Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Il mercato, la concorrenza e la tutela del diritto al nome (a proposito del caso “Maradona”) (di Claudia Confortini,  Docente a contratto di Fundamentals of Private Law e Introduction to Private Law nell’Università degli Studi di Roma “Link Campus University”)


Il contributo trae spunto da una recente sentenza del Tribunale di Milano, che elegge le sole previsioni del codice della proprietà industriale a parametro di valutazione della condotta consistente nell’uso di un nome e di un segno famosi in assenza del consenso del titolare e con modalità tali da ingenerare l’erroneo convincimento nel pubblico dei consumatori circa l’esistenza di un rapporto di sponsorizzazione. La riflessione si concentra sulla tendenza, che sembra emergere nella più recente giurisprudenza pratica, ad assegnare primario rilievo all’interesse del titolare del nome e del segno notorio alla remunerazione dell’investimento sulla propria notorietà, ma soprattutto alle istanze di protezione del pubblico dei consumatori dall’inganno e di tutela della concorrenza attraverso la prevenzione, l’inibizione e la sanzione di condotte contraffattive e parassitarie, coniugando l’esigenza compensativa con quelle sanzionatoria e di deterrenza.

Market, competition and the protection of the right to the name (regarding the “Maradona” case)

The article takes its cue from a recent judgment of the Court of Milan, which elects the sole provisions of the code of industrial property as a parameter for evaluating the conduct consisting in the use of a famous name and a famous sign in the absence of the owner’s consent and in such a way as to mislead the consumer public about the existence of a sponsorship relationship. The reflection focuses on the tendency, which seems to emerge in the most recent practical jurisprudence, to assign primary importance to the interest of the owner of the famous name and sign to the remuneration of the investment in its fame, but above all to the need to protect the public of consumers from deception and to safeguard competition through the prevention, inhibition and sanction of counterfeit and parasistic conduct, combining the need for compensation with that for sanctions and deterrence.

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 31/7/17 Diego Armando Maradona chiamava in giudizio la Dolce & Gabbana Industria s.p.a. per sentire – previo accertamento dell’indebita utilizzazione e sfruttamento a fini commerciali, da parte di D&G, del nome e/o marchio dell’attore, [– condannare il convenuto a] risarcire i danni, quantificati in euro 1.000.0000, considerato l’uso pubblicitario delle stesso, alla luce della diffusione con ogni mezzo di immagini e/o filmati e/o comunicazioni pubblicitarie in ogni modo riproducenti o contenenti il suddetto nome e marchio. Allegava l’attore che in data 8/7/09 si svolgeva a Napoli un evento mondano per clienti illustri o istituzionali di D&G – consistente in una sfilata di presentazione di simboli della città partenopea, con il patrocinio delle istituzioni – in cui una modella sfilava con una maglia del numero 10, storica posizione calcistica di Maradona. Le immagini dell’evento avevano ricevuto, come detto, ampio risalto sui media nazionali ed internazionali, essendo state riprese da quotidiani, riviste di moda e non, telegiornali, siti web, ecc. Di tale iniziativa promozionale, tuttavia, l’attore nulla sapeva e, appresa la notizia dell’utilizza­zione del suo nome per fini commerciali in occasione della sfilata, contestava alla convenuta con lettera di diffida (recapitata pochi giorni dopo l’evento) l’indebito utilizzo delle privative di loro titolarità. Tale contenzioso, inoltre, giungeva repentinamente all’attenzione di alcuni quotidiani nazionali, con violazione del diritto all’immagine di Maradona. Si costituiva Dolce & Gabbana Industria s.p.a., eccependo l’inammissibilità/improponibilità/irritualità/nullità delle domande attoree per carenza di lesione ai danni di Maradona, segnalando altresì la propria carenza di legittimazione passiva essendosi solo interessata degli aspetti commerciali attinenti alla fabbricazione e commercializzazione dei capi in collezione (fabbricazione e commercializzazione, peraltro, dalle quali venivano esclusa la camicia col numero 10). Il G.I. concedeva i termini di cui all’art. 183, VI c.p.c., quindi, all’udienza del 19/6/19 rimetteva la causa in decisione sulle conclusioni riportate in epigrafe.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va premesso che la mancata successiva messa in commercio del prodotto, all’esito della reazione del titolare del segno, incide sull’entità della condotta contraffattiva e sulle relative conseguenze risarcitorie, ma non assorbe e vanifica di per sé l’illecito ex art. 20– 21 CPI di comunicazione pubblicitaria ad essa preordinata. Le considerazioni che precedono rilevano anche ai fini dell’interesse ad agire dell’attore, ex art. 100 c.p.c.

Ed invero, l’attore si duole, della violazione del diritto al nome di Maradona in un’attività di carattere economico e con finalità commerciali e pubblicitarie, quale dev’essere a tutti gli effetti considerata – secondo le prospettazioni della stessa convenuta – una sfilata di moda svoltasi a Napoli. Tutto ciò anche alla luce del fatto che attraverso l’uso del nome di Maradona D&G se ne sfruttava in modo indebito notorietà ed appeal agli occhi del pubblico traendone un conseguente vantaggio economico, atteso che la clientela sarebbe stata erroneamente portata ad inferire l’esistenza di una partnership commerciale tra D&G e l’attore, vista la perdurante presenza sui media nonché sul sito web della casa di moda della maglia “10”.

Indubbiamente, l’utilizzazione di un elemento decorativo che riproduca l’altrui segno distintivo o nome, determina quantomeno un’associazione con quest’ultimo.

Se poi si tratta di segno famoso, anche e soprattutto in campo non commerciale, che veicola, al pari di quello di cui si controverte, particolari suggestioni di fascino storico e di eccellenza calcistica non può essere liberamente consentito a terzi imprenditori di farne uso alcuno, senza il consenso dell’avente diritto.

Come è noto, il riconoscimento di un diritto assoluto sui segni usati in campo artistico, sportivo e scientifico, di cui oggi all’art. 8 CPI, è finalizzato a riservare lo sfruttamento del relativo valore suggestivo a chi ne abbia il merito, per arginare possibili fenomeni di parassitismo. Non viene infatti ritenuto conforme alle regole di buon funzionamento del mercato il trarre vantaggio dallo sfruttamento parassitario dell’altrui notorietà, e si rende necessario assicurare solo a chi ne abbia determinato la notorietà lo sfruttamento commerciale del segno e dei relativi emblemi.

La disposizione contribuisce alla piena legittimazione del fenomeno del merchandising, che consente all’avente diritto di capitalizzare i vantaggi competitivi insiti nel segno, attribuendone la licenza a terzi nei più diversi campi imprenditoriali.

In concreto, risulta quindi evidente l’intenzione dell’attore di utilizzare la notorietà del segno, indiscutibile nel settore della cultura sportiva, per operazioni di merchandising, affidate a terzi, Caratteristica precipua del fenomeno del merchandising di segni ed emblemi usati in campo artistico, letterario e scientifico e registrati dall’avente diritto, è poi la riproduzione del logo-emblema quale elemento grafico-decorativo della più varia oggettistica. Infatti, i valori suggestivi insiti nel logo sono della più varia natura, ma nella maggioranza dei casi appaiono destinati ad essere esteriorizzati sul prodotto, per segnalare un rapporto tra il consumatore ed i predetti valori (si pensi agli emblemi delle squadre di calcio).

In concreto, l’uso nome di Maradona era esplicitamente finalizzato ad appropriarsi, nella collezione di D&G, proprio di quelle componenti attrattive insite nel richiamo alla prestigiosa storia sportiva del mitico calciatore.

La convenuta deve quindi essere condannata al risarcimento del danno causato dalla sua condotta, rinvenendosi in capo alla D&G l’elemento soggettivo della colpa nell’accertamento quantomeno della disponibilità effettiva dei diritti in capo alla sua “dante causa”. Peraltro, un operatore economico avveduto non può ragionevolmente ritenere che l’evocazione del “mito Maradona” possa conferire anche diritti di disposizione sul nome per finalità commerciali e – soprattutto – promozionali.

Ovviamente, la mancata messa in produzione e commercio dei capi con il logo attoreo incide sulla quantificazione del danno, limitandone l’entità. L’intera operazione sulla collezione, avvicina, dal punto di vista commerciale, l’ipotesi che ci occupa a quella della “sponsorizzazione”, rapporto di natura pubblicitaria tra un operatore economico ed un soggetto del mondo della cultura e dello spettacolo. In proposito, nessuna rilevanza può riconoscersi ad eventuali promozioni istituzionale dell’evento, che non incidono sul suo carattere commerciale.

La considerazione che precede consente quindi di procedere alla quantificazione del danno causato dall’illecito alla titolare del segno, facendo ricorso, sotto il profilo del lucro cessante, al criterio del c.d. prezzo del consenso.

Come accennato, l’attore chiede l’importo di euro 1.000.000,00, producendo documentazione di scarsa rilevanza, tranne quattro contratti, peraltro prodotti in copia non scansionata e privi di allegati.

Anche superando ogni valutazione formale ed entrando nel merito sul contenuto degli accordi, va detto che il contratto di sponsorizzazione Hublot, attribuisce alla casa di orologi un diritto assoluto sull’immagine di Maradona, per cui si prevede un corrispettivo di euro 200.000, da ridursi ad euro 100.000 per il secondo anno.

Il contratto con Konami prevede che Maradona svolga il ruolo di sponsor, per un tempo indefinito per la produzione a livello mondiale i videogiochi.

Il contratto con Best Life prevede la disponibilità di Maradona a presenziare a conferenze a Dubai, ed il ruolo di protagonista principale, co-conduttore e di pubblicizzazione di segni distintivi.

Infine il contratto con Puma impone un’esclusiva per la produzione e vendita di articoli sportivi e l’obbligo a partecipare ad eventi per importi di circa euro 40.000.

Valutate da un lato la minor ampiezza dell’uso (limitata ad una sfilata) e la natura illecita dello stesso dall’altro, il Tribunale stima quindi di poter quantificare il danno complessivamente subito da Diego Armando Maradona in euro 70.000,00 in moneta attuale, comprensiva di interessi ad oggi e su cui decorreranno gli interessi legali dal fatto al saldo.

La convenuta Dolce & Gabbana s.r.l. deve altresì essere condannata a rifondere all’attore le spese di lite qui liquidate, anche in considerazione dell’effettivo valore della controversia, in euro 13.400,00 per compensi, oltre ad euro 45.50 per anticipazioni, ed oltre IVA e CPA.

P.Q.M.

Il Tribunale definitivamente pronunciando sulle domande proposte con atto di citazione notificato il 31/7/17, da Diego Armando Maradona, nei confronti di Dolce e Gabbana s.r.l., ogni altra domanda ed eccezione disattesa:

-accerta l’indebita utilizzazione e sfruttamento a fini commerciali, da parte di Dolce & Gabbana s.r.l., del nome dell’attore;

-condanna Dolce & Gabbana s.r.l. a rifondere all’attore il danno, come sopra liquidato in euro 70.000,00 in moneta attuale, comprensiva di interessi ad oggi e su cui decorreranno gli interessi legali dal fatto al saldo;

-condanna Dolce & Gabbana s.r.l. a rifondere all’attore le spese di lite, come sopra liquidate in euro 13.400,00 oltre IVA e CPA ed oltre euro 45.50 per anticipazioni e spese esenti;

Così deciso in Milano 9/12/19.

Il giudice Paola Gandolfi

 

Tribunale di Milano, 9 dicembre 2019, n. 11374 (ined.)

SOMMARIO:

1. Il caso Maradona v. D&G S.r.l. - 2. La tutela del nome e del segno notorio nel prisma della disciplina del c.p.i. contro parassitismo e contraffazione - 3. Tutela del nome e dei segni distintivi in ambito sportivo: i precedenti giurisprudenziali - 4. Il danno risarcibile. Un nodo intricato, tra funzione riparatoria e di deterrenza, difficoltà probatorie, carenza di allegazioni specifiche e valutazioni presuntive - 4.1. L’interesse allo sfruttamento commerciale della propria notorietà; gli interessi di consumatori e concorrenti; i rischi di undercompensation e underdeterrence - NOTE


1. Il caso Maradona v. D&G S.r.l.

La sentenza in commento presenta indubbio interesse nel panorama giurisprudenziale dal momento che elegge le sole previsioni del codice della proprietà industriale a parametro di valutazione della condotta, censurata dall’attore, consistente nell’uso di un nome e di un segno famosi in assenza del consenso del titolare e con modalità tali da ingenerare l’erroneo convincimento nel pubblico dei consumatori circa l’esistenza di un rapporto di sponsorizzazione. L’accento è, per questa via, posto primariamente sull’interesse del titolare del nome e del segno notorio alla remunerazione dell’investimento sulla propria notorietà e soprattutto, sulle istanze di protezione del pubblico dei consumatori dall’inganno e di tutela della concorrenza attraverso la prevenzione, l’inibizione e la sanzione di condotte contraffattive e parassitarie. Accanto al­l’interesse del titolare del nome e del segno allo sfruttamento commerciale della notorietà, affiorano fino ad assumere rilievo preponderante gli interessi di consumatori e concorrenti; al­l’esigenza compensativa si affiancano quella sanzionatoria e di deterrenza.

Il caso portato all’attenzione del tribunale meneghino ha visto Diego Armando Maradona convenire in giudizio D&G S.r.l., lamentando la violazione del diritto al nome nel corso di un evento pubblico con finalità commerciali e pubblicitarie e segnatamente, in una sfilata di moda svoltasi a Napoli l’8 luglio 2016 con ampia risonanza non solo sul sito web della casa di moda, ma anche sulle più importanti testate giornalistiche nazionali ed estere, su You Tube e sui social network.

Attraverso l’uso del nome “Maradona” e del simbolo rappresentato dal n. 10 sopra una maglia dai colori del Napoli calcio, indossata da una modella nel defilé, D&G avrebbe sfruttato in modo indebito la notorietà del calciatore e l’appeal del suo segno distintivo agli occhi del pubblico, traendone conseguentemente un vantaggio economico ingiusto. L’attore chiedeva, quindi, l’accertamento della responsabilità di D&G s.r.l. e la sua condanna al risarcimento dei danni.

Il giudice di prime cure, in accoglimento delle pretese attoree, accertata l’illiceità dell’uso del nome e del segno distintivo dell’attore, ha condannato la casa di moda a risarcire il danno, quantificato in euro 70.000, seguendo un iter argomentativo condivisibile: vedere sfilare a Napoli una indossatrice con una maglia con la scritta «Maradona» e il n. «10» – si legge nella sentenza in commento – porta, indubbiamente, ad associare la casa di moda col celebre calciatore: «l’utilizzazione di un elemento decorativo che riproduca l’altrui segno distintivo o nome, determina quantomeno un’associazione con quest’ultimo». Trattandosi di un segno famoso, anche e soprattutto in campo non commerciale, capace di suscitare forti emozioni, evocando una storia di successi sportivi ed eccellenza calcistica, al terzo imprenditore è consentito farne uso solo previa autorizzazione; dunque, col consenso dell’avente diritto. La clientela è stata erroneamente portata a inferire l’esistenza di una partnership commerciale tra D&G e l’attore: date le circostanze concrete, la condotta di D&G è apparsa idonea a ingenerare confusione circa la esistenza di un rapporto di natura pubblicitaria, di fatto inesistente, tra l’impresa operante nel settore della moda e il famosissimo calciatore, con indebito agganciamento alla notorietà del personaggio sportivo, vera e propria icona calcistica e idolo popolare, per gli abitanti di Napoli e non solo.

Nella motivazione si assumono a riferimento l’art. 8 c.p.i. e gli artt. 20 e 21 c.p.i., rilevando come il riconoscimento da parte della legge di un diritto assoluto sui segni usati in campo artistico, sportivo e scientifico sia finalizzato a riservare lo sfruttamento del relativo valore suggestivo a chi ne abbia il merito, arginando possibili fenomeni di parassitismo [1]. Peraltro, nota il tribunale adìto, «in concreto, era evidente l’intenzione dell’attore di utilizzare la notorietà del segno, indiscutibile nel settore della cultura sportiva, per operazioni di merchandising, affidate a terzi». Non è conforme alle regole di buon funzionamento del mercato trarre vantaggio dallo sfruttamento parassitario dell’altrui notorietà.

Rispetto a quella categoria di segni distintivi rappresentata dai segni notori la legge appronta una protezione che si estende contro ogni iniziativa commerciale volta a sfruttarne il valore di mercato.

Nel caso di specie, «l’uso nome di Maradona era esplicitamente finalizzato ad appropriarsi, nella collezione di D&G, proprio di quelle componenti attrattive insite nel richiamo alla prestigiosa storia sportiva del mitico calciatore» e non si fa fatica a rilevare l’idoneità della condotta di D&G a influire sulla percezione, in concreto, dei segni da parte del pubblico. Il giudice di prime cure mostra di aver tenuto debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti; in primis, del peculiare contesto in cui sono occorsi i fatti dedotti in giudizio. Che l’evento promozionale si sia tenuto a Napoli, celebrando i simboli del capoluogo, è tutt’altro che irrilevante ai fini della valutazione del carattere confusorio, parassitario e dunque, illecito dell’uso del segno distintivo né eventuali promozioni istituzionali dell’evento, ha specificato il tribunale milanese, incidono di per sé sul suo carattere commerciale.

Per poco che si rifletta appare chiaro come, proprio nella città partenopea, la capacità suggestiva del segno utilizzato sia massima e fosse assai alta la probabilità d’ingenerare nel pubblico l’erronea convinzione che Maradona avesse autorizzato l’uso del proprio nome; se si preferisce, v’era il concreto rischio della istituzione di un’«associazione» tra la casa di moda contrassegnata dal marchio D&G e il famoso calciatore: «L’intera operazione sulla collezione, avvicina, dal punto di vista commerciale, l’ipotesi che ci occupa a quella della “sponsorizzazione”, rapporto di natura pubblicitaria tra un operatore economico ed un soggetto del mondo della cultura e dello spettacolo».

Accertato, sotto il profilo oggettivo, che la condotta del convenuto, consistente nella divulgazione del nome e del segno notorio del calciatore senza autorizzazione, configuri un illecito per il suo carattere confusorio e parassitario, siccome il parametro di base per l’accertamento che il giudice è stato chiamato a compiere resta pur sempre l’art. 2043 c.c.[2], il Tribunale ha preso in esame il profilo soggettivo, ravvisando la colpa della casa di moda nell’omessa previa verifica della titolarità del diritto di sfruttare commercialmente il nome di Maradona giacché un operatore commerciale normalmente avveduto non poteva, ragionevolmente, ignorare che per evocare il mito di Maradona con finalità commerciali e promozionali fosse necessario il consenso del titolare del diritto al nome.


2. La tutela del nome e del segno notorio nel prisma della disciplina del c.p.i. contro parassitismo e contraffazione

Non si può non osservare, nel merito della decisione, come il nome «Maradona» e il segno «10» siano stati tutelati in ragione della loro funzione suggestiva e «pubblicitaria», dunque, quali strumenti di comunicazione, veicolo di informazioni, immagini e messaggi dei quali avrebbero potuto «beneficiare» i prodotti dell’impresa in termini di appetibilità presso la potenziale clientela.

Il nome «Maradona» è stato impiegato in un contesto e con modalità concrete tali da suggerire un collegamento tra la casa di moda e il giocatore nonostante questi fosse del tutto ignaro dell’iniziativa promozionale; il numero «10», apposto assieme al nome del calciatore sul retro di una maglia dei colori del Napoli calcio, è stato utilizzato come segno distintivo capace di catalizzare l’attenzione del pubblico dei consumatori e indurre associazioni mentali nei potenziali acquirenti, con illecito agganciamento alla notorietà altrui. L’uno e l’altro sono stati sfruttati col fine di destare un plus di attenzione da parte degli astanti e dei mass media e di far apparire i capi della sfilata più attraenti agli occhi di una platea di soggetti capaci di apprezzare il nome e il segno come simboli evocativi d’immagini gratificanti. Sfoggiando nel defilé capi contrassegnati dal nome «Maradona» e dal numero «10», la casa di moda intendeva comunicare una certa immagine di sé, in linea, cioè coerente con i valori di successo, talento e unicità collegati al campione del calcio [3]. Tuttavia, solo chi abbia determinato la notorietà del segno può sfruttarlo commercialmente, stipulando contratti come, a esempio, quello di merchandising [4] di largo impiego in àmbito sportivo [5], con cui al licenziatario viene consentito lo sfruttamento a fini commerciali della forza attrattiva del segno; il contratto di sponsorizzazione [6]testimonial [7] o endorsement [8].

La protezione offerta dagli articoli 8, 20 e 21 c.p.i., finalizzata alla repressione di condotte parassitarie e alla tutela del pubblico contro l’inganno, è nel caso concreto accordata giacché il numero «10» è stato impiegato come segno dotato di valore di «richiamo» [9], della forza evocativa di significati «specifici», acquisita per l’uso che ne è stato precedentemente fatto in concreto [10]. Forse, è financo superfluo osservare come, di per sé, l’uso di un numero arabo (oppure di una lettera dell’alfabeto) cada fuori dal perimetro di una tutela legale ex artt. 8, 20, 21 c.p.i., rientrandovi quante volte – in luogo di una funzione meramente comunicativa – il segno si riveli capace di comunicare un messaggio ulteriore rispetto al suo significato intrinseco.

Prima di muovere all’analisi delle statuizioni sul danno risarcibile, sia consentito osservare come la disciplina dell’art. 8 c.p.i., qui richiamata [11], si sovrapponga sia alle previsioni degli artt. 6 e 7 c.c., i quali vietano l’uso non autorizzato del nome sia al disposto degli artt. 10 c.c. e 96 della l. 22 aprile 1941, n. 633 (l. dir. aut.), secondo cui, per sfruttare l’immagine di una persona occorre il suo consenso, se non ricorrono le scriminanti di cui al primo comma dell’art. 97 della medesima legge.

La tutela di carattere privatistico dell’identità e dell’immagine personale è affidata a un ampio plesso di norme [12]: non soltanto quelle contenute nel codice civile e nella legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941, n. 633), ma anche, appunto, quelle del Codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) e del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 [13] e dalla legge 27 dicembre 2019, n. 160).

Come si tornerà a dire, nel caso di specie, il giudice ha scelto di tutelare il nome come marchio, proteggendolo come strumento di comunicazione e veicolo d’immagini suggestive, collocandosi da un punto di vista «filoconcorrenziale» [14].

All’art. 8 c.p.i., ma anche agli artt. 6,7 e 9 c.c. nonché agli artt. 10 c.c., 96 e 97 l. dir. aut. ha fatto riferimento lo stesso Tribunale di Milano [15] in altra recente sentenza, di sicuro interesse per il discorso che si sta svolgendo date le analogie tra il caso ivi deciso e quello che qui ci occupa.

La vicenda giudiziaria ha visto protagonista Elisabetta Canalis, la quale si era rivolta al giudice di prime cure lamentando l’uso abusivo del nome e dello pseudonimo “Eli”, impiegato per contraddistinguere capi di abbigliamento intimo, nonché la lesione del diritto all’immagine perpetrata dalla società convenuta, che aveva continuato a utilizzare il materiale fotografico realizzato in esecuzione del contratto di testimonial, «ritoccando e manipolando» parzialmente l’immagine di Elisabetta Canalis, anche dopo la scadenza del termine contrattuale. Il tribunale, proprio sulla scorta degli artt. 2043 e 10 c.c.; 96 e 97 l. dir. aut. (a tutela del ritratto) nonché degli artt. 6,7 e 9 c.c. e dell’art. 8 c.p.i. (a protezione del nome e dello pseudonimo), in primo luogo, ha giudicato la condotta della società convenuta gravemente lesiva dell’immagine della persona sul rilievo che «la manipolazione delle foto mediante il taglio del volto […] e l’elimi­nazione di quelle caratteristiche impresse dalla sig. Canalis permanentemente sul corpo (i tatuaggi) […] hanno prodotto l’effetto, come afferma la difesa dell’attrice, di “mercificare” la persona della sig. Canalis, trattata “alla stregua di un manichino”»; in secondo luogo, ha censurato l’uso del nome “Eli”, corrispondente al diminutivo del nome ‘Elisabetta’, in funzione distintiva per alcuni prodotti di abbigliamento intimo, siccome posto in essere con l’intenzione di rafforzare il ruolo di Elisabetta Canalis come testimonial nonostante l’avvenuto scioglimento del rapporto nascente dal contratto, per decorso del termine finale.

A margine di queste notazioni, è forse il caso di segnalare come, in termini generali, sfruttare l’altrui popolarità, senza investire in contratti di sponsorizzazione e di merchandising costituisce una forma di ambush marketing [16], condotta oggi integrante un illecito amministrativo ex artt. 10 ss. del d.l. 11 marzo 2020, n. 16 [17], sanzionato con l’irrogazione di una pena pecuniaria da 100.000 a 2,5 milioni di euro a opera dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato [18].

In materia, il legislatore è finalmente intervenuto, in maniera più organica [19], approntando una forma di tutela di natura pubblicistica, la quale si aggiunge a quella offerta dalle norme sui marchi e sui segni notori, evidentemente inadatta, di per sé sola, a contrastare un fenomeno dilagante [20].

L’ambush marketing configura un illecito autonomo, che occasionalmente può coincidere con altre fattispecie tipiche [21]. La sanzione amministrativa, dunque, non fa far venir meno le tutele offerte dalle previsioni, qui richiamate, a protezione del marchio rinomato o quelle approntate dall’art. 2598, n. 3, c.c. o dall’art. 21 del cod. cons. Diretta conferma della cumulabilità delle tutele [22] si ricava dallo stesso art. 13 d. l. 11 marzo 2020, n. 16, rubricato «Tutela diretta dei soggetti danneggiati», il quale dispone esplicitamente: “Le previsioni del presente capo non escludono l’applicazione delle altre previsioni di legge a tutela dei soggetti che deducono la lesione di propri diritti o interessi per effetto delle condotte di cui all’articolo 10” [23].


3. Tutela del nome e dei segni distintivi in ambito sportivo: i precedenti giurisprudenziali

L’orientamento espresso nella sentenza in commento si colloca nel solco di un indirizzo segnato da risalenti pronunce. Già verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso, in tema di indebito approfittamento della forza attrattiva del segno distintivo, il Tribunale di Torino aveva statuito che l’uso del nome «Juventus» e del suo stemma, lecito per scrivere sulla squadra di calcio, è illecito se finalizzato alla pubblicizzazione di un prodotto (nel caso di specie, si trattava di un calendario) e dunque, se funzionale a uno scopo diverso da quello di fornire informazioni in merito alla squadra o ai suoi giocatori [24].

Da tempo, superate le originarie incertezze, i nostri giudici mostrano di considerare i marchi e i segni distintivi, specialmente nel campo dello sport, non più soltanto come indicatori di provenienza ma anche, anzi soprattutto come simboli suggestivi ed evocativi [25], veicolo di messaggi e significati ulteriori, rispetto ai quali s’impone di assicurare adeguata tutela quante volte il loro impiego in ambito commerciale sia capace d’indurre i consumatori ad acquistare dei prodotti o anche solamente a inferire, erroneamente, il consenso del titolare.

Anche rispetto al problema dell’applicabilità della scriminante di cui all’art. 21 Cost. la giurisprudenza si è da tempo assestata, nel senso di escludere che l’esercizio della libertà di espressione o di stampa possa valere come causa di giustificazione in àmbito commerciale [26]. Lo stesso Tribunale di Torino, nella sentenza appena citata, ebbe a statuire, in proposito, che: «Il diritto di marchio non consente di vietare l’uso dello stemma e del nome di una squadra di calcio per scrivere su tale squadra, ma consente di opporsi all’uso di tale segno che sia fatto per pubblicizzare un prodotto (nella specie: un calendario) che ha una sua autonoma funzione ben diversa da quella di fornire informazioni in merito alla squadra o ai suoi giocatori, e cioè quando tale uso venga effettuato per indurre il pubblico dei consumatori, attratti dalla particolare forza evocativa del segno, ad acquistare il prodotto» [27].

Nel caso in commento, è bene ribadirlo, il numero «10» non configura un comune segno descrittivo: è fin troppo evidente che, alla maglia col numero «10» e la scritta «Maradona», chiunque associ il nome, l’immagine e la persona del famoso giocatore del Napoli Diego Armando Maradona, con la carica di emozione suscitata dal ricordo di indimenticate prove di talento sportivo e storiche vittorie calcistiche che, nella memoria popolare, legano indissolubilmente il grande campione alla città di Napoli. Nessun diritto di cronaca vale a giustificare tale uso (commerciale) come marchio del nome e del segno notori in campo sportivo in assenza del consenso dell’avente diritto richiesto dall’art. 8, comma 3, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30.

Guardando alla vicenda attraverso il prisma delle norme sul diritto d’autore, si direbbe che nessuna delle scriminanti di cui all’art. 97 l. dir. aut. sarebbe configurabile come circostanza idonea a elidere l’antigiuridicità della condotta [28] giacché il nome «Maradona» è stato utilizzato, senza il consenso dell’avente diritto, per finalità senza dubbio di natura commerciale e pubblicitaria, non già per finalità informative, commemorative, di promozione culturale o simili [29]. Di particolare interesse, a proposito, è una sentenza della corte d’appello di Milano del 2014 [30] che, in riforma della sentenza di primo grado, ha reputato legittimo l’impiego del nome e dell’immagine di Lucio Battisti da parte di un Comune in provincia di Lecco che – per finalità culturali – aveva organizzato e ospitato un festival con mostre e dibattiti, senza fini di lucro, per rendere omaggio all’artista e alla sua musica, senza lederne l’onore, la reputazione o il decoro. Nella sentenza si precisa che: «l’assenza di un fine di lucro non dimostra, di per sé, il fine culturale dell’evento e che, al contrario, anche un evento culturale, se organizzato a preminente fine commerciale, si pone al di fuori delle esimenti previste dall’art. 97 l.d.a.»; la presenza di sponsorizzazioni di per sé non denota la finalità commerciale o di lucro di una kermesse; un evento culturale inteso a valorizzare il territorio non può essere di per sé considerato “commerciale”.

La giurisprudenza in tema di tutela dell’immagine nell’ambito sportivo è ancor più risalente e nutrita [31]. Tradizionalmente, il leading case è individuato nella sentenza Mazzola [32], degli anni ’70, ma sulla stessa linea si collocano la pronuncia che ha deciso il caso Van Basten co. Logos Tv. [33]; la decisione del Pretore di Roma del 1981 sul caso Falcao [34] e una lunga scia di altre più o meno note pronunce [35]. In anni più vicini, si ricorderà un’altra vicenda giudiziaria, la quale ha visto protagonista sempre Diego Armando Maradona: la Società sportiva Napoli calcio aveva diffuso un dvd con filmati dei goal del campione e il Tribunale di Napoli, su domanda del calciatore, ha giudicato la condotta del Club calcistico illecita siccome tesa a finalità prettamente lucrative e commerciali, chiarendo, altresì, che l’art. 3 della legge n. 91/1981, in tema di prestazione sportiva dell’atleta professionista, non attribuisce alla società datrice di lavoro il diritto ad utilizzare senza il consenso dell’atleta le immagini delle sue prestazioni. Altro è la prestazione sportiva altro è l’immagine della prestazione lavorativa dell’atleta: una società calcistica professionistica non può liberamente utilizzare le immagini dell’attività agonistica svolta da un calciatore – ai tempi in cui militava in quella squadra – senza il consenso del giocatore, per realizzare un dvd avente una finalità prettamente commerciale e lucrativa [36].

L’itinerario compiuto, nel tempo, dalla giurisprudenza pratica ha fatto registrare una evoluzione per cui la tutela dell’immagine ex artt. 10 c.c., 96 e 97 l. dir. aut. viene oramai accordata in caso non solo di sfruttamento abusivo del ritratto, ma anche di uso per fini commerciali di elementi evocativi dell’immagine quali possono essere una peculiare postura o pettinatura, un certo tipo di abbigliamento ecc.: emblemi capaci di richiamare immediatamente nella mente del pubblico un dato personaggio [37]. Esemplare in questo senso è un’altra, nota decisione del Tribunale di Milano, che nel 2014 si pronunciò sul “caso Audrey Hepburn”, ribadendo come sia «opinione ormai da tempo consolidata nella giurisprudenza che la tutela dell’immagine della persona fisica possa estendersi fino a ricomprendere anche elementi non direttamente riferibili alla persona stessa, come abbigliamento, ornamenti, trucco ed altro che per la loro peculiarità richiamino in via immediata nella percezione dello spettatore proprio quel personaggio al quale tali elementi siano ormai indissolubilmente collegati» [38]. Ancor più celebre è il precedente, risalente al 1984, in cui una campagna pubblicitaria caratterizzata dalla riproduzione fedele, in assenza del consenso dell’avente diritto, dello zuccotto di lana e degli occhiali a binocolo che Lucio Dalla indossava abitualmente fu giudicata lesiva del diritto all’immagine del cantautore [39].

La tutela dell’immagine è stata, insomma, estesa in via d’interpretazione al punto da sancire l’illegittimità: della imitazione, in uno spot pubblicitario, della voce e del timbro vocale di un personaggio famoso [40]; dell’uso dell’immagine di un sosia [41] come pure di un disegno caricaturale o comunque, stilizzato del vólto [42]. Altrettanti segni iconici evocativi della persona famosa; tratti peculiari rappresentativi del personaggio.


4. Il danno risarcibile. Un nodo intricato, tra funzione riparatoria e di deterrenza, difficoltà probatorie, carenza di allegazioni specifiche e valutazioni presuntive

Tornando al nostro caso, per quanto concerne il profilo risarcitorio, occorre premettere come, a proposito dell’an debeatur, il Tribunale abbia osservato che la mancata commercializzazione di capi con il logo di Maradona, anche a séguito delle iniziative prontamente intraprese dal titolare del segno, non fa venir meno l’illegittimità della comunicazione pubblicitaria ingannatoria preordinata alla condotta contraffattiva: essa incide sulla quantificazione del danno cioè, sull’entità del pregiudizio risarcibile, ma non toglie il carattere d’illiceità alla condotta ex artt. 20 e 21 c.p.i. [43].

Per quanto concerne, poi, il quantum debeatur, il Tribunale liquida la somma facendo ricorso al criterio del “prezzo del consenso” [44] cioè, tenendo conto dell’utile che Maradona avrebbe potuto lucrare se avesse prestato il consenso allo sfruttamento del nome e del segno distintivo [45].

Il quantum liquidato dal giudice secondo detto parametro dobbiamo reputare che assorba, per un verso, il danno da “annacquamento” (o dilution) cioè, il danno emergente consistente nel pregiudizio subìto per la diminuzione di valore commerciale dell’immagine conseguente alla diffusione non autorizzata del nome [46]; per altro verso, i benefici realizzati dall’autore della violazione. Sulla scorta dell’art. 125, primo comma, nel liquidare il risarcimento del danno il giudice deve, infatti, tener conto «di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione»; in base al secondo comma, «La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale, stabilita in base agli atti di causa e alle presunzioni che ne derivano» (cd. lump sum). Il giudice sembra, dunque, esentato dal dover specificare i singoli elementi tenuti in considerazione e il peso di ciascuno nella determinazione del quantum. Egli può procedere, come nel caso di specie, a una valutazione presuntiva forfettaria, superando le difficoltà di quantificazione tipiche nella prassi. In linea generale, tuttavia, può osservarsi come una limitazione della pretesa risarcitoria secondo il criterio del prezzo del nome o del segno distintivo, di fatto, finirebbe per incentivare, seppur indirettamente, condotte illecite. Se il “costo” dell’abuso non superasse il “prezzo” dell’uso (lecito) del nome o del segno, le imprese potrebbero trovare convenienza nel violare la disciplina di legge, realizzando il risparmio di un costo certo attuale a fronte del rischio di dover sopportare un pari costo futuro ed eventuale, da corrispondere (solo) nell’ipo-tesi in cui sia incardinato un giudizio e questo abbia esito infausto, concludendosi con una pronuncia di condanna. Per questo, in passato, la dottrina più sensibile ha evidenziato l’opportu­nità di parametrare il quantum debeatur (anche) al profitto realizzato dall’autore dell’illecito consistente nell’abuso dei segni evocativi dell’immagine altrui [47]. Ora si è invocato l’art. 2041 c.c. e, svilendo la correlazione tra arricchimento e impoverimento, si è predicato l’obbligo dell’arricchito di restituire il profitto ricavato, a spese altrui, dall’abuso della proprietà intellettuale o industriale [48] ora si è proposto d’interpretare estensivamente l’art. 2032 c.c., postulando un obbligo di restituzione dei profitti percepiti a carico di chiunque si sia ingerito ingiustificatamente nella sfera altrui [49] ora si è richiamato l’art. 2028 c.c. [50], configurando un obbligo di restituire il profitto lucrato in capo a chiunque ingerisca consapevolmente ossia, in mala fede nella sfera altrui, perseguendo un interesse altruistico o egoistico [51].

Oggi, a garanzia della funzione non solo sanzionatoria ma anche di intimidazione e deterrenza delle norme che offrono tutela contro l’abuso dei diritti della proprietà industriale e intellettuale [52], l’art. 125 c.p.i., al primo comma, impone appunto di tener conto, nella liquidazione dei danni, dei benefici realizzati dall’autore della violazione [53], ma soprattutto, al terzo comma, aggiunto dall’art. 17, d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140 [54] dispone che «In ogni caso, il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento», scongiurando a priori ogni possibilità di calcolo dei costi e benefici dell’azione lesiva. Intorno alla natura dell’istituto ivi delineato è sorto un vivace dibattito, tutt’ora in corso [55], che lambisce, evidentemente, il tema assai più ampio e complesso della individuazione delle funzioni ascrivibili alla responsabilità aquiliana [56]. Senza indulgere nelle pieghe di una riflessione tanto com­plessa, la quale allontanerebbe troppo dall’oggetto in esame, per quel che rileva in questa sede sembra di poter aderire a quella linea di pensiero che, pur individuando il punto di riferimento fondamentale nell’art. 2043 c.c. (e infatti, come l’art. 2056 c.c. richiama gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. così anche l’art. 125 c.p.i. rinvia espressamente alle disposizioni ivi contenute) riconosce come la disciplina speciale mostri un’apertura verso una logica che non è puramente indennitaria, mettendo in luce come l’obiettivo sotteso alla disciplina del risarcimento del danno nella materia industrialistica, in fondo, sia quello del ripristino di corrette dinamiche di mercato [57]. Non può sfuggire come la funzione di deterrenza demandata alle norme a protezione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale finirebbe per esser frustrata ove alla riparazione della lesione patrimoniale corrispondente alla sottrazione dell’utilità che il danneggiato avrebbe tratto dalla “negoziazione” del proprio consenso non si accompagni la restituzione degli utili ingiustamente realizzati in conseguenza dell’abuso [58].

Questa stessa funzione dissuasiva, d’altro canto, sarebbe svilita ove fosse preclusa la risarcibilità, altresì, del danno non patrimoniale [59]. A questo proposito, non si può trascurare di ricordare come autorevole dottrina abbia perorato la risarcibilità del danno non patrimoniale in ogni caso di lesione del diritto all’immagine, sul rilievo che l’art. 10 c.c., nel prevedere espressamente la cessazione dell’abuso «salvo il risarcimento dei danni», contempli uno di quei «casi previsti dalla legge» nei quali, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale dev’esser risarcito [60]. A conforto di questa proposta ermeneutica si è osservato come l’inciso contenuto nell’art. 10 c.c. «salvo il risarcimento dei danni», se interpretato in senso restrittivo, ossia con riferimento al solo danno patrimoniale, risulterebbe pleonastico atteso che l’art. 2043 c.c. già prevede, in via generale, che ogni danno ingiusto derivante da fatto doloso o colposo dia diritto al risarcimento del danno [61]. Senza dilungarsi, in questa sede, sulle perplessità espresse in dottrina all’indirizzo di tali idee e sugli orientamenti della giurisprudenza in materia, ai fini del nostro discorso sarà sufficiente notare come, anche sul punto, dispone nella nostra materia il citato art. 125 c.p.i., secondo cui, come si è riferito, nel liquidare il danno si deve tener conto, «nei casi appropriati», anche di «elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare della violazione». Una previsione che sembra da interpretare nel senso che «lungi dal contemplare una delle ipotesi determinate dalla legge ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., [essa] si limiti a circoscrivere la riparabilità del danno non patrimoniale alle sole ipotesi altrove tipizzate dal legislatore» [62].

Tornando al caso che qui ci occupa, l’esposizione del nome «Maradona» e del segno distintivo costituito dal numero «10» non risulta aver arrecato pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro del campione sportivo. Nessun danno morale derivante dalla violazione di diritti costituzionalmente protetti sembrerebbe, quindi, configurabile [63]. Né può seriamente reputarsi che possa assumere rilievo, su questo piano, il semplice dispiacere per la diffusione non autorizzata del nome o del segno notorio o il pati legato allo svolgimento del giudizio civile.


4.1. L’interesse allo sfruttamento commerciale della propria notorietà; gli interessi di consumatori e concorrenti; i rischi di undercompensation e underdeterrence

Queste brevi annotazioni, appuntate prendendo le mosse dalla pronuncia del Tribunale meneghino, consentono, forse, di adombrare qualche ulteriore osservazione, di carattere più generale.

Anzitutto, è d’interesse registrare come il giudicante abbia scelto di regolare il caso attraverso le sole maglie della disciplina industrialistica, svelando una sensibilità rivolta più al mercato che alla persona. Così regolando il tiro, il tribunale milanese mostra di voler colpire un preciso bersaglio, ponendosi in linea con pronunce, schiettamente market-oriented, come quella del Tribunale di Roma in cui è scritto a chiare lettere «colui che pretende di utilizzare il nome celebre altrui senza sostenere i costi corrispettivi, lede sia l’interesse del titolare alla remunerazione differenziale degli investimenti che questi abbia effettuato per promuovere il proprio nome e fargli acquisire notorietà, sia gli interessi degli altri concorrenti a non essere svantaggiati nella competizione economica avendo pagato per sfruttare ciò che altri utilizzano gratuitamente» [64].

D’altra parte, sembra di poter rilevare come, nonostante le riforme legislative intraprese sotto l’impulso della normativa europea e gli itinerari sin qui compiuti della giurisprudenza pratica abbiano autorizzato a parlare di best practices in ambito domestico [65], l’osservazione della prassi giudiziaria restituisce la sensazione che, tutt’ora, le difficoltà probatorie o, di volta in volta, la carenza di allegazioni specifiche da parte dei difensori dei danneggiati (dietro cui i giudici si schermano anche nel caso concreto) possano implicare una svalutazione del profilo risarcitorio col rischio di undercompensation e underdeterrence [66]. Mentre nelle cause in materia di contraffazione e concorrenza sleale di più ingente valore economico sono usualmente disposte impegnative consulenze tecniche e adottati sofisticati e condivisi parametri di calcolo, tanto da far apparire come «residuale» il rimedio della liquidazione equitativa [67], in molti giudizi di proprietà intellettuale e industriale le richieste risarcitorie continuano a fondarsi su ipotesi difficilmente dimostrabili empiricamente. Simili difficoltà di prova dei danni rischiano di ridondare a svantaggio della efficacia dissuasiva della disciplina qui evocata, chiamando al centro della scena lo strumento della liquidazione in via equitativa. L’impossibilità di dare ingresso a finzioni inac­cettabili non può consentire di lasciare impunita la sottrazione di utilità al titolare del diritto da parte dell’autore della condotta parassitaria. Da questo punto di vista, il «prezzo del consenso» (o il criterio della royalty media) non può che costituire la base, de minimis, per quantificare complessivamente (in via equitativa, ove non sia data prova del suo preciso ammontare) il danno risarcibile, da parametrare, su allegazione della parte, anche, a titolo di esempio, al presumibile risparmio di costi pubblicitari realizzato dall’autore dell’illecito o al cd. valore di traino.


NOTE

[1] Cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218, in Danno e resp., 2010, p. 471 ss., con nota di G. RESTA, L’immagine dei beni in Cassazione, ovvero: l’insostenibile leggerezza della logica proprietaria e di M. PASTORE, Prove (a)tecniche di tutela esclusiva dell’immagine dei beni, in Riv. dir. ind., 2010, fasc. 2, pt. II, p. 147, con nota di N. ROMANATO, Sullo sfruttamento dell’“immagine” di un bene nella disponibilità di una persona giuridica; in AIDA, 2010, p. 591 ss., con nota di C.E. MAYR, I diritti del proprietario sull’immagine della cosa.

[2] Per tutte, v. Cass., 6 febbraio 1993, 1503, Foro it., 1995, pt. I, c. 1617 ss.: «Il comportamento illecito della divulgazione non autorizzata dell’immagine di persona notoria […] fa sorgere l’obbligazione di risarcire il danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.».

[3] «[…] facendo leva sul celebrity endorsement, il professionista punta al trasferimento dei valori che rendono di successo l’artista (attrattività, piacevolezza, reputazione e credibilità) alla marca al quale è associato (c.d. image transfer), per convincere il consumatore a far propri i significati così assegnati al brand». A. FACHECHI, Il contratto di testimonial. A proposito di personality merchandising, in nota a Trib. Milano, sez. spec., 16 agosto 2017, Giur. it., 2019, 1, p. 58 ss.

[4] I. MAGNI, Merchandising e sponsorizzazione: nuovi contratti per lo sfruttamento e la promozione dell’immagine, Padova, 2002; L. CANTAMESSA, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, in L. CANTAMESSA, G.M. RICCIO, G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, Milano, 2008, p. 493 ss.

[5] Sul merchandising nell’ordinamento sportivo e le differenze con la sponsorizzazione sportiva può vedersi G. FACCI, Il merchandising del marchio sportivo, in Contr. e impr., 2011, fasc. 1, p. 198 ss., cui si rinvia anche per opportuni e più compiuti riferimenti bibliografici; C. GALLI, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising free-riders, in AIDA, 2003, pt. 1, p. 231 ss.

[6] Cfr. M.C. GIULIODORI, Riflessioni sul contratto di sponsorizzazione in ambito sportivo: leva strategica nella comunicazione di impresa ed indispensabile strumento di finanziamento, in Rass. dir. econom. dello sport, 2019, fasc. 2, p. 267 ss.; N.M. BEDETTI, I contratti di sponsorizzazione in ambito sportivo, in Riv. dir. econom. dello sport, 2016, fasc. 2, p. 25 ss.; S. SANTAMARIA, La sponsorizzazione in ambito sportivo: tipologie, caratteristiche e nuove frontiere, in Rass. dir. econom. dello sport, 2016, fasc. 1-3, p. 132 ss.; T. MAUCERI, Sponsorizzazione e attività sportiva, Torino, 2015; V. FALCE, I contratti di sponsorizzazione, in A.M. GAMBINO (a cura di), I contratti di pubblicità e di sponsorizzazioneTratt. dir. comm., fondato da V. Buonocore e diretto da R. Costi, vol. VII, t. 3, Torino, 2012, p. 47 ss.; G. FACCI, La sponsorizzazione tecnica e lo sfruttamento commerciale del marchio sportivo, in N. giur. civ. comm., 2010, fasc. 12, pt. II, p. 644 ss.

[7] Cfr. A. FACHECHI, Il contratto di testimonial. A proposito di personality merchandising, cit., p. 58 ss., che si sofferma sulle varie declinazioni negoziali del personality merchandising nonché sul valore delle clausole di esclusiva e “uso in proprio” dell’immagine nel contratto di testimonial. Merita, altresì, d’esser qui segnalata Trib. Milano, 6 giugno, 2018, n. 6355, consultabile in www.giurisprudenzadelle
imprese.it
, su cui si tornerà più diffusamente nel testo, nella quale il tribunale milanese ha censurato l’uso del nome “Eli”, corrispondente al diminutivo del nome ‘Elisabetta’, in funzione distintiva per alcuni prodotti di abbigliamento intimo, siccome posto in essere con l’intenzione di rafforzare il ruolo di Elisabetta Canalis come testimonial nonostante il rapporto contrattuale fosse cessato per scadenza del termine finale.

[8] Cfr. E. MAGGIO, I contratti per lo sfruttamento del nome e dell’immagine. Parte speciale: il contratto di endorsement, in A.M. GAMBINO (a cura di), I contratti di pubblicità e di sponsorizzazione, cit., p. 127 ss.; R. CARLEO, False endorsement e disgorgement, in Contr., 2013, fasc. 5, p. 493 ss.; S. DELL’ARTE, Il contratto di endorsement, in Contr., 2007, fasc. 1, pt. 1, p. 89 ss.

[9] Sul concetto di «richiamo» come «nesso» mentale che il pubblico è indotto a stabilire tra il segno e il marchio d’impresa cfr. Trib. Roma, 9 gennaio 2004, in Giur. it., 2004, c. 1903 ss., con nota di De MARCO, in linea con Corte giust. 23 ottobre 2003, causa C-408/01, in Foro it., 2004, pt. IV, c. 395 ss.; Dir. ind., 2004, fasc. 1, p. 25 ss., con nota di R.S. DE MARCO, Tutela allargata del marchio notorio tra dilution, rischio di confusione e funzione decorativa). Il Tribunale capitolino ha statuito che il richiamo a un segno notorio è di per sé contraffazione: il collegamento mentale è già di per sé sufficiente a procurare all’autore della violazione un indebito vantaggio. Conf. T. Napoli, 24 luglio 2012, in Giur. dir. ind., 2013, p. 635, per cui la violazione di un marchio rinomato può consistere in un agganciamento all’altrui notorietà che si realizzi col fatto che la citazione promozionale del marchio altrui cattura l’attenzione e il bisogno dei destinatari del prodotto promosso, facendo propri i caratteri promozionali dell’altrui segno, richiamando alla mente dei potenziali consumatori il messaggio collegato al marchio evocato e con esso l’immagine complessivamente sottesa al segno originale, comprensiva cioè della sua rinomanza, qualità e garanzia.

[10] In arg. cfr. A. VANZETTI, Marchi di numeri e di lettere dell’alfabeto, in Riv. dir. ind., 2002, I, p. 640 ss.; S. CORONA, Sulla tutelabilità delle lettere dell’alfabeto come marchi, nota a App. Milano, sez. spec., 9 giugno 2008, in Foro pad., 2008, fasc. 3-4, pt. I, c. 593 ss.; S. DI PAOLA, La capacità distintiva dei marchi costituiti da lettere dell’alfabeto, nota a Cass. civ., Sez. I, 25 giugno 2007, n. 14684, in Foro it., 2008, fasc. 1, pt. I, c. 177 ss.; P. FRASSI, Cenni al problema delle parole di uso comune usate come marchi e al rapporto fra azione di concorrenza sleale e azione di contraffazione, nota a Cass., 9 ottobre 1992, n. 11017, in Riv. dir. ind., 1993, fasc. 1, pt. II, p. 10 ss.; P. CRUGNOLA, Marchi costituiti da lettere dell’alfabeto e da cifre, nota a Trib. Pesaro, 16 luglio 1992, in Riv. dir. ind., 1993, fasc. 3-4, pt. 2, p. 424 ss.

[11] Viene, qui, in rilievo specialmente il disposto del comma terzo, per cui «se notori, possono essere registrati o usati come marchio solo dall’avente diritto, o con il consenso di questi, [...] i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo [...]».

[12] Cfr. M. PROTO, Tutele per abuso di immagine, in N. giur. civ. comm., 2012, fasc. 3, p. 381 ss. Per un’analisi delle principali tecniche di tutela dell’immagine anche attraverso il confronto con le soluzioni raggiunte nell’ordinamento spagnolo e in quello francese si veda G. CARAPEZZA FIGLIA, Diritto all’im­magine e «giusto rimedio» civile. Tre esperienze di civil law a confronto: Italia, Spagna e Francia, in Rass. dir. civ., 2013, fasc. 3 p. 859 ss.

[13] Recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)».

[14] Diversamente Trib. Cremona, 4 febbraio 2003, in Giur. it., 2003, fasc. 6, p. 1176, per cui i parametri sostanziali per valutare la liceità dell’uso non autorizzato del nome civile altrui come segno distintivo sono dettati dalla disciplina codicistica generale in materia di diritti della personalità.

[15] Trib. Milano, 6 giugno 2018, n. 6355, cit.

[16] Benché quello di ambush marketing sia un concetto amorfo e difficile da definire (parla di «sponsorizzazione putativa» L. CANTAMESSA, in Il fenomeno dell’ambush marketing nel mercato delle sponsorizzazioni sportive, in L. CANTAMESSA, G.M. RICCIO, G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, cit., p. 566), è opinione condivisa che il fenomeno, cui talora ci si riferisce nei termini di guerrilla o parasitic marketing, ebbe origine in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, quando il Comitato Internazionale Olimpico concesse le prime sponsorizzazioni e licenze esclusive sicché molti competitor esclusi tentarono di trarre vantaggio dall’evento internazionale senza pagare le fee di una sponsorizzazione; a coniare il termine, offrendone per primo una personale definizione, fu J. WELSH, “Ambush Marketing: What it isWhat it isn’t” (No. 19, Summer 2002) Pool: Business and Marketing Strategy (www.
poolonline.com
). Cfr. in arg. P. JOHNSON, Look out! It’s an ambush!, in International Sports Law Review, 2008, Issue 2/3, p. 24; ID., Defining the indefinable: Legislating for “ambush marketing”, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2020, Vol. 15, No. 5, p. 313 ss. La concezione del fenomeno tende via via a dilatarsi: vi appaiono riconducibili casi nei quali le “imboscate” consistono in attività: «intended to secure the benefits of associating with a sponsorship property without having to pay for the official right to do so. In essence, this involves a brand standing alongside an event or official». N. BURTON, S. CHADWICK, Ambush Marketing Is Dead, Long Live Ambush Marketing A Redefinition and Typology Of an Increasingly Prevalent PhenomenonJournal of Advertising Research, Sep. 2018, Vol. 58, Issue 3, p. 282 ss.

[17] Il decreto legge, recante «disposizioni urgenti per l’organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 – 2025, nonché in materia di divieto di pubblicizzazione parassitaria» è stato convertito con la legge 8 maggio 2020, n. 31.

[18] La quale è tenuta a procedere secondo le previsioni dell’art. 8, d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145, sul divieto di pubblicità ingannevole, in quanto compatibile (art. 12, d.l. 11 marzo 2020, n. 16). In particolare, tentare di creare un collegamento – tra un marchio o un segno distintivo e un evento sportivo o fieristico di rilevanza nazionale o internazionale – idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali costituisce una forma di ambush marketing «per sfruttamento» (quattro sono le ipotesi di ambush marketing tipizzate dal legislatore nel 2020 sub art. 10, d.l. 11 marzo 2020, n. 16). Sulle recenti novità legislative cfr. P. TESTA, La nuova disciplina dell’ambush marketing, in Dir. ind., 2020, fasc. 5, p. 484 ss.

[19] Precedentemente, il legislatore era intervenuto in materia in modo occasionale e disorganico: in concomitanza con i Giochi Olimpici invernali di “Torino 2006” per rafforzare la tutela del marchio Olimpico, con la legge 17 agosto 2005, n. 167, aveva sancito al secondo comma dell’art. 2, il divieto di «pubblicizzare, detenere per farne commercio, porre in vendita, o mettere altrimenti in circolazione prodotti o servizi utilizzando segni distintivi di qualsiasi genere atti ad indurre in inganno il consumatore sull’esistenza di una licenza, autorizzazione o altra forma di associazione tra il prodotto o il servizio e il CIO o i Giochi olimpici”; il terzo comma del medesimo articolo prevedeva, inoltre, il divieto di «intraprendere attività di commercializzazione parassita (“ambush marketing”), intese quali attività parallele a quelle esercitate da enti economici o non economici, autorizzate dai soggetti organizzatori dell’evento sportivo, al fine di ricavarne un profitto economico». D’altra parte, il d.d.l. “Lolli”, n. 1620, in tema di «Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive» presentato il 5 agosto 2008 e il d.d.l. “Idem”, n. 1635 non hanno mai completato il loro iter parlamentare.

[20] Neppure la soluzione, sperimentata in passato, consistente nel forgiare misure legislative ad hoc in occasione di singoli eventi era apparsa soddisfacente. Cfr. V. FORTI, A. GENTILONI SILVERI, J. DIAZ, F. MEZZANOTTE, Una ricerca interdisciplinare sulle tutele, in Riv. dir. econom. dello sport, 2009, fasc. 2, p. 19 ss., il quali auspicano il ricorso a strumenti di tutela di tipo pubblicistico.

[21] Cfr. P. TESTA, La nuova disciplina dell’ambush marketing, cit., p. 490.

[22] Sulla configurabilità dell’ambush marketing come atto di scorrettezza professionale ex art. 2598, n. 3, c.c. o come pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’art. 21 del cod. cons., precedentemente alla emanazione del d.l. 11 marzo 2020, n. 16, v. S. ALVANINI, L’ambush marketing, in Dir. ind., 2019, fasc. 1, p. 42 ss. Nonostante la parziale riconducibilità del fenomeno entro le maglie delle suddette, previgenti previsioni legislative, in passato, le difficoltà di ottenere adeguata tutela tramite gli strumenti tradizionali sono state reputate quasi connaturate alla nozione stessa di ambush marketing. Cfr. I. UBERTI, L’ambush marketing come illecito anticoncorrenziale, nota a Trib. Milano, sez. spec., [ord.] 15 dicembre 2017; Trib. Milano, sez. spec. [ord.], 18 gennaio 2018, in Giur. it., 2018, fasc. 10, p. 2165 ss. Mette conto di segnalare ancora, in giurisprudenza, Trib. Milano, 30 luglio 2010, Panini s.p.a. c. Topps Europe Ltd e Topps Italia s.r.l., in Dir. ind., 2011, fasc. 1, p. 49 ss., con nota di G. FOGLIA, Illecito di comunicazione, tutela del marchio e “ambush marketing”, ove si è statuito che, se una società è licenziataria ufficiale esclusiva del merchandising delle manifestazioni riconducibili al Campionato mondiale 2010 ed è in possesso in via esclusiva dei diritti di sfruttamento dell’immagine delle divise ufficiali, dei colori sociali e degli stemmi delle squadre partecipanti al Campionato acquisiti dalle relative Federazioni o Associazioni nazionali, rappresenta nei suoi confronti «un illecito di comunicazione» per l’agganciamento all’evento del Campionato mondiale lanciare sul mercato una raccolta di cards e un gioco con riferimenti al Campionato del mondo di calcio, concetto indistinguibile dai relativi segni distintivi (la coppa, i loghi delle squadre e le divise ufficiali).

[23] In particolare, che l’ambush marketing realizzato attraverso l’uso diretto di segni distintivi relativi all’evento (o allo sponsor) potesse essere attratto nell’ambito di tutela del marchio rinomato era pacifico anche in passato. Così come non ha destato grandi perplessità la possibilità d’invocare la tutela di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., vòlto a sanzionare ogni comportamento di concorrenza parassitaria e come tale «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda». Cfr. G. FACCI, Il merchandising, cit., p. 225. In arg. si segnalano, altresì, G. SIMONI, “Ambush marketing”: fenomeno e sua rilevanza nel mondo sportivo, in questa Rivista, 2018, fasc. 1, p. 90 ss.; S. SICILIA, Il fenomeno dell’“ambush marketing” e la sua disciplina tra sfruttamento dei diritti di immagine e la tutela dei segni distintivi dello sport caratterizzanti i grandi eventi sportiviivi, 2016, fasc. 2, p. 475 ss.; G. CAVAGNA DI GUALDANA, F. MINIO, Il fenomeno dell’ambush marketing in Italia e il caso Expo Milano 2015, in Dir. ind., 2016, p. 486 ss.

[24] Si tratta della pronuncia del 5 novembre 1999, pubblicata in Giur. dir. ind., 2000, p. 491. In senso conforme, Trib. Milano, 27 febbraio 1997, in Riv. dir. ind., 1998, fasc. 4-5-, pt. II, p. 298 ss., con nota di M. PACCOIA, Richiami in materia di confondibilità tra marchi e sulla prova del preuso; successivamente, ex aliis, Trib. Torino, 13 aprile 2000, nel Repertorio di AIDA, 2000, voce IV.3.3, che ha giudicato illecito l’uso della parola «Juve» nel titolo di una rivista per tifosi juventini.

[25] Cfr., in proposito, C. GALLI, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising free-riders, cit., p. 235 ss.

[26] Sulla tensione conflittuale tra libertà di espressione e diritto all’onore nella più ampia prospettiva del dialogo tra la giurisprudenza nazionale e la CEDU, si vedano le riflessioni di G. CARAPEZZA FIGLIA, Tutela dell’onore e libertà di espressione. Alla ricerca di un «giusto equilibrio» nel dialogo tra Corte Europea dei diritti dell’uomo e giurisprudenza nazionale, Il diritto di famiglia e delle persone, 2013, n. 3, p. 1011 ss.

[27] Trib. Torino, 5 novembre 1999, cit. Contra, sul punto, Trib. Milano [ord.], 1° marzo 1996, in IDI, 1996, p. 1005.

[28] Lo scopo commerciale e, in particolare, quello pubblicitario della riproduzione dell’immagine lascia inclinare per l’inapplicabilità dell’art. 97 l. dir. aut. e per la necessità di raccogliere il consenso del­l’effigiato sulla scorta dell’art. 96 l. dir. aut. e dell’art. 10 c.c. Cfr. M. PROTO, Il diritto e l’immagine, Milano, 2012, pp. 6-7. In giurisprudenza, cfr., ex multis, a Cass. civ., sSez. I, 29 gennaio 2016, n. 1748, in Mass., 2016, p. 74; AIDA, 2016, p. 749; Danno e resp., 2017, p. 47, con nota di E. BARNI, Cassazione e diritto all’immagine: divulgazione del ritratto per scopi pubblicitari, revocabilità del consenso, tutela risarcitoria; in Dir. ind., 2017, fasc. 1, p. 55 ss., con nota di A. GERACI, Il negozio unilaterale per il consenso alla pubblicazione della propria immagine; Cass. civ., Sez. III, 27 novembre 2015, n. 24221, in Giust. civ. Mass., 2015; Trib. Milano, 7 novembre 2013, in Resp. civ. e prev., 2014, fasc. 6, p. 1971 ss., con nota di F. RANDI, L’escamotage del diritto di cronaca: l’uso dell’interesse pubblico per fini pubblicitari; Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8838, in Giust. civ., 2008, p. 2553 ss.; Riv. dir. ind., 2008, p. 133 ss., per cui la divulgazione dell’immagine del soggetto senza il relativo consenso è lecita soltanto se e in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione e non anche ove sia rivolta a fini pubblicitari; in senso conforme, già Cass. civ., Sez. I, 2 maggio 1991, n. 4785, in Foro it., 1992, pt. I, c. 831 ss.: quando «la divulgazione del ritratto avvenga per altro scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l’esigenza pubblica di informazione, allora essa non è più giustificata dalla notorietà della persona; la notorietà non è più una giustificazione, ma il fatto che induce ad una divulgazione che porta vantaggi, spesso a contenuto patrimoniale, a colui che la divulgazione esegue». Nel caso di specie, non si potrebbe ritenere sussistente alcuna delle cause di giustificazione alla divulgazione dell’immagine di cui all’art. 97, comma 1, l. dir. aut. né, appunto, si potrebbe addurre la notorietà, di per sé, come causa di giustificazione dell’appropriazione del ritratto. Opinando diversamente, si giungerebbe a un esito paradossale, lasciando esposti al rischio di un abuso del ritratto proprio le persone che più delle altre avvertono l’esigenza di tutelarsi dall’invadenza altrui. Cfr. P. VERCELLONE, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959, p. 62; L. MARCHEGIANI, Il diritto sulla propria notorietà, in Riv. dir. civ., 2001, fasc. 2, p. 191 ss. Da segnalare è la recente pronuncia di Trib. Torino, 15 febbraio 2019, in Danno e resp., 2020, fasc. 2, p. 273 ss., con nota di P. MERLI, Colazione da Tiffany…senza cheese: è illecito lo sfruttamento commerciale dell’immagine di Audrey Hepburn; in Dirind., 2020, fasc. 1, p. 54 ss., con nota di A. PISTILLI, Il caso Audrey Hepburn: i recenti sviluppi sullo sfruttamento dell’immagine in assenza di consenso e l’abuso dell’immagine altrui. La sentenza, che ha un precedente anche in Trib. Torino, 2 marzo 2000, in Resp. civ. e prev., 2001, p. 174 ss., ribadisce, nel solco di un orientamento consolidato, che la diffusione dell’immagine senza il consenso dell’interessato è lecita soltanto se e in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione; la mera notorietà dell’effigiato non basta a legittimare la divulgazione post mortem del ritratto se, in mancanza del consenso dei congiunti, non esiste un interesse pubblico attuale alla documentazione visiva della sua immagine.

[29] “[…] ai fini della legittimità o meno dell’impiego dell’altrui immagine, assumeranno particolare rilievo, ad esempio, i contenuti dell’iniziativa, la preponderanza dell’aspetto culturale rispetto all’eventuale carattere commerciale, nonché l’identità dei promotori, con riferimento anche al contesto sociale, culturale e commerciale nel quale generalmente essi operano”. G. FACCI, Il diritto all’immagine dei calciatori, in Contr. e impr., 2014, fasc. 4-5, p. 1105.

[30] App. Milano, sez. spec., 9 agosto 2013, n. 3182 in Danno e resp., 2014, fasc. 5, p. 533 ss.

[31] Un’analisi della evoluzione giurisprudenziale che ha consentito l’accesso nel nostro ordinamento del cd. right of publicity è in L. CANTAMESSA, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 531 ss. Si veda anche A.C. NAZZARO, Il diritto all’immagine dello sportivo, in Rass. dir. econom. dello sport, 2011, fasc. 2, p. 315 ss.; dello stesso A. si segnala il lavoro monografico intitolato Diritto all’im-magine e logiche di mercato, Napoli, 2012.

[32] Cfr. Cass. civ., Sez. I, 10 novembre 1979 n. 5790, Sandro Mazzola co. Effe-bambole Franca S.a.S., pubblicata e commentata su numerose riviste: Foro it., 1980, I, c. 81; Giur. it., 1980, I, 1, p. 432; Dir. autore, 1980, p. 18; Giust. civ., 1980, I, p. 1372; Resp. civ. e prev., 1980, p. 212. Ivi i giudici statuirono che «l’abbinamento del ritratto di una persona notoria senza il suo consenso alla vendita di un prodotto diverso a scopo di rèclame di quest’ultimo esula da tutte le ipotesi di deroga alla tutela dell’immagine previste nel citato art. 97 [l. 22 aprile 1941 n. 633]». In senso conforme, l’anno seguente v. Cass. civ., sSez. III, 27 maggio 1975, n. 2129, in Riv. dir. internaz., 1980, p. 293.

[33] Trib. Tortona, 24 novembre 2003, Van Basten co. Soc. Logos T.V., in Foro it., 2004, c. 1287 ss.

[34] Pret. Roma, 24 dicembre 1981, in questa Rivista, 1983, p. 578, che reputò illecita la vendita di un poster con la riproduzione fotografica dell’immagine del calciatore, le parole «con simpatia» e la firma di Falcao, stante l’assenza di qualsivoglia collegamento con avvenimenti d’interesse pubblico e l’im­possibilità di evocare l’esercizio del diritto di cronaca per escludere la necessità del consenso del­l’avente diritto.

[35] Ex aliis, v. Pret. Milano, 24 gennaio 1992, in AIDA, 1992, p. 85; Trib. Torino, 4 ottobre 1995, Dir. inf., 1996, p. 440. Per una rassegna più esaustiva sia consentito rinviare a L. CANTAMESSA, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 551 ss.

[36] Trib. Napoli, 30 luglio 2013 [ord.], in Corr. giur., 2014, fasc. 3, p. 356 ss., con nota di G. FACCI, I goal di Maradona e il diritto all’immagine dei calciatori, e in AIDA, 2014, p. 919.

[37] Sul concetto d’icona v. M. PROTO, Il diritto e l’immagine, cit., p. 20 ss.

[38] Trib. Milano, Sez. spec., 21 gennaio 2014, in Dir. ind., 2015, fasc. 3, p. 292 ss., col commento di C. DEL RE, Tutela dell’immagine: nozione estensiva del Tribunale di Milano.

[39] Pret. Roma, 18 aprile 1984, in Giust. civ., 1984, I, p. 2271; in Foro it., 1984, I, c. 2030 ss.

[40] Trib. Roma, 12 maggio 1993, in Foro it., 1994, I, c. 2258 ss.; Dir. informaz. e informat., 1994, fasc. 2, p. 305 ss., con nota di C. RODOTÀ, La tutela della voce: verso un ampliamento del “Right of publicity” negli U.S.A.; Dir. autore, 1994, fasc. 3, p. 459 ss., con nota di M. FABIANI, Plagio parziale o camuffato di composizione musicale. Industrie Buitoni Perugina s.p.a. era stata giudicata responsabile per aver diffuso, tramite le maggiori emittenti televisive e radiofoniche su tutto il territorio nazionale, una «campagna pubblicitaria», riguardante fette biscottate di propria produzione, la quale contemplava un messaggio musicale configurante plagio-contraffazione della canzone «Colori» del cantautore Angelo Branduardi. Accertato che il modo di cantare e il timbro vocale espressi nello «spot pubblicitario» fossero molto simili a quelli propri di Branduardi, il tribunale ha ravvisato la lesione del diritto morale d’autore sotto l’aspetto del diritto alla paternità dell’opera, nonché del diritto esclusivo di sfruttare la propria notorietà.

[41] Pret. Roma (ord.), 6 luglio 1987, in Foro it., 1988, pt. I, c. 3463 ss. Il caso, che per le somiglianze con la fattispecie in esame appare di particolare interesse, aveva riguardato Monica Vitti: in un inserto pubblicitario, era stata utilizzata l’immagine di una sua sosia, accompagnata, in basso, dalla didascalia: «Aoo, ma chi te credi d’esse … la Vitti? Bella l’imitazione? Ma il personaggio vero ha un fascino speciale. Come l’eleganza delle camere Doimo arredamenti, ecc.». Premesso che «nell’utilizzazione a fini pubblicitari della immagine d’un sosia di persona nota senza il consenso di quest’ultima potrebbe ravvisarsi un comportamento civilmente illecito, in quanto il pubblico destinatario del messaggio, tratto in errore dalla somiglianza dei soggetti, fosse indotto a considerare detta immagine come riproduttiva delle sembianze non del sosia ma della persona nota» l’organo giudicante ha reputato che, nel caso concreto, non soltanto la somiglianza tra la persona raffigurata e Monica Vitti fosse capace di destare l’impressione di un abbinamento tra l’(apparente) immagine della Vitti, l’oggetto e il marchio, ma soprattutto l’inserto ingenerasse nel pubblico dei destinatari «il convincimento d’una partecipazione personale della Vitti al messaggio pubblicitario, risultato di per se stesso idoneo e sufficiente a far ritenere illecita la pubblicazione di quel messaggio in relazione agli art. 96 l. aut. e 10 c.c.». Essendosi utilizzato il nome della Vitti unitamente ad apprezzamenti sulla sua persona, la si è coinvolta nel messaggio pubblicitario, suscitando nel pubblico l’erroneo convincimento che ella avesse prestato il proprio consenso all’iniziativa pubblicitaria.

[42] Cfr. Cass. civ., Sez. I, 12 marzo 1997, n. 2223, pubblicata e annotata su numerose riviste, tra le quali: Corr. giur., 1997, fasc. 8, p. 911 ss., con nota di P. CELENTANO, Il marchio evocativo del nome e dell’immagine altrui; Riv. dir. ind., 1997, fasc. 6, pt. II, p. 406 ss., con nota di L. BROVEDANI, Il caso “Totò”: caricature di personaggi celebri e marchi d’impresa. Nel caso di specie, i giudici reputarono che l’immagine stilizzata di Totò abbinata al nome dell’artista come marchio per prodotti dolciari costituisse segno notorio, evocativo del celebre attore napoletano, da potersi utilizzare a fini pubblicitari solo col consenso dei suoi eredi.

[43] Tali considerazioni, ad avviso del giudicante, portano ritenere non accoglibili le eccezioni del convenuto in ordine alla carenza in capo all’attore dell’interesse ad agire richiesto ex art. 100 c.p.c. L’entità della contraffazione neppure incide sui criteri di liquidazione dei danni, fermo il disposto dell’art. 121, comma 2-bis, c.p.i., per cui «In caso di violazione su scala commerciale mediante atti di pirateria di cui all’articolo 144, il giudice può anche disporre, su richiesta di parte, l’esibizione della documentazione bancaria, finanziaria e commerciale che si trovi in possesso della controparte». Cfr. C. GALLI (a cura di), Le nuove tendenze della giurisprudenza italiana in materia di risarcimento del danno e retroversione degli utili da contraffazione e concorrenza sleale, in Dir. ind., 2020, fasc. 3, p. 308.

[44] Tale principio è espresso, a livello legislativo, al secondo comma dell’art. 125 c.p.i., il quale fa riferimento, come parametro per la determinazione del lucro cessante, all’importo «dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso» (cd. criterio della «royalty ragionevole») nonché all’art. 158 l. dir. aut. (l. 22 aprile 1941, n. 633) così come modificato dall’art. 5, d.lgs. n. 140/2006, per cui «Chi venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante può agire in giudizio per ottenere, oltre al risarcimento del danno che, a spese dell’autore della violazione, sia distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’articolo 2056, secondo comma, del codice civile, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Il giudice può altresì liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto. Sono altresì dovuti i danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 del codice civile». Il criterio «trova la sua più importante e originale elaborazione nell’ambito dell’ordinamento statunitense che impone al giudice, quale parametro residuale minimo di risarcimento e in difetto di una prova concreta dei mancati profitti, il riconoscimento, a favore del titolare del brevetto violato, di una royalty “reasonable”» (R. BICHI, La liquidazione del danno da contraffazione e le prospettive riconosciute dall’art. 125 del d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, in Riv. dir. ind., 2005, fasc. 4-5, pt. I, p. 390 ss.) e da noi era, invero, applicato già da tempo in giurisprudenza. Cfr. Cass. civ., 16 maggio 2008, n. 12433, in Foro it., 2008, fasc. 11, pt. I, c. 3215 ss.; Riv. dir. ind., 2008, fasc. 6, pt. II, p. 575 ss.; Giust. civ., 2009, fasc. 3, pt. I, p. 706 ss., che, in un caso di pubblicazione di fotografie in assenza del consenso dell’interessato, ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di Appello (pronunciata prima delle suddette modifiche introdotte alla legge 22 aprile 1941, n. 633 dal d.lgs. n. 140/2006, art. 5) che aveva negato la valutazione equitativa, rilevando come, quando non sia agevole configurare natura ed entità del pregiudizio economico derivante dalla violazione dell’art. 96 l. dir. aut. o quantificarne l’importo, pur essendo certi ed incontestabili sia l’illiceità del comportamento dell’autore della pubblicazione sia il fatto che questi ne abbia tratto vantaggio, la liquidazione del danno deve compiersi in via equitativa ai sensi dell’art. 2056, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto: «il risarcimento dei danni patrimoniali consiste, pertanto, nel ritrasferire quei vantaggi dall’autore dell’illecito al titolare del diritto, e ad essi va commisurata l’entità della liquidazione (c.d. prezzo del consenso alla pubblicazione), se del caso determinandone l’importo in via equitativa, ai sensi dell’art. 2056 c.c.». Conf.: Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2010, n. 11353, in Foro it., 2011, pt. I, c. 534 ss.

[45] L’eventuale circostanza che il titolare del diritto abbia scelto di non esercitare, al momento, il diritto di sfruttare economicamente la propria immagine non toglie che la lesione del diritto alla immagine della persona nota possa aver causato un danno patrimoniale. Cfr. Cass. civ., Sez. I, 1º dicembre 2004, n. 22513, in Dir. autore, 2005, p. 221; Danno e resp., 2005, fasc. 10, p. 969 ss., con nota di S. OLIARI, Foto di nudo non autorizzate su un giornale pornografico: quanto costa il danno all’immagine di una celebrità?: «chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona nota per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà di cui si tratta, soprattutto se questa è connessa alla attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo della immagine stessa». Un eventuale, precedente rifiuto di divulgazione della propria immagine da parte del titolare del diritto non implica certo un suo abbandono o caduta in pubblico dominio (nel caso di specie, la Tattilo Editrice s.p.a. aveva pubblicato senza autorizzazione sul periodico Playmen foto di scena di Stefania Sandrelli scattate durante le riprese del film “La Chiave”). Nel caso Maradona, che qui ci occupa, l’attore ha offerto la prova del fatto che, in assenza dell’illecito, avrebbe acconsentito allo sfruttamento del nome solo verso un corrispettivo (già precedentemente, egli aveva autorizzato a titolo oneroso l’uso a fini commerciali della propria immagine). Diversamente, si sarebbe potuta reputare mancante la prova della esistenza di un nesso causale tra la condotta illecita e il danno. Cfr. M. PROTO, Il diritto e l’immagine, cit., p. 78.

[46] Ibidem. Si potrebbe parlare, al riguardo, anche di danno da «overexposure» o da «sovrasaturazione» del mercato, con riferimento al pregiudizio consistente in una riduzione delle possibilità di scelta in ordine al concreto impiego del segno notorio e del nome famoso da parte del titolare.

[47] Si veda l’analisi critica di M. PROTO, Il diritto e l’immagine, cit., p. 80 ss.

[48] A. NICOLUSSI, Proprietà intellettuale e arricchimento ingiustificato: la restituzione dei profitti nel­l’art. 45 TRIPs, in Eur. dir. priv., 2002, p. 1003, ss.; C. PLAIA, La violazione della proprietà intellettuale tra risarcimento e restituzione, in Riv. dir. comm., 2003, pt. I, p. 1021 ss.; ID., Proprietà intellettuale e risarcimento del danno, Torino, 2005, p. 10; C. CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 637 ss. Fra gli autori più sensibili al problema A. NICOLUSSI, Le restituzioni “de iure condendo, in Eur. dir. priv., 2012, fasc. 3, p. 788; A.M. GAMBINO, Diritto d’autore e nuovi processi di patrimonializzazione, in Dir. ind., 2011, fasc. 2, p. 115 ss.; O. TROIANO, La tutela del diritto d’autore attraverso la disciplina dell’arricchimento ingiustificato, in AIDA, 2000, pt. I, p. 207 ss.

[49] R. SACCO, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto. Contributo alla teoria della responsabilità extracontrattuale, Torino, 1959, p. 114 ss. Anche per P. TRIMARCHI, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, p. 54 ss. è possibile desumere da alcuni indici normativi il principio per cui l’autore del­l’illecito non soltanto deve risarcire i danni ma deve anche restituire l’arricchimento ottenuto. L’A., tuttavia, distingue a seconda che il soggetto sia in buona fede o in mala fede arg. ex art. 1148 c.c., sostenendo che solo in questo secondo caso valga il principio della restituzione del profitto.

[50] P. SIRENA, La gestione di affari altrui. Ingerenze altruistiche, ingerenze egoistiche e restituzione del profitto, Torino, 1999, passim.

[51] Per approfondimenti cfr. I. GARACI, La reversione degli utili fra tecniche risarcitorie e restitutorie, in Riv. dir. ind., 2017, fasc. 6, p. 313 ss.

[52] Nel senso che la funzione del risarcimento e delle altre misure correttive in materia industrialistica si coglie «in chiave non solo indennitaria, ma anche di deterrence e correlativamente di ripristino di corrette condizioni di svolgimento della concorrenza sul mercato» C. GALLI, in Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, in Riv. dir. ind., 2019, fasc. 2, p. 57 ss.

[53] La nostra giurisprudenza mostra, così, di considerare la royalty che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere al titolare del segno distintivo come semplice base di calcolo del danno risarcibile: «Il criterio della royalty media, ai fini dell’applicazione dell’art. 125.2 c.p.i. nel caso di violazione brevettuale, va integrato al fine di garantire un’equa riparazione della violazione e di indennizzare tutte le perdite effettivamente subite dalla parte lesa, dimodoché il risultato del calcolo non sia economicamente premiale per l’autore della contraffazione del brevetto» (Trib. Milano, 17 settembre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, p. 5453; già Trib. Vicenza, 17 giugno 2002, ivi, 2003, p. 4502, per cui «Il criterio dell’equa royalty non è idoneo a quantificare in maniera completa il danno da contraffazione di brevetto […] perché pone ingiustificatamente il titolare del brevetto nella stessa condizione del licenziatario obbligatorio finendo per premiare il contraffattore il quale si vede chiamato a pagare – per di più in ritardo e solo a seguito di una vertenza giudiziaria – quanto avrebbe pagato il soggetto che avesse correttamente contrattato una licenza con il titolare».

[54] In attuazione della Dir. 2004/48/CE, cd. Direttiva Enforcement.

[55] Dal momento della sua entrata in vigore, della disposizione contenuta al terzo comma dell’art. 125 c.p.i. sono state avanzate diverse interpretazioni: secondo una prima opzione ermeneutica, la reversione degli utili si atteggia a misura del rimedio risarcitorio con funzione di deterrenza e punitivo sanzionatoria; seconda altra opzione ricostruttiva, si tratta di un rimedio autonomo, di una «azione di nuovo conio, con ambito di applicazione limitato alle sole ipotesi di ‘contraffazione incolpevole’ (in relazione alla quale non troverebbero applicazione le norme in tema di risarcimento dei danni)». Cfr. P. PARDOLESI, Un’inno­vazione in cerca d’identità: il nuovo art. 125 CPI, in Corr. giur., 2006, fasc.11, p. 1605 ss. Nel senso che il meccanismo restitutorio delineato al terzo comma dell’art. 125 c.p.i. operi a prescindere dallo stato soggettivo dell’autore della violazione, ex aliis, M. BARBUTO, La reversione degli utili nel diritto italiano, in Dir. ind., 2012, fasc. 2, p. 155 ss.; A. VANZETTI, La “restituzione” degli utili di cui all’art. 125, n. 3, C.p.i. nel diritto industriale, in Dir. ind., 2006, p. 323 ss. Contra C. GALLI, Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, cit., p. 66, spec. nt. 19. A far propendere per la tesi che assegna all’istituto della retroversione degli utili un’autonoma funzione restitutoria potrebbe essere una certa lettura dell’art. 125 c.p.i. in coordinato con l’art. 158 l. dir. aut.: nella disciplina autoriale, stante la formulazione letterale della disposizione, la retroversione degli utili sembra atteggiarsi a mero criterio del quale il giudice può servirsi per la liquidazione equitativa del lucro cessante; nella disciplina della proprietà industriale, invece, oltre a costituire un criterio di determinazione del danno, la restituzione degli utili svolgerebbe anche una autonoma funzione, appunto restitutoria. Cfr. I. GARACI, La reversione degli utili fra tecniche risarcitorie e restitutorie, cit., p. 333 ss. Neppure i rapporti tra l’art. 158 l. dir. aut. e l’art. 125 c.p.i. sono, invero, pacifici. Secondo una tesi, l’art. 158 l. dir. aut. conterrebbe una lacuna che sarebbe possibile colmare facendo luogo all’applicazione in via analogica nella materia del diritto d’autore della previsione del terzo comma dell’art. 125 c.p.i. (cfr. D.A. SCHIESARO, Danni e restituzioni nella violazione della proprietà intellettuale, in N. giur. civ. comm., 2012, p. 799 ss.). Secondo altra tesi, tuttavia, l’art. 125, ult. c., c.p.i. esprimerebbe una norma speciale, dettata più da valutazioni pratiche che da esigenze di coerenza dogmatica (M.S. SPOLIDORO, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., in Riv. dir. ind., 2009, fasc. 3, p. 198 ss.) rispetto alla quale è apparso dubitabile possa farsi luogo a una applicazione analogica in materia di diritto d’autore. In giurisprudenza, contro l’applicabilità in via analogica della norma sulla reversione degli utili v. Trib. Milano, 18 luglio 2017, n. 8066, pubblicata in www.giurisprudenzadelleimprese.it. D’altra parte, v’è pure chi ha osservato come la norma espressa dall’ultimo comma dell’art. 125 c.p.i. sia già implicita nel sistema autoriale, per cui una integrazione dell’art. 158 l. dir. aut. sulla falsariga dell’art. 125 c.p.i., in occasione della riforma del 2006, è apparsa superflua (C. GALLI, Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, cit., p. 63). Tutt’altro che univoche sono le indicazioni sulla natura dell’istituto provenienti dalla giurisprudenza pratica: nel senso che «la reversione degli utili prescinde dalla ricorrenza, nel caso concreto, di un danno risarcibile» in quanto la ratio dell’inserimento della previsione del terzo comma dell’art. 125 c.p.i. è «proprio quella di sopperire alle situazioni in cui non sussista, o sussista in misura irrisoria un danno risarcibile, permettendo una restituzione al titolare del vantaggio competitivo portato dalla risorsa oggetto della privativa e abusivamente sfruttato dal contraffattore» App. Milano, 22 maggio 2019, Providus vs. Plein Air et al., in www.darts-ip.com. Conf. Trib. Milano, 27 febbraio 2018, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, per cui «la retroversione degli utili va inteso quale autonomo rimedio non risarcitorio – riconducibile secondo taluni all’alveo dell’arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. e – comunque svincolato da profili soggettivi della condotta richiesti invece per la domanda di risarcimento del danno». Contra Cass., 3 giugno 2015, n. 11464, in Dir. ind., 2015, p. 555 ss., con nota di F. CHRISAM, Danno derivante dalla lesione del diritto d’autore sull’opera originaria e reversione degli utili, ove i giudici definiscono la reversione degli utili un «utile criterio di riferimento del lucro cessante».

[56] D’obbligo è, dunque, il rinvio a Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, che adombra il quadro teorico di riferimento. Il clamore che ha destato è testimoniato dalla abbondanza e poliedricità dei contributi nella letteratura scientifica: la sentenza può leggersi in Giur. it., 2017, p. 1787 ss., con nota di A. DI MAJO, Principio di legalità e di proporzionalità nel risarcimento con funzione punitivaResp. civ. prev., 2017, fasc. 5, p. 1596 ss., con nota di A. BRIGUGLIO, Danni punitivi e delibazione di sentenza straniera: “turning point nell’interesse della legge”Arch. giur. circol. e sinistri, 2017, fasc. 9, p. 687 ss.; Banca borsa, 2017, fasc. 5, pt. II, p. 568 ss., ma è stata diffusamente commentata sia sulle riviste sia a livello monografico. Senza pretesa di esaustività, sia consentito rinviare ai commenti (e ai riferimenti) raccolti in E. GABRIELLI, A. FEDERICO (a cura di), I danni punitivi dopo le Sezioni Unite, in Giur. it., 2018, fasc. 10, p. 2274 ss. nonché ai contributi di M. FRANZONI, Danno punitivo e ordine pubblico, in Riv. dir. civ., 2018, fasc. 1, p. 283 ss.; C.C. VIAZZI, L’ostracismo ai danni punitivi: ovvero come tenere la stalla chiusa quando i buoi sono scappati, IVI, p. 328 ss.; A. LAMORGESE, Luci e ombre nella sentenza delle sezioni unite sui danni punitiviivi, p. 317 ss.; A GAMBARO, Le funzioni della responsabilità civile tra diritto e giurisprudenza e dialoghi transnazionali, in N. giur. civ. comm., 2017, fasc. 10, p. 1405 ss.; G. PONZANELLI, Le Sezioni Unite sui danni punitivi tra diritto internazionale privato e diritto internoivi, p. 1413 ss.; P.G. MONATERI, Le sezioni unite e le funzioni della responsabilità civile, in Danno e resp., 2017, fasc. 4, p. 437 ss.; G. ALPA, Le funzioni della responsabilità civile e i danni “punitivi”: un dibattito sulle recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione, in Contr. e impr., 2017, p. 1084 ss.; F. BENATTI, Note sui danni punitivi in Italia: problemi e prospettive, in Contr. e impr., 2017, fasc. 4, p. 1129 ss.; R. CARLEO, Punitive damages: dal common law all’esperienza italiana, in Contr. impr., 2018, fasc.1, p. 259 ss. Sui riflessi della decisione nel diritto della concorrenza, v. A PALMIERI, I danni punitivi dopo le Sezioni unite, danni punitivi nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale: quali prospettive?, in Giur. it., 2018, fasc. 10, p. 2274 ss.; in chiave comparatistica, S. CARABETTA, I danni punitivi dopo le Sezioni Unite. I punitive damages tra crisi di proporzionalità e teoria dell’illecito civileibid., p. 2274 ss. La Suprema Corte ha ivi riconosciuto alla responsabilità civile non solo la funzione di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, ma anche funzione di deterrenza e sanzionatoria, reputando ontologicamente non incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Nella stessa occasione, le Sezioni Unite hanno delineato il perimetro della funzione sanzionatoria della responsabilità civile richiedendo, per l’ammissione di danni punitivi, una “intermediazione legislativa” coerente con gli artt. 23, 24 e 25 Cost. (Tale principio, per cui l’illecito aquiliano è tipico quando assolve funzione sanzionatoria, ha trovato recente applicazione da parte di Cass. civ., sSez. III, 30 marzo 2018, n. 7917, in Danno e resp., 2019, fasc. 1, p. 102 ss., con commento di A. FITTANTE, I danni punitivi tipici nella più recente giurisprudenza). Numerosi e autorevoli autori sono schierati contro l’avanzamento di sanzioni civili «ultracompensative». Recentemente, nel senso che «una regola di responsabilità civile punitiva non solo non è presente nell’ordinamento giuridico vigente, ma non è neppure coerente con esso» P. TRIMARCHI, Responsabilità civile punitiva?, in Riv. dir. civ., 2020, fasc. 4, p. 687 ss. Per la funzione esclusivamente compensativa della responsabilità civile si era espresso già M. BARCELLONA, Funzione compensativa della responsabilità (e «private enforcement» della disciplina antitrust), in M. MAUGERI, A. ZOPPINI (a cura di), Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, Bologna, 2009, p. 57 ss. Su diversa posizione, di recente, F. QUARTA, Effettività dei diritti fondamentali e funzione deterrente della responsabilità civile, in Danno e resp., 2019, fasc. 1, p. 89 ss. (nota a Cass. civ., Sez. III, 12 aprile 2018, n. 9059); R. SIMONE, La responsabilità civile non è solo compensazione: punitive damages e deterrenza, in Foro it., 2017, fasc. 9, pt. I, c. 2644 ss. Tra i contributi monografici, v. il recente studio di C. DE MENECH, Le prestazioni pecuniarie sanzionatorieStudio per una teoria dei “danni punitivi”, Padova, 2019.

[57] C. GALLI, Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, cit., p. 60. La retroversione degli utili, nota l’A., assolverebbe, inoltre, a una concorrente funzione di deflazione del contenzioso, disincentivando i difensori del contraffattore dal coltivare la lite e favorendone, piuttosto, la composizione in via transattiva.

[58] «Forse un’attenuazione dello spirito critico verso l’innovazione di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. ed uno sforzo di adesione dommatica alla novità del disgorgement of profits potrebbe trasformare il contenzioso industrialistico in un volano per far acquisire alla giustizia civile nazionale una maggiore serietà ed affidabilità nella «competizione» europea e internazionale». Così M. BARBUTO, La reversione degli utili nel diritto italiano, cit., p. 161. Esprime, invece, cautela e perplessità M. MONTANARI, La reversione dell’utile da lesione di proprietà industriale e il mito dei danni punitivi, in Riv. dir. ind., 2017, fasc. 4-5, p. 225.

[59] Per una riflessione intorno alla possibile funzione deterrente della condanna risarcitoria per danno non patrimoniale cfr. C. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale soggettivoN. giur civ. comm., 2010, pt. II, p. 252 ss.

[60] G. ALPA, A. ANSALDO, Le persone fisiche, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1996, p. 316. V. anche G. ALPA, G. RESTA, La persona fisica e i diritti della personalità, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 2019. La dottrina che ha sostenuto la risarcibilità del danno non patrimoniale in relazione alla violazione degli artt. 7, 9 e 10 c.c. è ampia e risalente. Si vedano S. PUGLIATTI, La trascrizione, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, XIV, I, 1, Milano, 1957, p. 16; A. CATAUDELLA, La tutela civile della vita privata, Milano, 1972, p. 63 s.; G. BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, p. 351. In giurisprudenza, v. Cass., 11 maggio 2010, n. 11353, cit.; Cass., 16 maggio 2008, n. 12433, cit., che ha enunciato il principio di diritto per cui «L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali sia ai sensi dell’art. 10 c.c., sia ai sensi della L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 29, ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla riservatezza, sia in virtù della protezione costituzionale dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost.: protezione costituzionale che di per sé integra fattispecie prevista dalla legge (al suo massimo livello di espressione) di risarcibilità dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c. […] il diritto all’immagine rientra fra i diritti della personalità che – nei loro aspetti non patrimoniali – integrano diritti inviolabili della persona, la cui violazione attribuisce al titolare il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali. L’art. 10 c.c. è stato normalmente interpretato nel senso che la lesione del diritto all’immagine dà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali, soluzione confermata e rafforzata dal rilievo che, trattandosi di diritto costituzionalmente protetto (art. 2 Cost.), vale il principio più volte enunciato da questa Corte, secondo cui la relativa lesione non è soggetta al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone la qualificabilità del fatto come reato, giacché il rinvio di cui all’art. 2059 c.c., «....ben può essere riferito....... anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale». (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, fra le altre)». Contra RAVAZZONI, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962, p. 121 ss.; SCOGNAMIGLIO, voce «Danno morale», nel Nuoviss. Dig. it., V, Torino, 1960, p. 148; P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 286 ss.; A. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, IV, Milano, 1982, p. 58; M. PROTO, Il diritto e l’immagine, cit., p. 95. In giurisprudenza, v. Cass. civ., Sez. I, 10 novembre 1979, n. 5790, cit., secondo cui, poiché il danno cosiddetto morale o non patrimoniale è risarcibile, oltre che in casi determinati espressamente previsti dalla legge, solo quando l’illecito che lo ha prodotto integra gli estremi di un reato, è da escludere che tale tipo di danno possa trovare ristoro in ipotesi di lesione del diritto all’immagine, la quale non costituisca reato, tenuto conto che nessuna specifica disposizione in proposito è rinvenibile nelle norme che tutelano il diritto stesso (art. 10 c.c., 96 e 97 l. 22 aprile 1941 n. 633): i danni non patrimoniali sono risarcibili, nel nostro ordinamento, solo in via eccezionale; pertanto, non è sufficiente a renderli tali la generica dizione «salvo il risarcimento dei danni».

[61] G. BONILINI, Il danno non patrimoniale, cit., p. 351.

[62] M. PROTO, Tutele per abuso di immagine, cit., p. 404. In favore di questa opzione ermeneutica sembra militare un argomento di carattere sistematico a contrario: essa appare avvalorata da una lettura del suddetto articolo in coordinato con le previsioni “gemelle” dell’art. 158 l. dir. aut. poc’anzi menzionate nonché alla luce dell’art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice dalla privacy), il quale stabilisce espressamente che: «chiunque cagiona un danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile»; «il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’articolo 11», il quale impone di trattare i dati «in modo lecito e secondo correttezza». Cfr. in arg. S. THOBANI, Il danno non patrimoniale da trattamento illecito dei dati personali, in Dir. informaz. e informat., 2017, fasc. 2, p. 427 ss.; G. AGRIFOGLIO, Risarcimento e quantificazione del danno da lesione della privacy: dal danno alla persona al danno alla personalità, in Eur. dir. priv., 2017, fasc. 4, p. 1265 ss.; E. TOSI, Responsabilità civile per illecito trattamento dei dati personali e danno non patrimoniale: oggettivazione del rischio e riemersione del danno morale con funzione deterrente-sanzionatoria alla luce dell’art. 82 GDPR, Milano, 2019.

[63] Diverso è il caso deciso da Trib. Torino, 27 febbraio 2019, n. 940, cit., che, in linea col precedente rappresentato da Trib. Milano, 5 novembre 2013, in Resp. civ. e prev. 2014, fasc. 6, p. 1972 ss., sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. ha riconosciuto «anche il danno non patrimoniale – unitariamente inteso – subito in conseguenza del grave abuso del diritto all’immagine, dell’illecito trattamento dei dati personali e dalla particolarmente invasiva interferenza nella vita privata». L’utilizzazione non autorizzata dell’immagine altrui a fini commerciali o pubblicitari – è appena il caso di ribadirlo – è illecita quand’anche non rechi offesa ai diritti della personalità. Cfr. Trib. Roma, 22 dicembre 1994, in Foro it. 1995, I, c. 2285 ss.

[64] Trib. Roma, 3 marzo 2006, in Giur. dir. ind., 2006, p. 652.

[65] C. GALLI (a cura di), Le nuove tendenze della giurisprudenza italiana in materia di risarcimento del danno e retroversione degli utili da contraffazione e concorrenza sleale, cit., p. 299 ss.

[66] «[…] sovente, la pretesa insensibilità del giudice in tema di riconoscimento del danno si correla ad un’obiettiva carenza o insufficienza non solo probatoria, ma anche di allegazione della parte. Se le difese, nelle controversie sulla proprietà industriale, sono spesso approfondite e diffuse in tema di accertamento della responsabilità, deve riscontrarsi come esse, non infrequentemente, si risolvano, riguardo all’accertamento del danno, in generici riferimenti, evocandosi gravi nocumenti rispetto ai quali non è adempiuto neppure un onere di descrizione specifica, che consenta di verificare la pertinenza e la rilevanza delle eventuali richieste istruttorie». Cfr. R. BICHI, La liquidazione del danno da contraffazione, cit., p. 400.

[67] C. GALLI (a cura di), Le nuove tendenze della giurisprudenza italiana, cit., p. 304.