Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Attività sportiva estrema e responsabilità (di Ugo Ruffolo, Ordinario di Diritto Civile presso l’Università di Bologna.)


The work deals with the issues of liability related to the practice of extreme sports and, in general, of sports characterized by a high level of danger. Attention will be especially paid to the topics of liability for the organizers of such sports, including liability for dangerous activities pursuant to Article 2050 of the Italian Civil Code, and to the related issues of consent.

SOMMARIO:

1. I limiti all’esercizio dell’attività sportiva tra tutela dell’integrità fisica e realizzazione della persona - 2. Il consenso alla prestazione sportiva - 3. Consenso dell’atleta e rilevanza delle «regole del gioco» - 4. La responsabilità, aquiliana e contrattuale, dell’organizzatore di attività sportiva - 5. L’esposizione al rischio sportivo nell’ambito di attività «lavorative» ancillari o imitative dell’attività sportiva - NOTE


1. I limiti all’esercizio dell’attività sportiva tra tutela dell’integrità fisica e realizzazione della persona

Lo sport, per il giurista, è da sempre terreno di conflitto tra contrapposte istanze: da un lato, fondamentale e potente strumento di realizzazione della personalità umana (art. 2 Cost.); dall’altro, potenziale minaccia alla salute, all’integrità fisica e persino alla vita (tutelate dall’art. 32 Cost.). Soprattutto in materia di sport estremi, ai quali l’elemento pericolo è inerente per natura (dalla boxe e le corse automobilistiche all’al­pinismo ed alla caccia grossa, fino al rafting, bungee jumping, skysurfing, kitesurf, ecc.). Tutte le attività sportive comportano, comunque, un ineliminabile livello di più o meno elevata pericolosità, che le specifiche «regole del gioco», volte a disciplinare l’esercizio della competizione o manifestazione atletica, si prefiggono di governare ma che non possono integralmente eliminare.

L’attività sportiva, anche quando estrema, è non solo ammessa dal nostro ordinamento, ma (a ragione) promossa ed incentivata, quale esercizio di libertà; dunque malgrado la propria natura spesso intrinsecamente pericolosa. È così sancito, ad esempio, che l’esercizio di attività sportiva in qualunque forma, individuale o collettiva, professionistica o dilettantistica, è libero (cfr. legge 23 marzo 1981, n. 91), e che l’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva, tanto da meritare massima diffusione (cfr. legge 14 dicembre 2000, n. 376). Ed il tasso di autonomia degli ordinamenti sportivi rispetto a quello generale dello Stato è tra i più elevati.

In particolare, lo svolgimento di talune pratiche sportive, anche estreme, è incoraggiato dall’ordinamento in considerazione dell’interesse primario riconosciuto alla pratica dello sport quale fattore di perseguimento della salute dell’individuo, intesa come condizione dinamica di benessere psicofisico, e di sviluppo della personalità [1], alla quale l’individuo tende anche tentando di superare i limiti umani.

Tali interessi trovano tutela anche nella nostra Carta costituzionale, soprattutto in relazione all’art. 2 Cost. come affermazione di un principio di tutela della «vita degna di essere vissuta». Dal quale deriverebbe anche un incomprimibile diritto a (e, dunque, la libertà di) svolgere le attività sportive, anche quando ad alto rischio, accettate e tramandate dalla propria cultura di riferimento (si pensi alla boxe), in quanto fattore di realizzazione, sviluppo ed estrinsecazione della personalità umana. Secondo la medesima prospettiva, assume altresì centrale rilievo l’art. 32 Cost., malgrado esso possa prima facie sembrare porsi in antitesi rispetto agli sport più violenti, potenzialmente lesivi della salute se riduttivamente intesa come mera integrità fisica. Ma il bene «salute» deve intendersi invece – secondo una lettura oggi avallata, tra l’altro, anche dal­l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre che dalla più recente versione del Codice deontologico medico – non solo come integrità fisica, e dunque quale mera assenza di malattia o perfetta integrità del corpo umano, bensì come condizione di più generale ed armonico benessere psicofisico. Alla quale contribuisce anche la possibilità di «realizzare se stessi» mediante attività sportive (anche estreme). Senza dimenticare che lo sport costituisce elemento essenziale della nostra cultura; e così tutelato anche dall’art. 9 Cost.

Altra norma, forse non sufficientemente invocata, capace di offrire copertura costituzionale alla libertà di esercitare pratiche sportive anche estreme, quando la loro accettazione sociale sia consolidata, appare l’art. 13, comma 1, Cost., secondo il quale la libertà personale è inviolabile. Ne consegue la liceità della pratica di molti sport estremi quale esercizio di libertà. Parrebbe, infatti, possibile e meritorio estendere al settore della pratica sportiva gli approdi da tempo maturati da dottrina e giurisprudenza in ambito sanitario, così costruendo una più generale concezione della tutela costituzionale della libertà personale nel disporre del proprio corpo come momento di esercizio dell’autodeterminazione del singolo.

Valga rammentare come il Progetto Preliminare al codice penale prevedesse, quale specifica fattispecie di reato, la «lesione personale del consenziente», nel cui ambito sarebbero rientrate anche le lesioni cagionate nelle competizioni sportive. Tale figura di reato non venne, però, trasfusa nella versione finale del codice, riconoscendosi come, nel nostro ordinamento, siano molteplici i casi in cui alla persona è riconosciuta la facoltà di disporre della propria integrità fisica, dalle operazioni chirurgiche invasive per finalità estetiche o di adeguamento dei caratteri sessuali sino alle competizioni o pratiche sportive estreme, inerentemente violente o rischiose.

È opinione oggi condivisa che, con riferimento alle responsabilità da esercizio di attività sportive, anche di natura pericolosa, trovi operatività una «scriminante non codificata» relativa all’esercizio di un diritto (e, anzi, di una libertà). In passato, autori che andavano da Betti e De Cupis ritenevano, invece, invocabile l’esimente del consenso dell’avente diritto: si sosteneva, in sintesi, che, nell’accettare di prendere parte alla competizione o all’attività sportiva in generale, l’atleta accetterebbe anche il rischio di subire lesioni nel corso della stessa. Tale tesi poneva, tuttavia, il duplice problema dei limiti del consenso penalistico ex art. 50 c.p. – valido solo nell’ambito dei diritti disponibili – e, più in generale, del divieto, ex art. 5 c.c., di atti di disposizione del proprio corpo contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume o, comunque, idonei a cagionare una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Laddove, a ben vedere, l’operatività di tale norma sembrerebbe limitata ai soli atti di disposizione del corpo di natura negoziale, «in favore» o «nell’interesse» di un differente soggetto. Ne resterebbero esclusi tutti gli interventi o atti che incidano sull’integrità del corpo umano esaurendo, però, i propri effetti nella sfera di colui che li ha posti in essere o che ne ha richiesto l’esecuzione (c.d. atti «autodispositivi»). L’art. 5 c.c. riguarderebbe, così, i soli casi in cui ci si obbliga nei confronti di un terzo a compiere o a subire atti di disposizione del proprio corpo, ponendovi limiti in relazione al divieto di disposizioni fonte di obbligazioni a prestazioni che comportino diminuzioni permanenti alla integrità fisica.

Tale distinzione è suscettibile di assumere centrale rilievo anche nell’ambito in esame, specialmente nel distinguere tra attività sportiva dilettantistica ed attività del­l’atleta professionista. Si è detto sopra che altro sono i limiti alla liceità di obbligarsi a prestazioni comportanti alterazioni corporee (vietate dall’art. 5 c.c. a pena della nullità dei correlati atti negoziali) ed altro la libertà «autodispositiva» di disporre di se stessi, decidendo di compiere attività comportanti pericoli per la salute e la vita. Altro è, infatti, il pericolo di lesioni all’integrità fisica al quale lo sportivo può liberamente decidere di esporsi, ed altra la liceità del vincolo che obblighi a compierle. Si pensi all’atle­ta professionista contrattualmente obbligatosi (ad esempio, nei confronti della propria società sportiva) a prestazioni – talora «lavorative» – anche «estreme». Così come, del resto, in diverso ambito, altro è la libertà di autodeterminazione a sottoporsi ad interventi di chirurgia estetica anche invasivi, altro i limiti di liceità all’obbligarsi verso terzi a sottoporsi a modificazioni corporee irreversibili o penalizzanti, funzionali a talune prestazioni «lavorative». Si pensi al mondo dello spettacolo; o a forme di enhancement corporei richieste (imposte) per far parte di taluni corpi militari d’élite.

Il problema della liceità del vincolo contrattuale a porre in essere prestazioni sportive potenzialmente incisive sull’integrità fisica parrebbe non sussistere per le attività sportive «comuni» (calcio, pallacanestro, ecc.), pacificamente avallate dall’ordina­mento e specificamente disciplinate dalle regole di settore (spesso codificate in sede CONI). Ma il problema non si pone neppure per le attività «estreme» tradizionali, sia come sport agonistici (boxe, corse automobilistiche…) che come pratiche alla ricerca dei propri limiti, «in gara con se stessi», quali l’alpinismo o la caccia pericolosa. E ad esse si aggiungono pratiche e sport estremi, più recenti, ma già entrati oggi a far parte del patrimonio culturale sottostante al nostro ordinamento (bungee jumping, torrentismo, kitesurf, freeskiing, ecc.). Il problema potrebbe, invece, porsi in modo più incidente per le nuove attività sportive estreme «non codificate», contrarie o estranee al nostro attuale sentire o comunque ancora non entrate nel novero delle pratiche ritenute culturalmente e socialmente accettabili. Così, ad esempio, sia l’organizzazione che la pratica di una corrida sarebbero qualificabili come attività illecite.

Il fatto che una attività umana assurga alla dignità di sport (anche estremo) socialmente accettato (si pensi alla noble art della boxe) costituisce il discrimine per la liceità del praticarla od organizzarla anche come spettacolo sportivo. Con ogni conseguenza in materia di responsabilità e risarcibilità dei danni eventualmente occorsi nel suo esercizio, così come della liceità ed esigibilità della prestazione nei contratti con l’atleta professionista.

Ma la legittimazione degli sport violenti o estremi non può essere a priori limitata alle sole pratiche già oggi note ed accettate dalla nostra cultura, essendo quest’ultima, per sua natura, in divenire ed aperta ad integrazioni. Così, accanto ai tradizionali sport e pratiche estreme da tempo socialmente accettati, quelli emergenti passeranno gradualmente dall’ostracismo sociale al divenire parte della nostra cultura, entrando nel novero delle libertà individuali riconosciute.


2. Il consenso alla prestazione sportiva

Pur non essendo il consenso dell’avente diritto a legittimare l’attività sportiva anche quando pericolosa, bensì l’operatività di una scriminante atipica connessa all’eser­cizio di un diritto (talora, anzi, di una libertà), resta di essenziale rilevanza il momento consensualistico; anche con riguardo alla distinzione tra prestazione contrattuale dell’atleta professionista ed attività sportiva «libera» e dilettantistica.

Infatti, così come, in ambito sanitario, l’acquisita consapevolezza della rilevanza costituzionale del diritto all’autodeterminazione non priva di rilevanza il consenso del paziente, che anzi costituisce il perno della relazione terapeutica (c.d. «consenso informato»), il consenso dell’atleta, consapevole e perdurante per tutto lo svolgimento dell’attività sportiva estrema, è sempre necessario quale presupposto fondamentale della liceità dell’attività medesima. E dunque anche per la esigibilità della prestazione dedotta nel contratto che lega l’atleta alla società sportiva o all’organizzatore d’uno specifico evento agonistico (incontro di boxe, gara automobilistica…).

L’affermazione della centrale rilevanza del consenso dell’atleta che effettua la specifica prestazione assume determinanti riflessi sui rapporti obbligatori sottostanti all’attività sportiva, tanto con riferimento ad eventuali limitazioni della responsabilità per danni verificatisi nel corso di gare o manifestazioni sportive, quanto in relazione alla disciplina negoziale dell’attività sportiva, sia dilettantistica che professionistica; la quale può costituire anche oggetto di un contratto di lavoro. La peculiarità delle prestazioni inerenti all’esercizio di attività sportiva estrema, ad elevato rischio, legittima, tuttavia, talune anche implicite deroghe alla generale disciplina contrattuale, con riguardo, fra l’altro, sia alle norme sull’inadempimento che alla facoltà di recesso. La prestazione dedotta in contratto resta, infatti, lecitamente esigibile solo ed esclusivamente in quanto sia ad essa sotteso il consenso dell’agente, che deve permanere «libero» e consapevole; e perdurare per l’intero corso di ciascuna prestazione.

Il venir meno del consenso dell’obbligato alla prestazione sportiva pericolosa oggetto di contratto determina, dunque, il simultaneo venir meno del presupposto della sua lecita esigibilità. Divenuta la prestazione giuridicamente impossibile (sempre che il rifiuto dell’atleta sia supportato da buona fede), pertanto, non potrà configurarsi un’ipotesi di inadempimento: si pensi al boxeur o al pilota da corsa che, impressionato da un sopravvenuto spettacolare incidente, proprio o altrui, rifiuti il giorno dopo di salire sul ring o sull’auto da competizione perché «non se la sente». La prestazione dedotta in contratto diventa in tal caso inesigibile, siccome non più supportata da quel consenso che ne costituisce indefettibile presupposto.

Per tali motivi, l’organizzatore dell’evento sportivo o la società sportiva non potranno pretendere il risarcimento dei danni patiti a causa di quel rifiuto (e sarebbe anzi comportamento illecito ogni pressione coartante), rientrando tale eventualità nell’am­bito del rischio imprenditoriale tipico di tali attività: allo sportivo professionista deve, infatti, essere sempre riconosciuta la possibilità di esercitare, purché in buona fede, il proprio diritto di revocare il consenso ad una prestazione pericolosa, la quale in virtù di tale revoca diviene non esigibile. E dovrà altresì ritenersi nulla ogni clausola che penalizzi l’atleta che si rifiuti di compiere una determinata prestazione sportiva connotata di peculiare pericolosità o che revochi il proprio consenso rispetto ad essa o che intenda recedere dal relativo contratto.

Il diritto dell’atleta ad opporre il proprio rifiuto alla prestazione deve restare, infatti, incoercibile, stante la peculiare natura della prestazione sportiva estrema, in quanto incomprimibile diritto ad esercitare una libertà. Il diritto ad esercitarla può costituire oggetto di contratto. Ma tale sua «mercificazione» non può tralignare in forme di coer­cizione, seppur indiretta, all’esercizio del gesto atletico estremo quando non supportato da attuale e perdurante consenso. Il quale non può essere dunque coartato, né attraverso vincoli negoziali, né per effetto di pressioni provenienti da soggetti quali l’orga­niz­zatore o lo sponsor, o comunque da ogni forma di coazione anche indiretta.


3. Consenso dell’atleta e rilevanza delle «regole del gioco»

Ma la centralità del momento consensualistico nel settore in questione induce altresì ad una ulteriore riflessione, il cui rilievo si estende anche oltre l’ambito dei soli sport estremi o pericolosi.

La validità del consenso presuppone anche la consapevolezza, e la accettazione, da parte dell’atleta, dilettante o professionista, delle dinamiche della specifica disciplina e, conseguentemente, del correlato ma limitato rischio cui si espone, in una manifestazione o gara condotta secondo regole ben precise, accettate da ognuno dei partecipanti. Ne deriva che anche l’oggetto e l’estensione dell’accettazione del rischio di eventi lesivi che possano verificarsi nel corso dell’attività sportiva sono da parametrarsi in riferimento alle regole medesime: in caso di loro violazione, infatti, le concrete situazioni di pericolo possono tradursi in eventi diversi da quelli preventivabili dal partecipante all’attività.

Pertanto, la volontaria e consapevole esposizione dell’atleta al rischio è considerata lecita e suscettibile di privare di antigiuridicità il comportamento dello sportivo foriero di danni. Ma costituisce centrale parametro la verifica del rispetto delle regole del gioco; che rilevano, dunque, come misura dell’estensione del consenso prestato dall’atle­ta, oltre che quale metro di valutazione della liceità della sua condotta; con ogni conseguenza anche in materia di responsabilità extracontrattuale.

Tanto, fermo restando che la giurisprudenza ritiene ammissibili talune violazioni delle regole del gioco, quando «fisiologiche» rispetto alle complessive dinamiche della competizione e non abnormi o sproporzionate o esulanti dallo scopo della attività sportiva, ma ad esso collegate e compatibili [2]. L’atleta non può, invece, giovarsi di alcuna giustificazione in caso di volontaria violazione delle regole: si pensi, ad esempio, ai falli di reazione. In tali ipotesi, il danno non si verifica durante un’azione di gioco – nel corso della quale i nostri giudici ammettono un certo margine di discostamento dalle regole in ragione della c.d. «ansia da risultato» – e dunque risulta carente alcuna connessione tra finalità di gioco e modalità di realizzazione dell’illecito che giustifichi l’applicazione dell’esimente [3]. Così come l’assenza di alcuna giustificazione da «ansia da risultato» per il caso di attività esplicantesi in esibizione-allenamento, fisiologicamente caratterizzata da una minore carica agonistica, rende più stringenti gli obblighi di cautela e prudenza in capo agli atleti al fine di evitare l’insorgere di eventi lesivi [4].

Le regole sportive assurgono, così, a centrale parametro di individuazione del discrimine tra lecito ed illecito, e, conseguentemente, tra danno risarcibile e non risarcibile. La giustificazione relativa all’esercizio di attività sportiva, anche estrema, è ritenuta applicabile soltanto qualora la condotta che abbia cagionato il fatto lesivo sia stata conforme alle regole della disciplina sportiva di riferimento: se l’esenzione da responsabilità è fondata sulla scriminante dell’esercizio di un diritto, il diritto in questione deve essere esercitato in modo corretto, in aderenza alle «regole del gioco». Ed anche coloro che fanno riferimento al paradigma consensualistico per legittimare l’esercizio dell’attività sportiva anche violenta riconoscono che il rispetto delle regole dell’arte delimita l’oggetto del consenso in relazione al danno arrecato.

Tuttavia, il rispetto delle «regole del gioco» potrebbe essere insufficiente sia ad eliminare i rischi connessi all’attività sportiva, sia a determinare l’eventuale esenzione da responsabilità per l’atleta, particolarmente in caso di attività sportive estreme; o che, anche secondo la giurisprudenza, esigano un livello di diligenza, prudenza e perizia più elevato di quello ordinario. È, dunque, la combinazione tra rispetto delle specifiche norme disciplinanti ciascuna attività sportiva ed aderenza al norme generali di prudenza e diligenza a determinare la possibile applicazione della esimente sportiva [5]. Così, il rispetto delle regole non risulta idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che nell’azione di gioco, pur rispettosa delle regole, venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato.


4. La responsabilità, aquiliana e contrattuale, dell’organizzatore di attività sportiva

Si è detto che per l’atleta è ammesso esercitare attività sportiva esponendosi ad ogni relativo rischio, anche elevato. Ma per molti sport, specialmente se estremi, quali le competizioni velocistiche, l’alpinismo o la caccia pericolosa, è rilevante la presenza di un organizzatore che gestisce lo svolgimento dell’attività nell’interesse di chi desidera praticarla e che assicura, fra l’altro, l’ausilio di figure di supporto (guide, meccanici ai box, sparring partner, portatori, professional hunter…). Occorre, dunque, chiedersi quale sia il regime di responsabilità di ciascuno di tali soggetti a fronte di danni patiti dal partecipante o da terzi nel corso dell’attività; e così pure, talora, quale sia la prestazione «lavorativa» esigibile dai medesimi, e con quali cautele anti-infortunio, e se anche per la esigibilità di tale prestazione sia essenziale un perdurante consenso (con ogni riflesso in tema di facoltà di recesso e inconfigurabilità di inadempimento in caso di rifiuto della prestazione per giustificabile venir meno del consenso…).

L’interrogativo è particolarmente rilevante per le attività di organizzazione di sport estremi, per i quali è fisiologicamente necessario un maggior grado di informazione e formazione, soprattutto per l’atleta principiante e, dunque, un più elevato livello di cautela da parte del soggetto che si assume il compito di organizzarne, curarne, seguirne e condividerne l’attività. Ma il quesito potrebbe estendersi anche alla pratica di taluni sport non classificati come estremi, quando connotati da un elevato ed ineliminabile quoziente di pericolosità.

L’esimente sportiva non può trovare applicazione con riguardo alla responsabilità dell’organizzatore della manifestazione o del gestore dell’impianto o del centro sportivo presso il quale l’attività viene esercitata; anzi, ad essi viene generalmente applicato un regime di responsabilità particolarmente rigoroso, secondo paradigmi omologhi a quelli relativi alle attività imprenditoriali ed in virtù di specifici «doveri di protezione» nei confronti di soggetti che, nell’ambito del particolare rapporto in questione, vengono qualificati come «deboli». Se, dunque, l’atleta va esente da responsabilità per danni cagionati nel corso dell’attività sportiva, quando la sua condotta non abbia esorbitato dai limiti dell’esercizio dell’attività stessa e dalle correlate regole di cautela, lo stesso non può dirsi per l’ente organizzatore, o anche per il direttore di gara, che possono risultare responsabili in solido (si pensi all’auto da rally o da pista che piomba sul pubblico, o alla palla o pallina da calcio o da tennis che colpisce uno spettatore, e casi simili).

Secondo la giurisprudenza, in capo al gestore di impianti ed attrezzature sportivi grava un dovere di protezione derivante dalla peculiare posizione di garanzia a tutela dell’incolumità degli utenti, anche a titolo gratuito. Tanto, sia ex art. 2043 c.c., sia in qualità di custode delle attrezzature e degli impianti ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia ex art. 2050 c.c. quando qualificabile come esercente di attività pericolosa [6].

Con particolare riguardo all’applicabilità del (rigoroso) regime ex art. 2050 c.c. ad attività sportive, la giurisprudenza qualifica come «pericolosa» la sua organizzazione, gestione e conduzione, qualora i partecipanti risultino esposti a conseguenze più gravi di quelle che possono essere determinate dalla tipologia di mezzi o strumenti adoperati, come dagli inevitabili errori, nel gesto sportivo, degli atleti impegnati nella gara o manifestazione; tenendo in considerazione sia le specifiche capacità ed abilità degli atleti stessi, sia la potenzialità di danno che l’attività comporta.

Così, un tradizionale orientamento giurisprudenziale classifica come pericolosa ex art. 2050 c.c. la pratica sportiva e la gestione di impianti attinenti al tiro, in quanto tali attività, pur essendo storicamente connotate da una esigua incidenza di sinistri, importano comunque l’uso di strumenti considerati pericolosi per loro natura, quali le armi. Per converso, nel caso del gestore di un maneggio o di una scuola di equitazione i nostri giudici modulano la responsabilità con un’analisi condotta case-by-case, anche in relazione alla qualità del soggetto che usufruisce di quei servizi, evitando di evocare l’art. 2050 c.c. ove ad esercitare le attività stesse siano cavalieri esperti. Così, per i danni subiti da una esperta amazzone che cavalcava sotto la guida della propria istruttrice, la Suprema Corte ha negato l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. in considerazione dell’esperienza e della padronanza della disciplina equestre in capo alla danneggiata [7], reputando, invece, applicabile l’art. 2052 c.c.

Analogamente, il regime di responsabilità per attività pericolosa è stato esteso anche all’organizzazione di attività di introduzione all’alpinismo [8] ed al gestore di un autodromo [9], così come al soggetto che organizza gare di bob [10], rally su strada o gare ciclistiche [11]. Anche l’organizzazione di partite di calcio è talora assoggettata al regime di cui all’art. 2050 c.c. Il lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale è oggi pacificamente risolto dalla giurisprudenza dominante che distingue tra il semplice gioco del calcio in sé, reputato non pericoloso, e l’attività di organizzazione di partite di calcio di serie A, ritenuta, invece, rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 2050 c.c. anche in quanto comportante una massiccia partecipazione di pubblico [12].

La giurisprudenza ha, poi, escluso l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. alla gestione sia di piscine aperte al pubblico, sia di un impianto sciistico [13], così come all’attività sciistica agonistica [14], affermandola, invece, in relazione alla gestione di un «kartodromo» [15].

La esigenza di tutela che giustifica, secondo i nostri giudici, l’applicazione del regime ex art. 2050 c.c. agli organizzatori e gestori di talune manifestazioni e di strutture sportive si estende talora anche al singolo allenatore o istruttore di discipline ad alto rischio. Ad esempio, per la pratica del taekwondo, l’allenatore è stato ritenuto investito di una «posizione di garanzia», e quindi tenuto ad ogni cautela per impedire o limitare il verificarsi di eventi lesivi per gli atleti, soprattutto se dilettanti [16]. Ferma restando, naturalmente, la responsabilità anche vicaria della struttura presso la quale l’allenatore opera; la quale risponde per il fatto non soltanto del proprio collaboratore o dipendente (come l’istruttore), ma altresì dell’atleta o del praticante l’attività organizzata (si pensi ad una palestra di «arrampicata»).

Le (invero esigue) decisioni sul tema confermano la possibilità di considerare «consumatore» il soggetto che, da dilettante, si rivolga a strutture che offrano corsi di pratiche sportive; così, per l’allievo di una scuola di windsurf, in quanto persona fisica utilizzatore di un servizio [17]. Ne consegue il diritto (contrattuale) alla sicurezza del servizio, con ogni conseguenza anche in materia di oneri probatori, così come di invocabilità delle norme in materia di clausole vessatorie.

Tanto, in considerazione anche della posizione asimmetrica nella quale si trovano allievo e scuola al momento della stipula del contratto; ove l’allievo è soggetto debole che non può influire sull’organizzazione della prestazione; mentre la scuola – che agisce per scopo di lucro – è nella posizione di decidere come organizzare la propria attività, investendo in misura maggiore o minore nella sicurezza del servizio, ed assumendo i conseguenti rischi. Così, è stato riconosciuto un dovere di protezione, anche ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p., a carico del titolare e gestore di una ditta organizzatrice di attività di rafting, oltre che del singolo istruttore, sull’assunto che l’offerta al pubblico di un servizio connotato da un elevato livello di pericolosità importa l’obbligo di garantire la capacità tecnica di saper gestire anche il sopravvenire di situazioni estreme [18]. Per tali attività, l’assistenza di istruttori capaci di gestire ogni prefigurabile scenario di pericolo rientra nel novero delle «misure idonee» esigibili ex art. 2050 c.c.

È poi qualificabile come «consumatore» l’acquirente di attrezzi sportivi, distinguendo fra quelli destinati ad atleti professionisti od invece a sportivi dilettanti. Questi ultimi dovranno offrire livelli di sicurezza molto più elevati, anche in caso di uso improprio, con corrispondenti più stringenti obblighi informativi in capo al produttore e al rivenditore. Potranno essere applicati safety standard anche meno stringenti, o comunque diversi, per attrezzature dedicate ad atleti dotati di elevata professionalità, e commercializzate solo in tale circuito professionale. Con ogni utile riflessione circa la estensione del regime di cui all’art. 2050 c.c. anche alla produzione e vendita di tali attrezzi, se intrinsecamente pericolosi o destinati a particolari pratiche sportive pericolose o estreme.


5. L’esposizione al rischio sportivo nell’ambito di attività «lavorative» ancillari o imitative dell’attività sportiva

Si è detto come il diritto ad esercitare attività sportiva, quando pura espressione dell’anelito alla piena realizzazione della propria personalità, legittimi l’accettazione del relativo rischio. Quale regime, invece, per coloro i quali esercitano attività omologa ma che costituisce esplicazione di un’attività lavorativa diversa dalla prestazione atletica, ancorché intesa in senso lato? Per tali soggetti si potranno ritenere pienamente operanti la esimente sportiva e la correlata dottrina dell’accettazione del rischio, con conseguente liceità della prestazione, ove oggetto contrattuale, ed esclusione di responsabilità per eventuali danni subiti?

Occorre anche in tali casi distinguere: nelle attività e sport estremi organizzati, altro è il collaboratore che affianca, assiste o guida il «cliente», ma esercitando anch’egli la stessa attività; altro il personale di mero supporto. Si pensi, ad esempio, al navigatore per il pilota, o al cacciatore professionista che accompagna il cliente in un safari africano, o allo «sherpa» o guida alpina che affianca l’alpinista: tali soggetti esercitano anch’essi, di fatto, la medesima attività sportiva. Diversi, invece, i casi del portatore nella caccia; o del guidatore di safety car, o del meccanico che operi al pit stop nelle competizioni automobilistiche. Tali soggetti sono esposti ad elevato rischio di incidenti, pur eseguendo una prestazione di tipo meramente lavorativo, «collaborando» con l’organizzatore dell’attività in questione. Chiediamoci, allora, se ed in che misura il rischio che può essere accettato dallo sportivo possa essere ritenuto validamente accettato anche dal lavoratore nell’esecuzione della propria prestazione lavorativa di mero supporto. Si passa, allora, dalla disciplina degli sport pericolosi a quella delle attività professionali o lavorative connotate da elevato pericolo «per ragioni di servizio».

La giurisprudenza formatasi sul punto è invero esigua. In relazione ai danni patiti da un «guardiaporte» travolto da uno sciatore uscito di pista nel corso di una gara, la Cassazione ha affermato che, nel contesto di una manifestazione sportiva, la dottrina del rischio consentito si applica non soltanto agli atleti, ma anche a chiunque partecipi alla gara per ragioni di servizio, esposto inevitabilmente, come l’atleta, agli stessi pericoli. Una tale assimilazione potrebbe non essere sempre e del tutto convincente: altro è il libero esercizio di attività sportiva, anche estrema, coperto dalla esimente sportiva, altra è la prestazione di servizi connessi e funzionali all’attività stessa da parte di soggetti diversi dagli atleti.

Il problema è ancora diverso quando l’attività «estrema» esuli dall’esercizio o dalla organizzazione di una attività (sia pur latamente) sportiva, ed una omologa prestazione estrema venga contrattualmente richiesta per fini completamente differenti. Si pensi, nel settore cinematografico, all’impiego di uno stuntman o di un «arrampicatore urbano», o ad altri tipi di «controfigure» chiamati a prestazioni spettacolari estremamente rischiose. Sia la esigibilità della prestazione, sia le facoltà di recesso, sia la validità di clausole penali possono essere oggetto di riflessione anche alla luce di quanto sin qui detto in materia di esercizio di sport estremi quale esercizio di libertà; ma con la distinzione, ed i conseguenti maggiori limiti, che in questo caso si tratterebbe di prestazioni contrattuali-lavorative ad elevato rischio, non giustificate come esplicazione della personalità. In non pochi casi, si tratterebbe di prestazioni relative a vincoli negoziali in contrasto con norme quali l’art. 32 Cost., senza trovare giustificazione nell’eser­cizio di libertà e nei diritti della persona.


NOTE

[1] Così, Cass. pen. 20 gennaio 2005, n. 19473.

[2] Così è affermato in Cass. pen. 28 aprile 2010, n. 20595, relativa, in particolare, ad un caso di danni cagionati per effetto di una azione lesiva posta in essere da un calciatore dopo che l’arbitro aveva già fermato il gioco.

[3] Sul punto, vedasi Cass. civ. 10 maggio 2018, n. 11270, in D&G, 2018, 85, p. 7, con nota di A. Greco, Rischio accettabile e illecito sportivo; Cass. pen. 14 luglio 2016, n. 34977, in Cass. pen., 2017, 2, p. 672, con nota di M. Bernardini.

[4] Sul punto, Cass. pen. 25 febbraio 2000, in Resp. civ. prev., 2001, I, p. 135, con nota di M. Macrì, I limiti all’esercizio dell’attività sportiva in allenamento in caso di sport a violenza necessaria o eventuale.

[5] Così, Cass. pen. 12 novembre 1999, n. 2765.

[6] Sul punto, Cass. pen. 21 aprile 2015, n. 22037.

[7] A tal proposito, Cass. civ. 16 giugno 2016, n. 12392, in D&G, 29, p. 8, con nota di S. Mendicino, La cavallerizza esperta? Nessun risarcimento per i danni subiti dall’amazzone.

[8] In questi termini, Trib. Milano 21 novembre 2002.

[9] Così, Cass. pen. 4 maggio 2010, n. 32697, nonché Cass. pen. 10 novembre 2005, n. 11361.

[10] Sul punto, vedasi Cass. civ. 13 febbraio 2009, n. 3528.

[11] Così, Trib. Arezzo 7 maggio 2012.

[12] Sul punto, si vedano Cass. civ. 27 novembre 2012, n. 20982; Cass. civ. 19 gennaio 2007 n. 1197; App. Milano 18 maggio 2001; Trib. Firenze 15 dicembre 1989.

[13] Così, Cass. pen. 11 luglio 2007, n. 39619; contra, Cass. civ. 26 aprile 2004, n. 7916 e 15 febbraio 2001, n. 2216.

[14] Trib. Modena 8 marzo 2012, n. 466. Sul tema si richiama, altresì, la dettagliata disciplina della responsabilità civile per i gestori delle aree sciabili attrezzate prevista dalla legge 24 dicembre 2003, n. 363.

[15] Si vedano Cass. pen. 27 novembre 2013, n. 2343 e Cass. pen. 27 maggio 2003, n. 34620.

[16] Cass. pen. 14 febbraio 2014, n. 31734.

[17] Sul punto, Trib. Rovereto 24 novembre 2003.

[18] In tal senso, Cass. pen. 22 ottobre 2004, n. 3446 (nello specifico caso, vi era stata la condanna per omicidio colposo per la morte di uno dei passeggeri a causa del rovesciamento del gommone), con nota di A. Natalini, Sport estremi: guide garanti del bene-vita – Vittima compos sui, gli ermellini glissano, in D&G, 2005, 21, p. 42.