Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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La vittoria dello sport sui fanatismi religiosi (di Stefano Bastianon,  Professore associato di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Bergamo.)


In this judgment the European Court of Human Rights was asked to decide whether mandatory genders mixed swimming for girls against the will of their Muslim parents who objected on religious grounds violated Article 9 of the European Convention on Human Rights on religious freedom. In its judgment the European Court held that there had been no violation of Article 9 (freedom of thought, conscience and religion) of the Convention, finding that by giving precedence to the children’s obligation to follow the full school curriculum and their successful integration over the applicants’ private interest in obtaining an exemption from mixed swimming lessons for their daughters on religious grounds, the Swiss authorities had not exceeded the considerable margin of appreciation afforded to them in the present case, which concerned compulsory education.

SOMMARIO:

1. Una premessa - 2. Il caso Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera - 3. L’esistenza di un’ingerenza nel diritto sancito dall’art. 9 della Convenzione - 4. L’esistenza di un’eventuale giustificazione - 5. Una riflessione finale - NOTE


1. Una premessa

Che cosa accomuna la libertà di religione, vero e proprio diritto fondamentale del­l’uomo, e lo sport, il più delle volte considerato un semplice svago, se non addirittura una mera perdita di tempo? Apparentemente nulla: troppo lontana nel tempo, infatti, è l’immagine dei Giochi olimpici dell’antichità, vera e propria «espressione della religiosità del popolo greco» ed «occasione rituale e al contempo agonistica in cui la vittoria ad una gara costituiva un punto di contatto tra l’atleta e la divinità, oltre che preghiera ed ossequio del vincitore» [1]. Tuttavia, se ci si sforza di non farsi influenzare dai troppi luoghi comuni che circondano lo sport e si riesce ad accettare l’idea che accanto a forme di apprendimento formale esistono anche forme di apprendimento informale e non formale e che tra queste ultime ben può essere annoverato lo sport [2], ecco allora che la pratica sportiva, letta attraverso la lente dell’apprendimento permanente (formale, informale e non formale), si trasforma in un elemento che a pieno titolo si inserisce nel quadro dell’educazione e dell’istruzione. E come noto, anche il diritto all’istruzione, al pari della libertà di religione, costituisce un diritto fondamentale dell’uomo [3]. Spostando l’orizzonte un po’ più avanti, inoltre, sembra possibile ravvisare in diversi strumenti del diritto internazionale una chiara volontà di qualificare direttamente lo sport come un diritto fondamentale. In primo luogo, l’art. 24 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che sancisce che ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago; in secondo luogo, l’art. 1 della Carta internazionale dell’educazione fisica e dello sport (UNESCO) riconosce che la pratica dell’educazione fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti; in terzo luogo, l’art. 29 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’adole­scenza prevede che gli Stati Parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità; infine, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità [continua ..]


2. Il caso Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera

I fatti che hanno portato la Corte europea di Strasburgo a pronunciarsi nel caso Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera sono abbastanza semplici [8]. I signori Osmanoğlu e Kocabaş sono due cittadini svizzeri, di origine turca, con doppia nazionalità, fedeli seguaci della religione musulmana, da diversi anni residenti in Svizzera e genitori di tre figlie rispettivamente di nove, sette e due anni all’epoca dei fatti. Le prime due figlie frequentano una scuola che prevede, all’interno del percorso formativo, l’obbligo di frequentare un corso di nuoto misto, vale a dire cui partecipano studenti di entrambi i sessi. Sul presupposto che il loro credo religioso non consentiva ai due genitori di permettere che le loro figlie partecipassero ad un corso di nuoto misto, hanno chiesto che le proprie figlie venissero dispensate dall’obbligo di frequentare il corso di nuoto. Di fronte al rifiuto opposto dalle autorità scolastiche, i due genitori hanno denunciato l’illegittima ingerenza dello Stato elvetico rispetto alla libertà di religione così come sancita e tutelata dall’art. 9 della Convenzione sui diritti dell’uomo. Come noto l’art. 9 della Convenzione è composto da due commi: in base al primo, «ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti»; in base al secondo, invece, «la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui». In linea con tale struttura dell’art. 9 della Convenzione la pronuncia della Corte affronta, dapprima, la questione relativa all’esistenza di un’in­ge­renza nell’esercizio del diritto alla libertà di religione e, successivamente, la questione relativa all’eventuale giustificazione di tale ingerenza.


3. L’esistenza di un’ingerenza nel diritto sancito dall’art. 9 della Convenzione

Quanto al primo aspetto, la Corte non incontra particolari difficoltà nel riconoscere nel caso di specie l’effettiva esistenza di un’ingerenza nel diritto sancito dall’art. 9 della Convenzione. Secondo la Corte, infatti, le credenze religiose dei due genitori impedivano loro di permettere alle loro figlie di partecipare ad un corso di nuoto misto, a nulla rilevando il fatto che il Corano prescriva l’obbligo di coprire il corpo femminile soltanto a partire dalla pubertà. Infatti, come sostenuto dai genitori, ed accolto dalla Corte, questi ultimi erano tenuti a preparare le loro figlie al rispetto dei precetti che in seguito le figlie avrebbero dovuto seguire. Rilevato, altresì, che in base al diritto svizzero i due genitori erano titolari della potestà parentale e che, pertanto, potevano disporre dell’educazione religiosa delle proprie figlie, la Corte ha concluso nel senso che il mancato rilascio di una dispensa dall’obbligo di frequentare il corso di nuoto aveva determinato in capo ai genitori un’ingerenza nell’esercizio del diritto alla libertà di religione sancito dall’art. 9.


4. L’esistenza di un’eventuale giustificazione

Più articolato, ma non per questo meno convincente, si rivela il ragionamento della Corte relativo all’esistenza di un’eventuale giustificazione a tale ingerenza consentita dal comma 2 dell’art. 9. Liberato il campo da ogni possibile dubbio circa il fatto che la giustificazione in parola non fosse «prevista dalla legge» (in considerazione sia del fatto che l’art. 62 della Costituzione elvetica prevede l’obbligatorietà dell’insegna­mento scolastico di base, sia che la legge scolastica cantonale prevede che l’educa­zio­ne fisica costituisca parte integrante dei corsi obbligatori, sia infine che il piano di studi cantonale, approvato dal Consiglio di Stato, stabilisce che il nuoto costituisce parte integrante dell’insegnamento obbligatorio dell’educazione fisica e dello sport), la Corte analizza le altre due, e ben più significative, condizioni poste dal comma 2 del­l’art. 9: vale a dire, l’esistenza di uno scopo legittimo dell’ingerenza e la necessità di tale ingerenza nel più vasto contesto di una società democratica. Per quanto concerne il tema dello scopo legittimo, i due genitori hanno sostenuto in corso di causa che il mancato rilascio della richiesta dispensa dal corso di nuoto misto per le loro due figlie non poteva in alcun modo essere giustificato sulla base di un motivo legittimo. In primo luogo, in quanto la mancata partecipazione ad un siffatto corso di nuoto non era di per sé sufficiente a restringere la formazione impartita sino al punto da incidere sul principio dell’eglité des chances delle due ragazzine, posto che queste ultime avrebbero potuto tranquillamente completare il corso di studi, ottenere il diploma e proseguire negli studi superiori; in secondo luogo, in quanto, pur riconoscendo l’importanza dell’in­tegrazione dei soggetti stranieri nella società elvetica, non sussiste alcun legame diretto ed immediato tra quest’ultima e la partecipazione delle due ragazzine ad un corso di nuoto misto. E ciò in quanto: a) i due genitori, pur non avendo mai frequentato un corso di nuoto misto in Svizzera, erano certamente perfettamente integrati nella società elvetica, della quale rispettavano l’ordine giuridico; b) le due ragazzine frequentavano un corso di nuoto privato, riservato al solo genere femminile, presso un’altra [continua ..]


5. Una riflessione finale

Al netto delle considerazioni della Corte – di cui si è dato conto – nella vicenda in questione, il caso posto all’attenzione dei giudici di Strasburgo consente qualche riflessione di più ampio respiro. Dai fatti di causa emerge che le due ragazzine frequentavano privatamente un corso di nuoto riservato al solo genere femminile. Segno evidente che i genitori avevano compreso l’importanza di permettere alle loro figlie di praticare sport. E questa è già una bella notizia. Ma allora, se l’importanza dello sport non è in discussione, se la scuola aveva previsto che le due ragazzine potessero indossare il burkini e cambiarsi e lavarsi in locali separati da quelli utilizzati dai compagni di sesso maschile, che cosa può aver davvero spinto i genitori ad insistere affinché le proprie figlie non partecipassero ad un corso di nuoto misto? Evidentemente soltanto il fatto di evitare qualsiasi contatto, fisico o anche solo visivo, con i compagni di scuola dell’altro sesso in un contesto come quello di una piscina [9]. Sennonché, è facile osservare che in un simile atteggiamento sembra più celarsi un’ingiustificata paura per ciò che viene percepito come diverso, che non un vero imperativo imposto dal credo religioso. Tutti coloro che hanno una minima dimestichezza con lo sport sanno perfettamente che quest’ultimo parla una lingua universale. Non importa che l’arena sportiva sia una piscina, una pista di atletica o un percorso di ultra-trail: ovunque l’essere umano è chiamato ad impegnarsi in un’impresa sportiva (dalla più impegnativa alla più elementare come può essere una lezione di nuoto), egli sa che i suoi compagni di avventura non sono né donne né uomini, né diversamente abili né normodotati. Essi sono più semplicemente degli atleti (più o meno bravi). Lo sport, con i sacrifici e le rinunce che comporta, pone tutti gli esseri che lo praticano sullo stesso livello, rendendoli nudi di fronte alla fatica, agli infortuni, alle vittorie e alle sconfitte e per questo assolutamente uguali. In ambito sportivo, aver paura del diverso è un non senso. Come affermato da Nelson Mandela, «lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare. Parla ai giovani in un [continua ..]


NOTE