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.9.4. Sul testo, tra gli altri, A. Wacke, Incidenti nello sport e nel gioco in diritto romano e moderno, in Index, 19, 1991, p. 359 ss.; S. Schipani, Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, p. 106; S. Galeotti, Ricerche sulla nozione di damnum. II. I criteri d’imputazione del danno tra lex e interpretatio prudentium, Napoli, 2016, p. 138 ss.

[29] Per ragguagli sulla configurazione di essa da assenza di cause di giustificazione a elemento soggettivo dell’illecito, cfr., per tutti, M.F. Cursi, Iniuria cum damno, Milano, 2002.

[30] Cfr. P. Angeli Bernardini, Il soldato, cit., p. 68. Per le iscrizioni, cfr. Meiggs R., D.M. Lewis, A Selection of Greek Historical Inscriptions, Oxford, 1969; J. Ebert, Griechische Epigramme auf Sieger an gymnischen und hippischen Agonen, Berlin, 1972.

[31] Per un’analisi critica della vicenda, condotta anche sotto il profilo archeologico, cfr. F. Costabile, Euthymos di Locri da Olimpia a Temesa e la statuaria di Pythagoras di Reggio. Iscrizione agonistica, dediche votive e culto delle Ninfe, in Minima epigraphica et papyrologica 25, 2022, p. 16 s.

[32] F. Costabile, Euthymos, cit., p. 17.

[33] G. Punzo, Le città della Magna Grecia e i loro campioni, in Agonistica in Magna Grecia. La scuola atletica di Crotone, a cura di A. Teja, S. Mariano, Calopezzati, 2004, p. 146.

[34] Ancora G. Punzo, Le città, cit., p. 146.

[35] P. Angeli Bernardini, Il soldato, cit., p. 82.