Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Il calcio molesto: le condotte persecutorie nel mondo professionistico (di Harald Ege, Psicologo forense e Domenico Tambasco, Avvocato giuslavorista)


Partendo dalla definizione di un metodo generale di classificazione e valutazione dei comportamenti lavorativi ostili, gli autori prendono in considerazione i comportamenti persecutori nell’ambito specifico e peculiare del calcio professionistico. Il risultato sono conseguenze pratiche particolarmente significative ai fini della disciplina concreta e della tutela delle vittime, attraverso l’applicazione della fattispecie giurisprudenziale del mobbing e dello straining sportivo.

The harassing football in professional sport

Starting from the definition of a general method of classification and assessment of hostile work conduct, the authors take into account the persecutory conduct in the specific and peculiar field of professional football. The result is particularly significant practical consequences for the purposes of concrete discipline and the protection of victims, through the application of the case of mobbing and sports straining.

SOMMARIO:

1. Una necessaria demistificazione - 2. I fenomeni di conflittualità sul lavoro: metodo generale di accertamento e classificazione tipologica [4] - 3. Tipologie di condotte lavorative ostili - 4. Mobbing - 5. Straining - 6. La disciplina del rapporto di lavoro sportivo professionistico - 7. Il mobbing nel calcio professionistico - 8. Lo straining nel calcio professionistico - 9. Tutela giurisdizionale - NOTE


1. Una necessaria demistificazione

In un’epoca in cui “morti sono tutti gli dei” [1], retaggi di una mistica ancestrale paiono tuttavia residuare nell’ambito che più di ogni altro sollecita le passioni dei moderni: lo sport e, più in particolare, il calcio professionistico. Sebbene anche il calcio si sostanzi funzionalmente in una delle tante attività attraverso cui si esplica la laboriosità dell’homo faber, non si può negare il fatto che per esso la nozione di “lavoro sportivo” sia riduttiva, considerata la peculiare natura e i concreti riflessi. Il calcio, alla stregua di una moderna religione, muove milioni di adepti (recte i tifosi), impegna migliaia di persone divise in congregazioni (recte le società calcistiche), ha una sua settimanale liturgia (recte la partita domenicale o infrasettimanale), ha i suoi simboli sacrali (recte le divise, le bandiere, i numeri e i nomi di maglia, la fascia di capitano, l’attrezzatura sponsorizzata, ecc.), ha il suo catechismo (recte le migliaia di scuole calcio). Il confronto può apparire a prima vista irriverente: la realtà dei fatti, tuttavia, rivela un’impressionante identità tra i fenomeni in questione. Non manca un’aura di mistero e di segretezza che avvolge anche il mondo del calcio, allorché si tenti di fotografare “l’altra faccia della luna”: i conflitti che naturaliter si sviluppano in ogni ambiente lavorativo (tanto da poter parlare di “Lavoro molesto” [2]), sono come “silenziati” quando toccano il mondo del calcio professionistico, che si contraddistingue per una costante capacità di composizione domestica. Scarne notizie trapelano dalle spesse mura della chiesa calcistica, non di rado limitate a laconici trafiletti delle testate sportive. Eppure anche nel calcio, come in ogni altro ambiente lavorativo, la naturale conflittualità umana, l’hobbesiano homo homini lupus si manifesta in tutta la sua aggressività: dietro il sipario di un palco su cui va in scena la quotidiana recita degli eroi moderni si celano le stesse vessazioni, gli stessi ricatti, le medesime molestie, le identiche violenze, le solite discriminazioni che albergano nella maggior parte degli ambienti lavorativi. Aggressività acuita dal carattere ipercompetitivo del calcio in cui, soprattutto in ragione degli ingenti flussi di denaro investiti e della [continua ..]


2. I fenomeni di conflittualità sul lavoro: metodo generale di accertamento e classificazione tipologica [4]

È opportuno partire dall’osservazione della realtà: le forme di conflittualità lavorativa (intesa in questo ambito come sinonimo di ostilità) sono molteplici e frequentemente confuse nella prassi quotidiana in un magma indistinto, attraverso l’utilizzo – non di rado a sproposito – della categoria del mobbing con valenza omnicomprensiva. Spesso, ad esempio, è capitato sentir parlare di condotta mobbizzante alla prima contestazione disciplinare o al primo spostamento di ufficio. Riteniamo dunque imprescindibile, al fine di una corretta opera di diagnosi e di accertamento dei fenomeni ostili, richiamare brevemente alcune nozioni fondamentali dello strumento scientifico di classificazione, che ha consentito di fissare un preciso protocollo identificativo delle condotte lavorative ostili. In particolare, l’esperienza concreta di migliaia di casi e l’applicazione del “Metodo Ege 2002” [5] per l’accertamento del mobbing hanno permesso di giungere, in modo induttivo, all’individuazione di una serie di indici generali che rappresentano per l’e­sperto dei veri e propri indicatori sintomatici. Essi sono: 1. Ambiente. 2. Frequenza. 3. Durata. 4. Tipo di azioni. 5. Dislivello tra gli antagonisti. 6. Andamento secondo fasi successive. 7. Elemento psicologico-soggettivo. Questi parametri consentono all’Esperto di distinguere non solo tra ciò che è vessazione, molestia, violenza e ciò che non lo è ma, soprattutto, permettono di collocare la vicenda all’interno o all’esterno del perimetro per noi rilevante, ovvero quello lavorativo. Il differente ordine sequenziale dei parametri – identificati da precisi codici numerici – consente di accertare, nel caso concreto, l’una o l’altra condotta ostile secondo il nuovo modello dell’Ege Conflict Code Organization (ECCO) [6]. Procediamo ad una sintetica descrizione dei parametri: Parametro 1 (Ambiente lavorativo) Richiede che la vicenda si svolga sul lavoro e non in un altro contesto. Ciò esclude quindi tassativamente tutte le situazioni di stress, conflitto, persecuzione o disagio che si svolgano al di fuori dell’ambiente lavorativo. Parametro 2 (Frequenza) Le condotte vessatorie sul posto di lavoro sono reali, concrete: hanno una loro manifestazione spazio-temporale, sono attuate effettivamente, hanno coordinate [continua ..]


3. Tipologie di condotte lavorative ostili

Le considerazioni generali testé svolte rendono ora più comprensibile la seguente classificazione delle condotte lavorative ostili le quali, nella realtà fenomenica, si dividono in: – persecuzioni/vessazioni (mobbing/straining/stalking occupazionale) [17]; – violenze/molestie (molestie sessuali, aggressioni fisiche o verbali); – condizioni/situazioni lavorative sfavorevoli o nocive (superlavoro, stress lavoro-correlato, ecc.). Al di là del minimo comune denominatore costituito dal contesto lavorativo, le tre categorie di condotte ostili si differenziano per molteplici parametri. Infatti, per quanto riguarda la frequenza delle azioni (parametro 2), mentre le persecuzioni si caratterizzano per una pluralità di azioni attuate più volte al mese o per conseguenze lavorative deteriori e costanti (ad esempio il mobbing e lo straining), le violenze e le molestie si esauriscono in un’unica condotta realizzata in un singolo momento (aggressioni fisiche o verbali e molestie sessuali); altri fenomeni hanno invece una natura “ambientale” o “situazionale”, derivando da condizioni lavorative sfavorevoli o nocive, come il classico superlavoro che, nella sua forma più estrema, può addirittura portare alla morte della vittima (il c.d. Karoshi). Analogamente, con riferimento ai parametri 3 (durata) e 6 (andamento secondo fasi successive), le persecuzioni e le vessazioni hanno una durata minima convenzionale (almeno 6 mesi, salvo eccezioni quali il quick mobbing e il mobbing o lo straining sportivo, per cui sono sufficienti anche solo 3 mesi) e soprattutto uno sviluppo attraverso cui la condotta ostile progredisce di intensità e di lesività; al contrario, le violenze e le molestie si manifestano in un singolo momento, nell’hic et nunc spazio-temporale che rifugge tanto dalla durata quanto dallo sviluppo dell’azione lesiva. Il parametro 7, ovverosia l’elemento psicologico-soggettivo, consente di distinguere le situazioni ambientali nocive dalle condotte datoriali vessatorie o violente: nel primo caso, infatti, a fronte di una situazione oggettivamente illecita e lesiva della salute del lavoratore (quale è tipicamente il superlavoro e più in generale lo stress lavoro-correlato), manca qualsiasi animo o volontà lesiva; è una sorta di illecito lavorativo ambientale, che prescinde dal dolo del datore di [continua ..]


4. Mobbing

Secondo la definizione coniata alcuni anni fa, “Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione” [19]. È una nozione omnicomprensiva: nell’arco di poche righe sono presenti, infatti, i sette parametri fondamentali per la definizione e l’individuazione corretta del Mobbing, come abbiamo approfonditamente analizzato in precedenza. Si tratta, del resto, di una definizione fatta propria dalla stessa giurisprudenza, la quale ha integralmente trasposto nel mondo del diritto il modello elaborato dalla psicologia del lavoro [20]. Alla luce del modello di classificazione “per parametri” sopra descritto, possiamo dunque affermare che dal punto di vista dell’elemento oggettivo si tratta di un fenomeno lavorativo, con una frequenza delle azioni attive di almeno qualche volta al mese e con una durata superiore a 6 mesi (salvo l’eccezione del quick mobbing, del mobbing e dello straining sportivo), con una tipologia di azioni rientranti in almeno due distinte categorie del LIPT EGE, in un contesto in cui vi sia un dislivello tra gli antagonisti, e con una progressione ed uno sviluppo giunto almeno alla 2a fase. Proprio con riferimento al modello di progressione a fasi successive, bisogna precisare come per il mobbing l’articolazione sia più complessa rispetto al modello generale, essendo possibili sei stadi in luogo degli ordinari quattro [21], fasi che si inscrivono generalmente in una situazione di conflitto latente e generalizzato detto “Condizione Zero” [22]. I primi sei parametri, dunque, definiscono l’elemento oggettivo della fattispecie. Quanto invece all’elemento psicologico-soggettivo, caratteristica propria del mobbing è la presenza dell’intento persecutorio, ovverosia dell’animus nocendi connotato sia da uno scopo [continua ..]


5. Straining

L’esperienza concreta ha portato in risalto un’ampia platea di condotte ostili che, sebbene gravemente lesive della dignità e della integrità fisio-psichica delle vittime, non potevano essere ricondotte al complesso modello del mobbing come sopra elaborato. È nata dunque l’esigenza di dare piena copertura anche a tali fenomeni, che sono andati a formare la fattispecie dello straining (nella realtà la più diffusa categoria di persecuzioni lavorative): “Con il termine Straining si intende una situazione di Stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo Straining (strainer). Lo Straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante” [36]. Si tratta, dal punto di vista dell’elemento oggettivo, di una condotta ostile propria dell’ambiente lavorativo, caratterizzata quanto alla frequenza da un’unica azione con conseguenze lesive costanti, da una durata delle conseguenze lesive dell’azione ostile (ad esempio la dequalificazione professionale) di almeno 6 mesi (ad eccezione, come vedremo più avanti, dello straining sportivo) e da una tipologia di azioni rientranti almeno in una categoria del LIPT EGE. Quanto al dislivello tra gli antagonisti, trattandosi di una forma di vessazione lavorativa, la vittima deve necessariamente essere in una posizione di costante inferiorità ed incapacità di difendersi e relativamente all’andamento secondo fasi successive, la condotta ostile strainizzante – come in tutte le persecuzioni lavorative – ha una progressione secondo stadi successivi: in questo caso, deve raggiungere – come il mobbing – almeno la 2a fase, ovverosia quella definita di “sviluppo”. Infine, per ciò che attiene all’elemento psicologico-soggettivo anche lo straining, come tutti i tipi di condotte vessatorie, necessita dell’intento persecutorio ovverosia di un chiaro scopo politico (es. colpisco la vittima perché ha segnalato diverse irregolarità lavorative) e di uno specifico obbiettivo discriminatorio (la vittima è trattata in [continua ..]


6. La disciplina del rapporto di lavoro sportivo professionistico

Sarà opportuno, prima di esaminare le due principali forme di ostilità lavorativa emergenti nel mondo del lavoro sportivo, svolgere una breve digressione inerente la disciplina speciale del rapporto di lavoro sportivo professionistico, che è la risultante del combinato disposto delle nuove disposizioni contenute nel recente d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 36 [41] (che ha sostituito la disciplina contenuta nella previgente legge n. 91/1981), delle NOIF (Norme Organizzative Interne della FIGC), e dell’Accordo Collettivo dei Calciatori [42]. Più precisamente, per quanto interessa la presente trattazione, a norma dell’art. 26 comma 1, d.lgs. n. 36/2021 ai contratti di lavoro subordinato sportivo non si applicano le norme contenute negli artt. 4, 5, 13 e 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), negli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7 e 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nell’art. 1, commi da 47 a 69 della legge 28 giugno 2012, n. 92, negli artt. 2, 4, 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nell’art. 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Si tratta di previsione che ricalca pressoché pedissequamente quella dell’art. 4, legge n. 91/1981, relativa all’esonero della disciplina di diritto comune in materia di licenziamenti individuali e collettivi e di alcuni diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori a favore del prestatore di lavoro; previsione che, come vedremo ora, presenta tuttavia una “sbavatura” non trascurabile. L’unanime dottrina [43], sulla base proprio dell’esclusione dell’art. 13 della legge n. 300/1970 [44], ha sempre considerato inapplicabili al contratto di lavoro sportivo le disposizioni dell’art. 2103 c.c. in materia di equivalenza delle mansioni e di divieto di demansionamento sostenendo l’incompatibilità, con il rapporto in esame, del sistema di classificazione per categorie di inquadramento che costituisce invece la base della previsione codicistica. Si deve rilevare tuttavia come l’art. 2103 c.c. sia stato totalmente novellato dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 [45] che, nell’ottica di una complessiva riforma della regolamentazione delle mansioni, ha ridefinito il concetto di equivalenza e la correlativa disciplina del divieto di demansionamento, oggi analoga a quella da tempo prevista per l’impiego pubblico [continua ..]


7. Il mobbing nel calcio professionistico

Esempio A Tizio è l’attaccante di una squadra di vertice del campionato italiano di Serie A. È il capitano della squadra e il suo numero di maglia, la 9, è un vero e proprio brand pubblicitario che ha dato origine ad una linea di prodotti venduti sul mercato. Nel corso dell’inverno 2020 Tizio si trova impegnato, insieme al suo procuratore, in una serrata trattativa per il rinnovo del contratto in scadenza nel 2021 e che potrebbe portarlo ad andarsene a “parametro zero”: una prospettiva economicamente disastrosa per il club, tenuto conto che il suo valore di mercato è di circa 100 milioni di euro. La trattativa, tuttavia, si arena dopo mesi di sterili negoziazioni: mentre il giocatore richiede un congruo aumento dello stipendio, il club non offre che un aumento minimo, dovendo necessariamente contenere il monte ingaggi. A questo punto la società, visibilmente contrariata per l’atteggiamento del giocatore che considera “ricattatorio”, decide di “facilitare” lo sblocco della trattativa passando a delle “contromosse”: si decide, in primo luogo, di revocare la fascia di capitano a Tizio, assegnandola ad un altro compagno di squadra. In secondo luogo, Tizio dopo alcune assenze per motivi di salute, viene lasciato dall’allenatore in panchina: fino alla fine della stagione, da titolare inamovibile diventerà “panchinaro”, con all’attivo pochi scampoli di partita ogni domenica. Inoltre, all’inizio della preparazione precampionato della nuova stagione 2020-2021 gli viene detto espressamente dal Direttore Sportivo e dall’allenatore che non rientra più da tempo nei programmi della società; a questa espressa dichiarazione – registrata di nascosto dal giocatore – seguono una serie di condotte ulteriori, costituite dalla assegnazione del suo storico numero di maglia ad un nuovo attaccante recentemente acquistato da un campionato estero, dall’esclusione dalle sedute e dagli allenamenti tattici della squadra, dalla mancata convocazione alle amichevoli e alle tournée della prima squadra. Tizio, intanto, inizia a sentire il peso ed il logoramento di questa difficile situazione ambientale: prima di andare agli allenamenti è colpito da attacchi di ansia, è scontroso con i familiari, si chiude sempre di più in se stesso. Siamo ormai ad agosto 2020 e dall’inizio della [continua ..]


8. Lo straining nel calcio professionistico

Esempio D Mevio è un difensore tesserato per un club di Serie A che tuttavia, a causa di una sfortunata stagione sportiva, retrocede in serie B. Il Direttore Sportivo, avendo avuto l’indicazione dalla proprietà di ridurre il monte ingaggi per la stagione successiva a causa dei minori introiti derivanti dalla perdita della principale categoria calcistica, convoca i giocatori con gli ingaggi più alti tra cui Mevio, al quale propone la riduzione del 50% dei compensi relativi alla stagione successiva. Mevio rifiuta, pretendendo il rispetto delle pattuizioni contrattuali, ed il Direttore Sportivo gli comunica la “messa fuori rosa” con effetto immediato. Dal giorno successivo, dunque, Mevio si allena soltanto con la squadra Primavera, non potendo più avere contatti con lo spogliatoio della prima squadra e non venendo più convocato nemmeno per le amichevoli e per le partite ufficiali della prima squadra. La situazione dura per quattro mesi, fino a quando Mevio non si convince a risolvere consensualmente il contratto per tesserarsi con un altro club. L’esempio ora riportato rispecchia la casistica più frequente nel mondo del calcio professionistico: le cronache dei giornali sportivi riportano infatti spesso, come se fosse normale, di giocatori messi “fuori rosa” o posti comunque ai margini della squadra per ragioni inerenti solitamente il mancato rinnovo del contratto o il rifiuto del calciatore di ridursi l’ingaggio o, ancora, di accettare la cessione presso un altro club. Sebbene molto frequenti, queste prassi sono tutt’altro che legittime; al contrario, si tratta di comportamenti indebiti che, modificando in modo deteriore e permanente la condizione lavorativa dell’atleta, si sostanziano in vere e proprie condotte persecutorie. Tuttavia, spesso queste situazioni non sono inscrivibili nella fattispecie del mobbing, poiché non si estrinsecano in una pluralità di condotte intenzionalmente lesive, iterative e sistematiche, come richiesto dalla fattispecie testé analizzata; al contrario, nella realtà dei fatti si concretizzano in un unico atto (appunto, la “messa fuori rosa” o l’esclusione dalle partite ufficiali) produttivo di conseguenze negative permanenti sul rapporto di lavoro dello sportivo professionista. Eppure, proprio per l’assenza di adeguati strumenti di tutela, nel passato la dottrina [88] ha [continua ..]


9. Tutela giurisdizionale

Con riguardo agli strumenti di tutela giurisdizionale a disposizione della vittima di condotte persecutorie mobbizzanti o strainizzanti, è ormai acquisita nel diritto vivente la possibilità di esperire, anche cumulativamente, tanto l’azione contrattuale quanto quella aquiliana [97]. Più precisamente, se l’azione contrattuale ex art. 2087 c.c. e 1453 c.c. potrà rivolgersi alternativamente alla risoluzione del rapporto contrattuale o al suo adempimento attraverso – in quest’ultimo caso – l’inibitoria della condotta vessatoria e fatto salvo in ogni caso il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali eventualmente patiti, l’azione aquiliana al contrario potrà puntare unicamente al rimedio risarcitorio [98]. È opportuno sottolineare come, conformemente a quanto indicato da un’autorevole dottrina [99], la via della tutela in forma specifica, possibile attraverso l’azione ex contractu, sarà preclusa nei casi in cui la condotta persecutoria abbia reso insostenibile la situazione ambientale e, dunque, abbia di fatto reso impossibile la reintegrazione della vittima. Si deve inoltre segnalare come uno speciale rimedio contrattuale [100] sia previsto dagli Accordi Collettivi dei calciatori, che stabiliscono il diritto del calciatore, laddove la società non abbia adempiuto entro 3 giorni dalla diffida scritta dell’atleta, ad ottenere alternativamente la reintegrazione o risoluzione del contratto, fermo restando in ogni caso il diritto al risarcimento del danno in misura non inferiore al 20% della parte fissa della retribuzione annua lorda (art. 12.2). Nell’ulteriore ipotesi di mancato adempimento del lodo arbitrale, il calciatore ha diritto alla risoluzione del contratto ed al risarcimento del danno pari alla retribuzione contrattuale dovuta fino alla fine della stagione (12.4). Si tratta di strumento esperibile nella specifica procedura arbitrale prevista dall’Accordo collettivo, limitatamente tuttavia alla sola fattispecie delineata dal­l’art. 7.1. che, pur contenendo disposizioni relative alla garanzia di un ambiente lavorativo consono alla dignità professionale e alla partecipazione agli allenamenti ed alla preparazione precampionato, non ha la portata omnicomprensiva propria invece del­l’art. 2087 c.c. Infine, tenuto conto che la materia in oggetto riguarda la lesione di [continua ..]


NOTE