Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La gara per l´assegnazione dei diritti di trasmissione di eventi sportivi, tra diritto pubblico e privato * (di Francesco Goisis, Professore Ordinario di Diritto Amministrativo nell’Università di Milano.)


This work gives a new public qualification to the procedure of collective selling of sports broadcasting rights. This is due to the kind of interests involved and the tight connection between interest to competition and the social function of sport, meant as a general-public interest. Public aspects are also showed by the features of the main players: private companies which have to care public implications and are subject to the Independent Authorities guidelines. Substantially, these companies should be e­qual as public legal subjects. The paper evaluates that to reach appropriate results for the entire business, a private legal guardianship it’s not enough and considers public law institution the only one who should offer more protection to the claimant and a real observance of procedure provided for by public law.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La cornice legislativa - 3. Spunti per una qualificazione pubblicistica della gara - 4. Ambito soggettivo e oggettivo della giustizia amministrativa - 5. Vantaggi di una ricostruzione pubblicistica: la più efficace reazione avverso la violazione delle regole di gara, la tutela del partecipante e la responsabilità delle leghe - 6. Conclusioni - NOTE


1. Introduzione

In quanto amministrativista, mi occuperò non tanto dei profili sostanziali dell’ar­gomento che mi è stata assegnato (diritti sportivi e antitrust), quanto dei suoi aspetti procedimentali e di tutela giurisdizionale.

Il che richiederà un’analisi della qualificazione giuridica – pubblica o privata – del procedimento di vendita collettiva dei diritti audiovisivi sportivi [1] e, di conseguenza, seppur con la necessaria rapidità, di alcune questioni di fondo in ordine al complesso rapporto tra diritto pubblico e privato.


2. La cornice legislativa

Partiamo dal dato legislativo.

Ai sensi del d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9, la titolarità dei diritti televisivi sportivi – espressamente riconosciuta dalla legge 29 marzo 1999, n. 78, in capo alle società sportive [2] – spetta, invece, all’organizzatore di competizioni sportive. Quest’ultimo – definito come «il soggetto cui è demandata o delegata l’organizzazione della competizione da parte della federazione sportiva riconosciuta dal Comitato olimpico nazionale italiano, competente per la rispettiva disciplina sportiva» (art. 2, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 9/2008) – è chiamato a conformare la sua attività di gestione e vendita dei diritti sportivi in vista di alcuni obiettivi predeterminati.

In tal modo, il legislatore conferisce un potere monopolistico alla lega, e lo sfrutta per sue finalità [3]: in particolare, la lega (i.e., almeno nel calcio, l’organizzatore di competizioni) deve realizzare una trasparente concorrenza per il mercato e, allo stesso tempo, un equo e razionale finanziamento dello sport. Viene così codificata ed attuata la nota idea (condivisa dal diritto dell’Unione Europea e degli Stati Uniti) per cui l’organizzazione sportiva deve essere necessariamente coordinata e, come tale, esclusa da una piena applicazione del diritto della concorrenza [4].

Già la legge delega (19 luglio 2007, n. 106), del resto, indicava «lo scopo di garantire l’equilibrio competitivo dei soggetti partecipanti alle competizioni sportive e di realizzare un sistema efficace e coerente di misure idonee a stabilire e a garantire la trasparenza e l’efficienza del mercato dei diritti di trasmissione, comunicazione e mes­sa a disposizione al pubblico, in sede radiotelevisiva e su altre reti di comunicazione elettronica, degli eventi sportivi dei campionati e dei tornei professionistici a squadre e delle correlate manifestazioni sportive organizzate a livello nazionale» (art. 1, com­ma 1), nel contesto del «riconoscimento del carattere sociale dell’attività sportiva, quale strumento di miglioramento della qualità della vita e quale mezzo di educazione e sviluppo sociale»; nonché della specificità del fenomeno sportivo, quale espressa nella dichiarazione del Consiglio europeo di Nizza del 2000 (art. 1, comma 2).

Invero, la Commissione Europea ha, con più interventi, ammesso la vendita collettiva di diritti sportivi, a condizione che essa avvenga attraverso procedure aperte e trasparenti (casi UEFA Champions League [5], FA Premier League [6] e Bundesliga [7]). Esplicita è in queste decisioni l’idea che la gara non serva solo a realizzare l’interesse concorrenziale. Anzi, essa è strumento attraverso cui si ricerca una particolare conciliazione tra interesse concorrenziale ed altri interessi pubblici-sportivi. Ossia, serve a realizzare la c.d. funzione sociale dello sport, prescindendo dal libero dispiegarsi della concorrenza nel mercato, a favore di procedimenti formalizzati di concorrenza per il mercato [8].

Coerentemente, l’art. 1 del medesimo d.lgs. n. 9/2008 richiede di «disciplinare la ripartizione delle risorse economiche e finanziarie assicurate dalla commercializzazione in forma centralizzata di tali diritti, in modo da garantire l’equilibrio competitivo fra i soggetti partecipanti alle competizioni e da destinare una quota di tale risorse a fini di mutualità»; l’art. 6, comma 1, prescrive, quindi, che l’organizzatore predetermini «in conformità ai principi e alle disposizioni del presente decreto, linee guida per la commercializzazione dei diritti audiovisivi recanti regole in materia di offerta e di assegnazione dei diritti audiovisivi medesimi, criteri in materia di formazione dei relativi pacchetti e le ulteriori regole previste dal presente decreto in modo da garantire ai partecipanti alle procedure competitive di cui all’articolo 7 condizioni di assoluta equità, trasparenza e non discriminazione».

Queste linee guida sono poi soggette ad un potere di controllo ed approvazione da parte dell’AGCM e dell’AGCOM, chiamate, ai sensi del comma 6 dell’art. 6, a verificare «la conformità delle linee guida ai principi e alle disposizioni del presente decreto».

Tale assegnazione di finalità di legge, da realizzare attraverso un procedimento di gara, è stata rilevata anche dall’AGCM. Essa, però, sembra quasi unicamente concentrarsi sull’interesse concorrenziale (che pure non è, fin dalla legge delega, l’unico legislativamente perseguito, sembrando anzi prevalente il profilo della valorizzazione della funzione sociale dello sport). In particolare, nel noto provvedimento sanzionatorio 19 aprile 2016, n. 25966, a carico della Lega Calcio, si legge, al punto 228, che «a prescindere dalla qualificazione privata o pubblica del soggetto banditore e degli obiettivi dei singoli partecipanti, la correttezza nello svolgimento della gara e la regolarità nell’assegnazione dei diritti audiovisivi per la trasmissione di eventi sportivi non possono intendersi come mero presidio della regolarità formale della gara, ma sono richiesti dal legislatore al fine di salvaguardare esigenze sostanziali di concorrenza sia statica che dinamica».


3. Spunti per una qualificazione pubblicistica della gara

Occorre ora chiedersi se vi sia spazio per un’ipotesi di qualificazione pubblicistica della gara in questione.

In termini generali, spunti importanti (per quanto, in genere, nel dibattito italiano sulla soggettività pubblica, trascurati) in vista della formulazione di una nozione sostanziale di soggetto pubblico giungono dalla giurisprudenza CEDU.

In linea di principio, per giungere ad una qualificazione pubblicistica, a fini CEDU, centrale è il rilievo sia della posizione monopolistica (per i soggetti imprenditoriali), che dell’esercizio di prerogative pubblicistiche [9]: quest’ultimo criterio porta, ad esempio, a qualificare pubblicisticamente fondazioni di diritto privato operanti nell’inte­resse pubblico, ove delegatarie (anche in mancanza di una chiara base normativa) di funzioni sostanzialmente pubbliche (specie nel senso di attività di interesse pubblico che altrimenti il pubblico avrebbe dovuto-potuto svolgere da sé). La delega di funzioni pubblicistiche diventa, così, ragione di sottoposizione a regime pubblicistico dell’atti­vità di un dato ente (altrimenti di diritto privato), per evitare una facile fuga dalle garanzie pubblicistiche CEDU.

E così, nel caso Wos del 2005 [10] e nei numerosi che ne hanno applicato l’inse­gnamento, i giudici di Strasburgo, a fronte della posizione delle corti polacche che negavano ogni effettivo diritto di azione in sede giurisdizionale, con riguardo alla pretesa di indennizzi di guerra amministrati da una fondazione di diritto privato, in quanto, da un lato, la natura privatistica della fondazione sarebbe stata incompatibile con l’affer­mazione della giurisdizione amministrativa, e, dall’altro, il diritto civile non assicurava alcuna vera tutela verso la pretesa ad un puro vantaggio patrimoniale amministrato da un soggetto privato, la Corte ha statuito che «the respondent State has decided to delegate its obligations arising out of international agreements to a body operating under private law. In the Court’s view, such an arrangement cannot relieve the Polish State of the responsibilities it would have incurred had it chosen to discharge these obligations itself, as it could well have done». Come conseguenza, la Corte ha ritenuto, nel 2006, violato l’art. 6 CEDU, per assenza di un giusto procedimento amministrativo, non compensata ex post da una full jurisdiction [11]. La scelta della fondazione di diritto privato (pienamente parificata, ai fini dell’art. 6 CEDU, ad una autorità amministrativa [12]), se e in che misura concedere un indennizzo, è qualificata, cioè, come determinazione di un diritto civile, ossia come atto autoritativo con cui un’emanazione dello Stato dispone, con «binding force», di una posizione giuridica soggettiva del cittadino, in via unilaterale (ossia, nella visione CEDU, con esercizio di una funzione materialmente giurisdizionale), e quindi come atto rispetto cui deve essere disponibile la pienezza delle garanzie del giusto processo.

Ancora, da ultimo, la Corte di Strasburgo ha ribadito che «In the Court’s view, the exercise of State powers which affects Convention rights and freedoms raises an issue of State responsibility regardless of the form in which these powers happen to be exercised, be it for instance by a body whose activities are regulated by private law (see Woś v. Poland (dec.), no. 22860/02, § 72, 1 March 2005)» [13].

Ma, del resto, anche in due tra le prime sentenze della Corte di giustizia [14], i giudici europei hanno affermato, in tema di delega a enti privati di funzioni autoritative, un principio semplice, ma, nella sua efficacia, quasi liberatorio rispetto a tante discussioni e complicazioni concettuali: un soggetto privato, incaricato dell’esercizio di alcuni poteri autoritativi comunitari, deve motivare le proprie decisioni ed emanarle secondo il procedimento normativamente previsto per l’autorità delegante; questi atti, poi, dovevano essere soggetti al consueto sindacato giurisdizionale offerto dalla Corte di giustizia. Questo perché, notano i giudici, altrimenti tale ente privato acquisterebbe un potere ben maggiore di quello del proprio delegante. In altri termini, alle autorità comunitarie non è consentito validamente delegare a soggetti privati un potere libero da vincoli motivazionali, procedimentali e di soggezione al sindacato giurisdizionale, per la dirimente ragione che nemmeno le autorità deleganti godono di un tale potere «libero».

Ebbene, nel caso delle leghe, vi è – come notato – l’assegnazione ex lege di funzioni (disciplina e poi svolgimento delle gare per la cessione dei diritti) di cura di un interesse anche e soprattutto generale (assicurare un idoneo finanziamento in vista della funzione sociale dello sport). Tale gara ben avrebbe potuto esser direttamente curata da un organo dello Stato, ossia «espropriata» all’organizzazione sportiva. Tuttavia, piuttosto che privare completamente i rappresentanti delle società sportive della responsabilità di organizzare la gara, si è preferita una scelta mediana: ossia intervenire profondamente sulla relativa struttura e finalità. Si è imposto così il rispetto di linee guida approvate da Autorità amministrative indipendenti e, per di più, si è assegnata ex lege la titolarità esclusiva dei relativi diritti alle leghe (mentre, le singole società sportive hanno subito una forma di privazione ex lege dei diritti [15], evidentemente nel­l’interesse generale, secondo lo schema degli artt. 42 e 43 Cost.). In dottrina si è, non a caso, incisivamente parlato di “statalizzazione” dei diritti sportivi, rilevando (e criticando) l’inusuale limitazione dell’autonomia privata (e dunque pubblicizzazione) realizzata in materia [16].

Lo Stato è intervenuto così pesantemente (sia in via legislativa che, poi, in sede di approvazione delle linee guida, tramite due Autorità amministrative indipendenti), sulla base della (dichiarata) idea che tali vicende (ossia la principale forma di finanziamento dello sport italiano) non possono essere lasciate ai comuni interessi concorrenziali (che tendono alla massimizzazione degli interessi individuali della singola impresa). Occorre, invece, che la gara sia direttamente funzionalizzata ad interessi diversi e generali (in sostanza, la funzione sociale dello sport, evidentemente assunta in carico quale finalità pubblicistica e richiedente un approccio collettivo).

Quasi superfluo notare che risulterebbe incomprensibile (anche sul piano costituzionale e concorrenziale) che detta “espropriazione” della titolarità dei diritti sportivi fosse, invece, preordinata alla massimizzazione degli interessi economici espressi, in via maggioritaria, nelle leghe [17], piuttosto che in vista del perseguimento di chiari interessi generali.

Nella prospettiva di una qualificazione pubblicistica, importante appare, altresì, il profilo della particolare posizione di mercato delle leghe.

In effetti, il sistema di vendita collettiva dei diritti, di cui al d.lgs. n. 9/2008, si basa, come notato, proprio sulla creazione di un potere monopolistico in capo agli organizzatori delle competizioni. Viene, difatti, rimosso ogni spazio per una contrattazione libera e indipendente di questi diritti.

Lo stretto legame che la dottrina più attenta a costruire un diritto amministrativo, fondato non solo su considerazioni formali, ma anche sulla sostanza dei fenomeni, ha sempre percepito tra monopolio (specie se di diritto) ed imperium pubblico emerge in particolare nel pensiero del Cammeo.

Secondo l’autorevole voce, il monopolio legale era certamente una delle fonti del potere che lo Stato esercita sul cittadino, nel conferirgli utilità (anche di tipo direttamente materiale, come quelle che può offrire l’amministrazione nell’ambito dei c.d. servizi pubblici).

In tali casi, infatti, o il cittadino si rapporta con lo Stato alle condizioni da que­st’ultimo stabilite, ovvero rinuncia ai beni della vita solo da esso conferibili [18]; ma, per concentrarsi nel campo del diritto dello sport, il monopolio spiega, altresì, l’insegna­mento della Corte di giustizia per cui le discipline sportive debbono rispettare le libertà economiche pattizie, come noto di per sé incidenti solo sulla attività degli stati e delle loro emanazioni (ossia, in linea di massima, dotate di un’efficacia esclusivamente verticale) [19]. La tesi, esposta dai giudici comunitari fin dalle prime pronunce in tema di sport, per cui anche le discipline di fonte extrastatale non possono illegittimamente limitare la libera circolazione dei lavoratori, perché «l’abolizione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone sarebbe compromessa se l’elimi­nazione delle limitazioni stabilite da norme statali potesse essere neutralizzata da ostacoli derivanti dall’esercizio dell’autonomia giuridica di associazioni ed enti di natura non pubblicistica …» [20], poggia, evidentemente, sulla effettività della loro (inderogabile) vigenza. Detto altrimenti, sulla capacità dei regolamenti sportivi, in virtù della posizione monopolistica e dunque assolutamente preminente delle federazioni (felicemente definite quali “monopoly regulators”) [21], di condizionare completamente (allo stesso mo­do, se non meglio, di norme statuali) l’accesso ad uno specifico settore economico e, tra l’altro, ad un mercato del lavoro. Possiamo allora ben dire che, nel diritto comunitario pattizio, seppure non si arriva a qualificare formalmente le federazioni quali soggetti pubblici, di fatto, poi, se ne assoggetta l’attività regolatoria ai medesimi limiti previsti per questi ultimi: nei fatti, dunque, l’equivalenza ai soggetti pubblici è realizzata.

Non è un caso che la Commissione parli di una «organizzazione piramidale dello sport in Europa» che «pone le federazioni sportive in una situazione pratica di monopolio» [22].

Ebbene, nel momento in cui si assegnano, ex lege, funzioni di cura monopolistica di interessi collettivi alle leghe, pare lecito ragionare similmente.

Del resto, le leghe ricevono il compito di organizzare la competizione per decisione delle competenti federazioni sportive, che, a loro volta, sono preposte, monopolisticamente, dal CONI al governo di una determinata disciplina sportiva (si ricordi la definizione, all’art. 2, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 9/2008 di «organizzatore della competizione» come «soggetto cui è demandata o delegata l’organizzazione della competizione da parte della federazione sportiva riconosciuta dal Comitato olimpico nazionale italiano, competente per la rispettiva disciplina sportiva») [23].

In altri termini, l’organizzazione piramidale e monopolistica dello sport trova (per scelta legislativa) il suo ultimo gradino, quanto all’organizzazione dei campionati e alla cessione dei relativi diritti, nelle leghe.

Sotto questo profilo, appaiono ben chiare (se non esplicite) sul piano legislativo due principali ragioni sostanziali per giungere ad una ricostruzione pubblicistica: la delega di funzioni e la posizione di monopolio


4. Ambito soggettivo e oggettivo della giustizia amministrativa

Per parlare di tutela giurisdizionale, occorre preliminarmente affrontare alcune questioni di fondo circa l’ambito della giurisdizione competente a decidere sull’eser­cizio di poteri nell’interesse generale.

Invero, pressoché nessuno più dubita del fatto che la giurisdizione amministrativa possa e debba estendersi anche agli atti amministrativi dei soggetti privati.

Ciò sembra peraltro coerente con il dato costituzionale: il riferimento al concetto di pubblica amministrazione (e, implicitamente, a quello di potere amministrativo), agli artt. 103 e 113 Cost., può e deve intendersi funzionalmente, senza cioè precludere l’estensione della giurisdizione in relazione agli atti dei privati che esercitino pubbliche funzioni. Ciò perché l’art. 113 Cost. null’altro appare se non una specificazione-esemplificazione – per il particolare caso del ricorso avverso atti espressivi di potere amministrativo – della «pienezza» di tutele richiesta dall’art. 24 Cost. è allora facile convenire che, anche ad immaginare che l’art. 113 Cost. delinei i parametri minimi di tutela avverso il solo potere amministrativo esercitato da un soggetto pubblico, equivalenti garanzie e strumenti di tutela debbano assicurarsi nei confronti del medesimo potere, ove esercitato da un ente privato (potere rispetto al quale l’art. 24 Cost. parimenti impone pienezza di tutele). Con il che pubblica amministrazione, negli artt. 103-113 Cost., non può che significare qualsiasi ente attributario di poteri amministrativi, ossia soggetto che, se anche non formalmente pubblico, è pienamente equiparabile, sub specie di esigenze di tutela giurisdizionale avverso i propri atti autoritativi, ai soggetti pubblici [24].

Una simile lettura evolutiva sembra fatta propria dal Codice del processo amministrativo, ove, all’art. 7, comma 2, si chiarisce che «Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo». Del resto, già la nota sentenza n. 204/2004 della Consulta [25] aveva legittimato una estensione della giurisdizione amministrativa in relazione agli atti (autoritativi) di soggetti equiparati alle pubbliche amministrazioni.

Rimane, peraltro, largamente irrisolto il problema dei poteri (più o meno) mascherati dalle forme del diritto privato sul piano oggettivo, epperò immutati nella loro sostanza pubblicistica ed autoritativa e, quindi, delle correlate esigenze di tutela.

Ebbene, grazie, soprattutto, all’insegnamento CEDU, appena ricordato, e al rilievo sovraprimario che esso, ex art. 117, comma 1, Cost., ha, anche in relazione alle sue espressioni giurisprudenziali, si apre la strada per ipotizzare un ulteriore passaggio.

Proprio perché, come si è detto, l’art. 113 Cost. esemplifica una tutela già riconosciuta in via generale, ex art. 24 Cost., e, per di più, in virtù della necessità di dare esatto adempimento agli obblighi CEDU, occorre superare il limite oggettivo del contratto e del diritto privato, e riconoscere l’amministrazione (ed i suoi delegati) nella sua veste autoritativa, anche laddove essa si manifesti nelle forme oggettive del diritto privato. Come nel caso polacco, insomma, la circostanza che il soggetto, oltre che essere soggettivamente privato, si rapporti nelle forme del diritto privato con il cittadino, non deve portare ad una riduzione di tutele. è dato, cioè, giungere ad una nozione sostanziale non solo di pubblica amministrazione, ma anche di potere amministrativo.

A ben vedere, del resto, lo stesso dato letterale dell’art. 7 c.p.a. non si opporrebbe (ed anzi, si presterebbe) ad un simile sviluppo: quest’ultimo potrebbe, quindi, intervenire anche in via di interpretazione costituzionalmente orientata (nonché pienamente coerente con il canone dell’effettività, secondo i principi del diritto europeo, di cui all’art. 1 c.p.a.). All’art. 7 cit. si ricomprende, difatti, nel concetto di pubblica amministrazione anche il soggetto equiparato alla pubblica amministrazione e comunque chiamato al rispetto dei principi sul procedimento amministrativo. Ma, come si è detto, ex art. 6 CEDU, come ben testimoniato dal caso Wos, le pubbliche amministrazioni in senso funzionale sono chiamate al rispetto delle regole del giusto procedimento ove, in qualunque forma (anche apparentemente privatistica), determinino diritti civili o infliggano sanzioni afflittive e quindi di natura penale (altra questione è, poi, che la mancata realizzazione procedimentale delle garanzie, ex art. 6 CEDU, sia correggibile ex post, grazie al giusto processo di full jurisdiction: ciò non esclude che l’art. 6 CEDU imponga anzitutto e primariamente una tutela nel procedimento amministrativo). Ed allora, la nozione funzionale CEDU di autorità pubblica pare in grado di attrarre – in relazione alla funzione amministrativa incidente sul campo del civile e del penale come autonomamente intesi in sede CEDU – un dovere di conformarsi al canone del giusto procedimento e, con ciò, di chiamare in causa, ex art. 7 c.p.a., la giurisdizione amministrativa. Non è un caso che in dottrina si sia già affacciata la tesi per cui l’art. 7 cit. finirebbe per sconfessare il criterio del necessario possesso di poteri amministrativi, quali formalmente intesi [26].

Infine, non sfugge (ed è di particolare interesse in questa sede) come, alla base dell’attuale riferimento ai soggetti privati nell’art. 7 cit., vi sia l’esperienza anzitutto giurisprudenziale della giurisdizione sugli atti di gara dei soggetti privati: si trattava, a ben vedere, di atti di cui si discuteva l’effettiva appartenenza al diritto pubblico-amministrativo anche sul piano oggettivo, avendo la Cassazione per anni proposto letture secondo lo schema dei concorsi privati. La disponibilità, da parte del Consiglio di Stato e poi anche della Corte regolatrice, a vedervi provvedimenti amministrativi, con conseguente giurisdizione amministrativa, si è manifestata (peraltro dichiaratamente) in ragione delle maggiori garanzie così fornite a privati ricorrenti e alla necessità di evitare operazioni trasformistiche-elusive.

Nell’esperienza delle gare pubbliche (doverosamente) indette da soggetti privati, la circostanza che i soggetti privati, chiamati al rispetto delle discipline sull’evidenza pubblica, contrattino non certo, primariamente, nell’interesse pubblico, ma per realizzare i loro obiettivi economico-imprenditoriali, non è stata ritenuta in alcun modo ostativa.

In altri termini, a fronte di una attività contrattuale di per sé del tutto ordinaria (ed infatti, finalizzata alla conclusione di negozi di diritto privato) nonché perfino diretta, in genere, alla mera massimizzazione degli interessi economici dell’acquirente di beni e servizi, in considerazione della posizione particolare di mercato del soggetto (si pensi a tutto il tema dei settori speciali, caratterizzati proprio dalla mancanza di adeguata concorrenza [27] e della volontà di dare piena attuazione e tutela giurisdizionale alle discipline sull’evidenza pubblica), la gara è stata ed è ricostruita come manifestazione di potere amministrativo, come tale naturalmente ricadente in giurisdizione amministrativa.

A fortiori, quindi, una gara, quale quella doverosamente indetta dalle leghe primariamente in vista dell’interesse generale alla realizzazione della funzione sociale dello sport, potrebbe ambire ad una ricostruzione pubblicistica.


5. Vantaggi di una ricostruzione pubblicistica: la più efficace reazione avverso la violazione delle regole di gara, la tutela del partecipante e la responsabilità delle leghe

Diffusa è, invero, la percezione circa la scarsa effettività della disciplina sulla vendita collettiva dei diritti sportivi.

La stessa AGCM, nel parere 12 settembre 2008, ne ha rilevato la debolezza, specie sotto la prospettiva di un intervento solo ex post e in via sanzionatoria, che non riesce ad impedire la lesione del bene giuridico protetto, viste anche le celeri tempistiche dei campionati [28].

La tutela offerta dalla giurisdizione ordinaria (laddove si preferisca qualificare la gara pubblica indetta dalla lega come una mera manifestazione di potere privato, come tale, al più eventualmente affetto da nullità, ove in violazione delle regole stabile dal d.lgs. 9/2008 [29]) non offre d’altra parte soluzioni adeguate: in particolare, manca al giudice civile una sufficiente gamma di poteri capaci di offrire una tutela reale a fronte di una gara che violi discipline pubblicistiche. Si pensi solo all’importanza essenziale di un’azione di annullamento (e della precedente tutela cautelare) con effetti conformativi e al giudizio di ottemperanza, con la sua portata pienamente sostitutoria. O, ancora, si pensi all’azione di adempimento, da tempo codificata proprio nel settore della gare pubbliche (ove l’art. 124, comma 1, c.p.a., parla di «domanda di conseguire l’aggiudi­cazione e il contratto»).

Ebbene, la possibilità di una azione giurisdizionale di tipo costitutivo-eliminatorio (capace, quindi, di offrire una tutela in forma specifica), preceduta dalla penetrante tutela cautelare propria dell’esperienza giurisdizionale amministrativa e seguita dall’a­zione di ottemperanza, potrebbe offrire un importante strumento di garanzia, assieme, del ricorrente e dell’effettività delle norme ad evidenza pubblica qui in questione.

Ed ancora, se già si è visto come, ex art. 7 c.p.a., la natura privata delle leghe non osti affatto alla riconduzione dei relativi atti alla giurisdizione amministrativa di legittimità (essendo queste ultime comunque qualificabili come amministrazioni pubbliche, ai fini del Codice di rito), va, altresì, ancora sottolineato come da tempo la giurisdizione amministrativa si occupi, peraltro in via esclusiva (ex art. 133, comma 1, lett e), c.p.a.), del contenzioso su gare pubbliche, pur ove anche (doverosamente) indette da soggetti privati. Nulla di così strano, dunque, ad immaginare un’estensione di tale giurisdizione anche verso questa altra ipotesi di gara pubblica ex lege.

Tanto più che, come più volte notato, le leghe sono, ex lege, delegate dalle federazioni a «l’organizzazione della competizione da parte della federazione sportiva riconosciuta dal Comitato olimpico nazionale italiano, competente per la rispettiva disciplina sportiva» (e, di conseguenza, alla commercializzazione in forma di gara dei relativi diritti audiotelevisivi). Ebbene, se gli atti pubblicistici delle federazioni sono impugnabili avanti al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, ex art. 133, comma 1, lett. z), c.p.a. [30], sembra lecito interrogarsi perché lo stesso non potrebbe valere (in via di interpretazione correttiva, al fine di assicurare la ragionevolezza del sistema) per gli atti delle leghe loro delegatarie.

Una ricostruzione nel segno del diritto amministrativo e delle sue forma specifiche di tutela non indirizzerebbe, però, solo verso una migliore realizzazione del diritto costituzionale di azione e, con ciò, verso una più efficace reazione avverso le violazioni del d.lgs. n. 9/2008.

Una volta riconosciuta l’esistenza di un potere amministrativo che mira ad un virtuoso bilanciamento tra interessi concorrenziali ed interessi sociali, risulterebbe, invero, più facile e direi naturale per le leghe procedere attraverso un trasparente percorso motivazionale che delinei una certa interpretazione delle situazioni di fatto e delle specifiche esigenze di intervento. In sostanza, si potrebbe far valere, secondo la definizione oggi accolta di discrezionalità amministrativa, la complessità ed ampiezza degli interessi pubblici da contemperare, così da giungere alla determinazione di un interesse pubblico concreto.

Ciò potrebbe ragionevolmente riflettersi anche sul piano delle responsabilità antitrust [31].

è vero che la nozione di impresa, ai fini del diritto della concorrenza, è allo stesso tempo incerta ed ampia, fino a ricomprendere anche soggetti pubblici nell’esercizio di attività economiche.

Tuttavia, a ben vedere, l’intero diritto degli appalti nasce dalla idea che la concorrenza nei contratti pubblici debba tendenzialmente realizzarsi con una disciplina ad hoc, che prescinde dalle pure regole concorrenziali a favore di procedimenti amministrativi che seguono finalità più complesse, ossia di interesse pubblico come contrapposto al diritto al perseguimento della massimizzazione del proprio interesse economico; è a questo modello e a questo assetto di interessi e responsabilità che occorrerebbe avvicinarsi, recuperando, cioè, la contrapposizione tra soggezione all’evidenza pubblica (e cioè creazione di un mercato artificiale che segue delle sue proprie regole) ed invece realizzazione di una concorrenza nel mercato [32].

Sul punto, del resto, non può non citarsi quella giurisprudenza della Corte di giustizia che esclude dalla nozione di impresa quei soggetti (pubblici o semipubblici) che acquistino, tramite gare, beni e servizi per finalità solidaristiche [33]. Anche le leghe sportive intervengono tramite gare nel mercato. E lo fanno, essenzialmente, per perseguire finalità di finanziamento del carattere sociale dello sport. Questa finalità di carattere solidaristico-generale-pubblicistico, dunque, una volta adeguatamente valorizzata, potrebbe incidere sulla stessa qualificabilità come imprese, e, pertanto, sulla astratta assoggettabilità al diritto della concorrenza.


6. Conclusioni

Insomma, pur con tutte le incertezze che indubbiamente circondano la complessa (ed anfibia) materia, sembra ipotizzabile ed anzi preferibile una ricostruzione in senso pubblicistico della gara e, di conseguenza, dei relativi strumenti di tutela.

In questo modo, l’attenzione alla funzione sociale dello sport, che spiega l’approc­cio flessibile e compromissorio alla tutela della concorrenza in materia, troverebbe più solide e coerenti ragioni giuridiche.

Invero, il richiamo (in sede di Unione Europea) alla deroga all’applicazione del­l’art. 101, par. 3, Tfue [34], relativa agli accordi che «contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico» appare – significativamente – poco centrato [35]: qui non si tratta di perseguire il progresso tecnico o economico, ma semmai di contemperare diversi interessi collettivi, in ragione del rilievo generale e sociale (in altri termini, pubblicistico) del fenomeno sportivo, visto nella delicatissima fase del suo finanziamento.

Un’opzione pubblicistica, invece, non solo apparirebbe più aderente al dato sostanziale e alle reali esigenze solidaristiche e di promozione sociale, alla base del sistema di vendita collettiva tramite gara, ideato a livello europeo e poi prescelto dal legislatore italiano, ma altresì, mi pare, più capace di offrire efficaci percorsi di intervento e tutela per i vari attori ed interessi coinvolti.


NOTE

* Il presente Contributo è tratto dalla Relazione presentata in occasione del Convegno «Sport e Mercato. La sentenza Bosmann vent’anni dopo», tenuto presso il salone d’Onore del CONI l’11 maggio 2016.

[1] Per più generali riflessioni sulla disciplina relativa alla vendita dei diritti sportivi, si segnalano F. Ferraro, Considerazioni sulla compatibilità della normativa italiana sui diritti di trasmissione degli eventi sportivi con il diritto comunitario, in AIDA, 2008, p. 169 ss.; G. Olivieri, La nuova disciplina del calcio «guardato» tra concorrenza e regolazione, in AIDA, 2008, p. 154 ss.; D. Sarti, Gestione individuale e collettiva dei diritti su eventi sportivi, in AIDA, 2008, p. 118 ss. e V. Zeno-Zencovich, La statalizzazione dei “diritti televisivi sportivi”, in Dir. informatica, 2008, p. 695 ss.

Per un ampio contributo informativo, E. Morelli, I diritti audiovisivi sportivi, Milano, 2012

[2] Art. 2, comma 1: «Ciascuna società di calcio di serie A e di serie B è titolare dei diritti di trasmissione televisiva in forma codificata».

Secondo D. Sarti, op. cit., p. 121, la norma, pur espressamente riferita al solo settore del calcio, sarebbe stata espressiva di un principio generale, valevole per ogni manifestazione sportiva.

[3] D. Sarti, op. cit., p. 140.

[4] Sul tema cfr., essenzialmente, in Italia, S. Bastianon, Sport, antitrust ed equilibrio competitivo nel diritto dell’Unione Europea, in Dir. Un. Eur., 2012, p. 485 ss. e, nella lettura internazionale, l’ampia analisi comparata svolta da L. Farzin, On the Antitrust Exemption for Professional Sports in the United States and Europe, in 22 Jeffrey S. Moorad Sports L. J. 75 2015 ed il contributo di B. Van Rompuy, Role of EU Competition Law in Tackling Abuse of Regulatory Power by Sports Associations, 22 Maastricht J. Eur. & Comp. L. 179 (2015).

In particolare, secondo la Corte Suprema, 468 US 85, 101 (1984), National Collegiate Athletic Association v. Board of Regents of University of Oklahoma, le leghe costituirebbero «perhaps the leading example» di attività economiche che «can only be carried out jointly».

[5] Decisione 23 luglio 2003: 2003/778/CE, relativa ad un procedimento a norma dell’articolo 81 del trattato CE e dell’articolo 53 dell’accordo SEE (COMP/C.2-37.398 – Vendita congiunta dei diritti della UEFA Champions League).

[6] Decisione 22 marzo 2006, 2008/C 7/10, relativa ad un procedimento ai sensi dell’art. 81 del trattato CE (Caso COMP/38.173 – Vendita congiunta dei diritti di trasmissione relativi alla FA Premier League).

[7] Decisione 19 gennaio 2005, 2005/396/CE, in un procedimento ai sensi dell’art. 81 del trattato CE e dell’art. 53, par. 1, dell’accordo SEE [Caso COMP/C-2/37.214 – Vendita congiunta dei diritti mediatici relativi al campionato di calcio tedesco (Bundesliga)].

[8] Ritiene peraltro di dubbia compatibilità con il diritto dell’Unione il Sistema accentrato di cui al d.lgs. n. 9/2008, arrivando a ritenere violato il divieto di porre nelle condizione dei privati di violare il diritto antitrust nonché le libertà economiche pattizie, F. Ferraro, op. cit., spec. p. 176 ss.

[9] Per approfondimenti, H. Quane, The Strasbourg jurisprudence and the meaning of a “public authority” under the Human Rights Act, in Publ. Law, 2006, p. 106 ss., spec. p. 121, ove si legge che «However, the case law suggests, at the very least, that where a body is involved in the discharge of the state’s obligations under the Convention then it should be regarded as a public entity when performing those functions. In terms of its powers, the cases suggest that where the body exercises coercive or special powers (such as monopoly powers) or powers involved in the discharge of Convention obligations then the body may be regarded as a public entity».

Mi permetto, inoltre, di rinviare, per una trattazione generale della nozione di soggettività pubblica anche in relazione agli spunti offerti dalla CEDU, a F. Goisis, voce Ente pubblico, in Enc. dir., Annali, vol. VII, Milano, 2014, p. 411 ss., spec. p. 418 ss.

[10] Corte eur. dir. uomo, decisione 1 marzo 2005, ricorso n. 22860/02, Wos c. Polonia, § 73.

[11] Corte eur. dir. uomo, sent. 8 giugno 2006, ricorso n. 22860/02, Wos v. Polonia, § 73.

[12] Tanto che, ad es., nella successiva sentenza Corte eur. dir. uomo, sent. 18 maggio 2010, ricorso n. 25168/05, Czekien v. Polonia, § 36, resa in relazione alla stessa fondazione, espressamente si ricorda che «Article 6 § 1 requires that in the determination of civil rights and obligations, decisions taken by administrative or other authorities which do not themselves satisfy the requirements of that Article be subject to subsequent control by a judicial body that has full jurisdiction».

[13] Corte eur. dir. uomo, sez. V, 26 novembre 2015, caso n. 24213/08, Basenko v. Ukraine, § 79.

[14] Sent. 13 giugno 1958, in causa 9/1956, Meroni v. Alta Autorità, in Raccolta, p. 13 ss. Vedi anche la controversia “parallela”, sent. 13 giugno 1958, in causa 10/1956, in Raccolta, p. 53 ss.

Tale giurisprudenza, pur resa nell’applicare la disciplina CECA, è ancora oggi richiamata dalla Corte di Giustizia, quale leading case in tema di delega di poteri. Cfr., da ultimo, Corte eur. giust., Grande Sezione, 5 maggio 2015, in causa C-147/13, Regno di Spagna c. Consiglio dell’Unione europea.

Per una sintesi dell’analogo approccio rinvenibile nella giurisprudenza e dottrina tedesca, cfr. E. Lohse, Fundumental Freedoms and Private Actors – towards an ‘Indirect Horizontal Effect’, in Eur. Publ. Law, 13, 2007, p. 159 ss., spec. p. 168: «It is unanimously assumed that fundamental rights bind the ‘private’ actors, as the state must not ‘abandon’ its obligations by delegation or the choice of the organizational form».

[15] Art. 4, del d.lgs. n. 9/2008.

[16] V. Zeno-Zencovich, op. cit., che parla, conclusivamente, di una disciplina che «è il frutto dell’in­crocio fra la concezione statalista (lo Stato illuminato sa come governare la società e gestire le società) e la teorizzazione della singolarità del fenomeno sportivo, così radicata nella cultura giuridica italiana».

[17] Preoccupazioni quanto al possibile conflitto di interessi delle leghe sono espressi da G. Olivieri, op. cit., p. 161 ss., che ritiene sotto questo profilo preferibile la originaria proposta della AGCM di affidare la gestione dei diritti ad un soggetto terzo e da F. Ferraro, op. cit., p. 183.

[18] Nel respingere la ricostruzione come atti amministrativi bilaterali dei provvedimenti accrescitivi della sfera giuridica del destinatario, osserva, difatti, F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., pp. 87-88, che «nei rapporti di diritto pubblico uno dei termini, e cioè lo stato, non è più costituito da una serie di interessi concorrenti: trattandosi invece di un ente unico, che offre vantaggi ed utilità materiali e morali, che nessun altro potrebbe offrire, lo stato può in un certo senso considerarsi come un monopolista. La coercizione che deriva dal monopolio è anche rafforzata dalla possibilità in cui lo stato almeno in astratto si trova di usare la coercizione fisica per porre in essere a suo profitto quegli stessi rapporti che ora consideriamo volontari …».

[19] E. Lohse, Fundumental, cit., p. 178, osserva, con riguardo alle federazioni sportive, che esse posseggono «the monopolistic power to enact collective, compulsory rules for all persons involved in the particular professional sport, which distinguishes them from individual volontary agreements» e con ciò razionalizza la giurisprudenza comunitaria che impone ad esse il rispetto dei principi «verticali» del Trattato.

[20] Sent. 15 dicembre 1995, in causa C‑415/93, Bosman, cit., punto 82.

[21] Così K. Foster, Can sport be regulated by Europe?: an analysis of alternative models, in Professional Sport in the European Union: Regulation and Re-regulation, edited by A. Caiger e S. Gardiner, L’Aia, 2000, p. 43 ss., p. 53, che spiega gli interventi comunitari (in particolare la sentenza Bosman) sulla base della circostanza che «sports federations are monopoly regulators of sports and so potentially have a dominant position over the sports».

[22] Così, Relazione della Commissione al Consiglio Europeo, nell’ottica della salvaguardia delle strutture sportive attuali e del mantenimento della funzione sociale dello sport nel quadro comunitario, Com. 1999/644., c.d. Rapporto d’Helsinki sullo Sport, par. 4.2.3.

Per un commento, S. Weatherill, The Helsinki Report on sport, in Eur. Law Rev., 2000, 25, p. 282 ss.

Per una riflessione critica sulla compatibilità di tale assetto con alcuni principi comunitari, però, S. Weatherill, Is the Pyramid Compatible with EC Law?, in The Intern. Sports Law Journ., 3-4/2005, p. 3 ss., che ritiene esserci «in principle rich potential for EC law to be used to provoke a fresh process of change if not revolution in European sport and, in particular, to reduce the size of the pyramid» (7).

[23] Mi permetto di rinviare, sul punto, a F. Goisis, La giustizia sportiva tra funzione amministrativa ed arbitrato, Milano, 2007, spec. p. 90 ss.

[24] F. Goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004, p. 367 ss.

[25] Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204.

[26] Così, criticamente in ragione di un ipotizzato conseguente difetto di delega, N. Paolantonio, Commento all’art. 7, in R. Garofoli, G. Ferrari (a cura di), Codice del processo amministrativo, Roma, 2010, p. 75 ss., p. 85.

[27] Rinvio sul punto a F. Goisis, La giustizia, cit., p. 136 ss.

[28] Parere AS475, in Bollettino n. 34/2008: «L’esperienza tratta dalla prima applicazione delle norme previste dal Decreto Legislativo n. 9/2008, in occasione della vendita da parte della Lega Calcio di alcuni diritti sportivi, ha messo in evidenza la sussistenza di elementi di criticità e di incertezza, idonei a compromettere il corretto esplicarsi della concorrenza nell’acquisizione dei diritti audiovisivi e a vanificare, quindi, gli obiettivi che il Decreto intende perseguire. Di fatto, ai partecipanti alle procedure competitive non sono state assicurate condizioni di assoluta equità, trasparenza e non discriminazione, con l’effetto peraltro di non consentire ad alcuni operatori l’acquisizione di parte dei diritti in questione, non essendo stata data attuazione alle previsioni di cui all’articolo 11, comma 3, del Decreto Legislativo, richiamate nelle linee guida approvate dall’Autorità. A fronte di procedure di assegnazione dei diritti concluse nell’immediata prossimità dell’inizio delle competizioni sportive, il riscontro delle sopradescritte irregolarità attraverso l’esercizio dei poteri previsti dalla legge n. 287/90 e richiamati dall’articolo 20 del Decreto Legislativo n. 9/2008, non può che avvenire a campionati già iniziati, e quindi in un contesto in cui le assegnazioni hanno già avuto effetto sia nei confronti degli operatori della comunicazione che dei consumatori. Per contemperare l’effettività e la tempestività dell’intervento dell’Autorità in materia con l’esigenza di certezza per il mercato sull’esito delle procedure di assegnazione, è necessario che la vendita congiunta dei diritti sportivi, rappresentando una deroga ex lege alla disciplina antitrust, si inquadri in una complessiva disciplina idonea ad assicurare il rispetto, da parte dei soggetti coinvolti, del Decreto Legislativo n. 9/2008 e delle linee guida, come approvate dall’Autorità».

[29] Si pensi alla sentenza del Trib. Milano, 24 maggio 2010, n. 5399, in tema di pretesa invalidità degli atti della Lega Calcio con cui si era individuato l’aggiudicatario della gara sui diritti per la trasmissione del campionato di calcio.

[30] Il quale parla di «controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti».

[31] Sul tema, da ultimo, V. Falce, Diritti Tv del Calcio, possibile accordo anti-concorrenziale, in questa Rivista, ed. on line.

[32] Sul punto, sia consentito il rinvio a F. Goisis, L’art. 33 del D.lgs. 80/1998 e la giurisdizione amministrativa sulle gare di appalto indette da società miste locali: alcuni argomenti a favore di una loro qualificazione come imprese (pubbliche), in Dir. proc. amm., 1998, p. 201 ss., spec. p. 232 ss.

[33] Cfr., in particolare, Corte eur. giust., Grande Sezione, 11 luglio 2006, in causa C-205/03 P, Federación Española de Empresas de Tecnología Sanitaria (FENIN) c. Commissione delle Comunità europee, punti 26-27: «al fine di valutare la natura di tale attività di acquisto, non si deve separare l’attività di acquisto del prodotto dall’utilizzo successivo che ne è fatto, e che il carattere economico o non economico dell’utilizzo successivo del prodotto acquistato determina necessariamente il carattere dell’attività di acquisto. Ne consegue che deve essere respinta, in quanto infondata, la prima parte dell’unico motivo portato dalla FENIN a sostegno della propria impugnazione, secondo la quale l’attività di acquisto degli enti di gestione dell’SNS è un’attività economica in sé, separabile dal servizio erogato successivamente ad essa, la quale avrebbe dovuto essere considerata separatamente dal Tribunale».

[34] «3. Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili: – a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese, – a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese, e – a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate, che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di: a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi; b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi».

[35] Per l’osservazione per cui, nell’Unione Europea, la giustificazione della flessibilità del diritto della concorrenza nei confronti del fenomeno sportivo non appare particolarmente ben motivata sul piano normativo, L. Farzin, op. cit., spec. p. 75 ss.