Il presente lavoro, partendo da una pronuncia della Suprema Corte relativa al danno cagionato ad un atleta durante l’esercizio di un'attività sportiva, si propone di ripercorrere le posizioni della dottrina e della giurisprudenza in materia di responsabilità civile in ambito sportivo.
Nella pratica di una disciplina sportiva, in particolare negli sport a contatto necessario, è inevitabile considerare un certo livello di rischio al quale l'atleta acconsente implicitamente; pertanto, in questi casi bisogna verificare se l’evento lesivo fosse voluto e se il comportamento adottato dall’atleta fosse conforme alle regole di gioco.
Parole chiave: responsabilità, rischio consentito, sport a contatto necessario.
This paper, based on a Supreme Court ruling on the injury caused to an athlete during the practice of a sport activity, aims to review the positions of doctrine and jurisprudence on liability in sports.
In practicing a sport, particularly a sport «where the contact is required», it is inevitable to consider a certain level of risk to which the athlete implicitly consents; therefore, in these cases it is necessary to verify whether the injury event was intentional and whether the behavior adopted by the athlete complied with the rules of the sport activity.
Keywords: liability, permissible risk, contact sport.
1. Il fatto - 2. La qualificazione giuridica della responsabilità sportiva - 3. Dal consenso dell’avente diritto all’accettazione del rischio - 4. Il rischio consentito - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
La decisione in commento affronta il problema relativo all’eventualità in cui un soggetto subisca un danno durante la pratica di una attività sportiva, dimostrando che la responsabilità non sussiste se le lesioni costituiscono la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e nel rispetto delle regole dell’attività, essendo implicita l’accettazione del rischio. Durante la prova di esame di arti marziali, nello specifico di Ju Jitsu, al ricorrente veniva richiesto di fare da «sagoma umana» per consentire al convenuto di raggiungere il livello di cintura nera nella disciplina sportiva in questione. Nello svolgimento della prova, questi colpiva il ricorrente al naso causandogli la deviazione del setto nasale, motivo per cui decideva di citarlo in giudizio. La domanda di risarcimento veniva rigettata sia in primo grado che in appello, sulla base dell’orientamento consolidato per cui chi prende parte ad un’attività sportiva accetta il rischio ad essa connesso. L’appello presentato si basava su un unico motivo, ossia la violazione dell’art. 2043 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, n. 5 c.p.c. Il ricorrente sottolineava che la regola applicata dal giudice di merito fosse valida per gli incontri agonistici o per l’attività sportiva in senso stretto e non durante un esame per il conseguimento di un livello superiore, come accadeva nel caso in questione. Per questo motivo il danneggiato riteneva che non fosse possibile parlare di una vera e propria attività sportiva e che dunque nella fattispecie in esame non si potesse considerare l’accettazione del rischio come criterio di esclusione della responsabilità. La Cassazione, con la decisione in commento, ha confermato l’esito del giudizio di primo grado sostenendo, in estrema sintesi, che i danni sofferti da chi partecipa ad una attività sportiva, nel rispetto delle regole del gioco, rientrano nell’alea normale di rischio e che, pertanto, non è possibile riconoscere al ricorrente il diritto risarcimento del danno subìto.
È consolidata in dottrina e in giurisprudenza la convinzione che l’atleta, svolgendo un’attività sportiva sia professionale che amatoriale, non possa evitare di considerare il rischio di subire lesioni sulla base della natura fisiologica del fenomeno sportivo. Da tempo, infatti, la natura giuridica del rischio sportivo e della responsabilità ad esso conseguente è stata il fulcro di un acceso dibattito tra dottrina e giurisprudenza che ha portato all’elaborazione di una serie di tesi, rendendo più complesso individuare quale sia la regola da seguire [1]. La maggior parte delle elaborazioni relative alla responsabilità dell’atleta è il concentrato di principi emersi in sede penale [2] applicati in quella civile, non senza contraddizioni; tuttavia, non è stato raggiunto il risultato auspicato, ossia quello di tracciare una chiara linea che distingua le condotte di gioco lecite da quelle illecite, fugando ogni dubbio sulle eventuali conseguenze risarcitorie di un’azione dannosa. È opportuno segnalare che tutte le tesi elaborate in passato sono state pensate con l’obiettivo di limitare la sfera del danno risarcibile ai casi di condotta colposa. Infatti, le pronunce, nel confrontare l’esigenza, da un lato, di salvaguardia dell’incolumità fisica dei competitori e, dall’altro, dello sviluppo della pratica sportiva, tendono a preferire il soddisfacimento della seconda alla prima [3]. Di conseguenza, la giurisprudenza ha operato una distinzione tra le condotte dolose e quelle colpose, quelle regolari e quelle fallose e, nell’ambito di queste ultime, quelle lecite e quelle illecite. È pacifico che condotte dolose siano fonte di responsabilità anche se non integrano la violazione di una regola di gioco [4], invece il giudizio sulle condotte colpose ha determinato la necessità di individuare i criteri che, da un lato, scriminassero le condotte di gioco regolari, ritenendole dunque sempre lecite [5] e, dall’altro, distinguessero le condotte «fallose» lecite da quelle illecite, dal momento che la violazione di una regola di gioco non è ritenuta condizione sufficiente a integrare una condotta colposa e a determinare la responsabilità per l’evento lesivo eventualmente derivatone [6]. Nel tentativo di ricostruire il sistema della [continua ..]
Inizialmente, negli anni ’50 veniva conferita all’esercizio dell’attività sportiva l’efficacia dell’esimente di cui all’art. 50 c.p. in base al quale «non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, con il consenso della persona che può validamente disporne». Pertanto, le condotte eventualmente lesive non apparivano punibili perché gli atleti avevano prestato il loro consenso a subire offese alla propria integrità fisica, a condizione che lo svolgimento dell’azione di gioco fosse avvenuta nel rispetto delle regole della gara. Dal momento che la condotta adottata non può essere definita come fatto illecito, l’autore può essere chiamato a risponderne solo davanti al giudice sportivo [11]. Questa tesi è stata ampiamente criticata per genericità, in quanto non viene operata una distinzione tra gli sport a contatto fisico necessario o eventuale e quelli a contatto fisico vietato, nonché per illogicità, poiché il consenso prestato su un diritto indisponibile, determinando un effetto sul bene della vita o dell’integrità psico-fisica (oltre i limiti di disponibilità previsti dall’art. 5 c.c.), risulta essere giuridicamente privo di effetto. Secondo un diverso orientamento, l’esclusione della responsabilità per danni cagionati durante lo svolgimento dell’attività sportiva si potrebbe fondare sull’art. 51 c.p., in virtù del quale «l’esercizio di un diritto (…) esclude la punibilità». Questo significa che colui che esercita un diritto non è responsabile anche se provoca la lesione di interessi altrui, poiché il titolare si avvale di una posizione di vantaggio, legalmente riconosciuta e che prevale sugli interessi di altri eventualmente in conflitto [12]. In base a questa ricostruzione, che valorizza le disposizioni legislative che favoriscono ed incoraggiano l’esercizio dell’attività sportiva [13], la pratica dello sport deve ritenersi ammessa, e quindi giustificata dall’ordinamento giuridico, anche quando determina condotte violente, che sarebbero considerate in altri contesti antigiuridiche [14]. Il limite che incontra questa teoria, però, è che la scriminante andrebbe ad operare solo per l’attività sportiva svolta in competizioni [continua ..]
L’atleta che volontariamente decide di praticare l’esercizio di una disciplina sportiva assume su di sé il c.d. rischio sportivo, per cui una determinata azione, generalmente ritenuta rischiosa o lesiva, viene considerata normale se posta in essere durante una contesa sportiva. Infatti, in questa circostanza si riconduce la condotta assunta dallo sportivo non alla figura dell’uomo medio, bensì a quella dell’atleta medio, il quale compie una serie di azioni che sarebbero considerate pericolose fuori dalla pratica dell’attività sportiva, accettando le eventuali conseguenze. Si pone a questo punto il problema di individuare quali siano i confini entro i quali l’alea sportiva possa essere ritenuta normale, esonerando in questo modo l’autore della condotta dalle conseguenze derivanti dall’applicazione delle regole sulla responsabilità civile [21]. Non si può, infatti, ritenere che l’estensione del rischio sia intesa in senso illimitato: essa deve necessariamente tener conto delle regole tecniche previste per una determinata pratica sportiva. Gli orientamenti che si sono formati in giurisprudenza non sono univoci. Secondo una prima ricostruzione, il rischio sportivo deve ritenersi accettato esclusivamente nei casi in cui la condotta dell’atleta che ha cagionato la lesione sia stata coerente con tutte le regole del gioco [22]. A questa tesi si oppone la posizione per la quale esiste un margine di azioni lesive che la vittima deve sopportare, pur in presenza di violazioni delle regole di gara [23]. Le sezioni civili della Cassazione hanno accolto quest’ultimo orientamento, soffermandosi sulla distinzione tra il comportamento lecito e quello sanzionabile a seconda che sussista o meno un collegamento funzionale tra l’azione fallosa e le finalità del gioco. Nell’ipotesi in cui si presenti questa correlazione, si esclude la responsabilità civile del danneggiante, e si individua in questo modo un’area di condotte che, pur commesse in violazione delle regole tecniche, risultano esenti da responsabilità [24]. Di conseguenza, viene circoscritta l’area dei comportamenti civilmente sanzionabili alle lesioni intenzionali o all’uso eccessivo di violenza, ossia alle condotte non compatibili con il contenuto «normale» dell’attività sportiva. La Suprema Corte, nella medesima [continua ..]
Le riflessioni sinora svolte vanno in ogni caso coniugate con quanto emerge dalla realtà sociale: non sempre, infatti, il divieto di disporre del proprio corpo, della propria salute e della propria vita prevale sul diritto di poterla determinare e di poterne disporre per raggiungere soddisfazioni esistenziali ed eventualmente anche economiche. Infatti, il pieno sviluppo della persona umana può risultare limitato laddove si impedisca ad un soggetto di conseguire i propri obiettivi di realizzazione personale o economica in una disciplina sportiva soltanto perché ritenuta non coerente con una visione paternalistica della protezione della salute e, in modo ancora più evidente, nel caso in cui si tratti di una disciplina che presenta regole tecniche volte a tutelare la salute degli atleti. Non permettere la pratica di un determinato sport solo perché può nuocere alla salute presuppone una definizione di salute in contrasto con quella data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Difatti, secondo la Costituzione dell’OMS, essa consiste in «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale» e non semplicemente «assenza di malattie o infermità [27]». È evidente che il concetto stesso di salute si è evoluto negli anni, arricchendosi di un contenuto anche sociologico e psicologico, in linea con il progressivo superamento della tendenza a separare aspetti fisici e morali della persona [28]. Sotto questo profilo potrebbe anzi aggiungersi che se il concetto di ricerca del benessere si è esteso sino a comprendere la possibilità di scegliere in cosa si concreti il proprio diritto alla salute, di conseguenza i pubblici poteri hanno ridotto la loro sfera di azione di fronte alla libertà di disporre del proprio corpo, anche con il rischio di mettere in pericolo l’integrità fisica. Una conferma di ciò è evidentemente il fatto che scelte che in altri tempi sarebbero state addirittura vietate dall’ordinamento giuridico sono oggi ritenute pienamente lecite proprio perché, mutata la sensibilità sociale, rientrano ormai nella libertà di disposizione del proprio corpo. Tuttavia, bisogna chiedersi quale sia il limite di tale libertà e fino a dove possa entrare in contrasto con la salute dell’individuo quale valore tutelato dall’art. 32 Cost. È certamente [continua ..]