L’a. si ispira alla lettura dei due recenti volumi collettivi su “Giustizia nello sport” per esaminare l’attuale evoluzione del fenomeno sportivo che, soprattutto nei settori in cui la passione sportiva è diffusa, è organizzato in forma imprenditoriale e “in funzione” dello sfruttamento economico del prodotto audiovisivo. L’evoluzione mette in ombra i problemi tecnici e disciplinari, che sono riservati all’autonomia dei soggetti sportivi, imponendo che la legge statale regoli queste attività che sono sempre meno diverse da quelle messe in atto da un imprenditore comune e in cui gli atleti partecipano nella veste ibrida di sportivi e autori di uno spettacolo in vendita. In relazione alla giustizia sportiva in senso stretto, l’a. evidenzia come la stessa, pur avendo come modello l’organizzazione della giustizia dello Stato, abbia esigenze proprie e caratteristiche che la rendono necessariamente di tipo sommario.
The a. is inspired by the reading of the two recent collective volumes on “Justice in sport” to examine the current evolution of the sporting phenomenon which, especially in sectors where sports passion is widespread, is organized in an entrepreneurial form and “in function” of the economic exploitation of the audiovisual product. Evolution overshadows the technical and disciplinary problems, which are reserved for the autonomy of sports subjects, imposing that state law regulates these activities that are less and less different from those put in place by a common entrepreneur and in which athletes participate in the hybrid guise of sportsmen and authors of a show for sale. In relation to sports justice in the strict sense, the a. highlights how the same, even having as its model the organization of the justice of the State, has its own needs and characteristics that make it necessarily of a summary type.
1. Un’introduzione - 2. Il peso delle ideologie e l’interpretazione della legge n. 280/2003 - 3. Le materie non riservate agli organismi sportivi - 4. Le situazioni giuridiche meritevoli di tutela piena - 5. Sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - 6. Le disposizioni che non piacciono - 7. Sulle diverse opinioni (e sulle differenti ideologie che ne sono a base) - 8. Una crisi di identità - 9. Il contratto di lavoro sportivo - 10. La giustizia degli organi di giustizia sportiva
Paolo del Vecchio, Lucio Giacomardo, Mauro Sferrazza e Ruggero Stincardini (Editoriale Scientifica, 2022) raccolgono in due eleganti volumi – dal titolo La giustizia nello sport – oltre ottanta contributi suddivisi in dodici capitoli che si occupano del tema. Sono più di millecinquecento pagine nelle quali il lettore ha modo di avere compiuta notizia sugli elementi essenziali dell’ordinamento sportivo (cap. I); sul rapporto tra giustizia sportiva e giustizia statale (cap. II); sul nostro sistema di giustizia sportiva (cap. III); sulla giustizia, sulle sanzioni disciplinari della FIGC e sul relativo processo (capp. IV, V, VI e VII); sul processo dinanzi al giudice amministrativo (cap. IX); sull’antidoping (cap. X); sulla giustizia sportiva in ambito internazionale (cap. XI); sulla giustizia degli agenti sportivi (cap. XII). Si tratta, come è evidente, di volumi che vanno consultati e che costituiscono uno strumento di lavoro utilissimo per chi opera nel settore della giustizia sportiva, ma più in generale nel settore dei rapporti giuridici sportivi. Per chi scrive essi sono stati l’occasione per riflettere sul rapporto tra diritto, giustizia e sport. I curatori, in premessa, ricordano che settant’anni fa un processualista, Carlo Furno, affermava la “totale, intrinseca incompatibilità tra sport e diritto”. Era un’idea di stampo decoubertiniano secondo cui lo sport è passione e vive in prevalenza nel mondo dell’irrazionalità. Forse non c’è maniera migliore per coglierne lo “spirito” che ricordare (con Massimo Tita, p. 298) il resoconto di Don DeLillo di un incontro di football (“i Giants ieri hanno perso alla grande e questo è un brutto affare perché una sconfitta schiacciante semina malumore in tutti i quartieri della città…la gente si perde d’animo. È come se morissero in massa”). Tita, non a caso, scrive di competitività e di compatibilità finanziaria in un saggio in cui si evidenzia come la competizione, che esalta lo “spirito sportivo”, richieda particolare attenzione a fare in modo che la prevalenza dei mezzi finanziari non schiacci la competizione. Mi ha intrigato la comparazione tra la maniera di affrontare il problema nella vecchia Europa (degli Stati) e quella ben diversa degli USA (che è una confederazione consolidata): sostanziale [continua ..]
La riflessione dottrinaria è influenzata da opzioni ideologiche. Ho sempre cura di avvertire quali sono le mie. Ritengo che la democrazia liberale, pur con i suoi innegabili limiti e difetti, sia la forma migliore di organizzazione della vita collettiva che siamo stati capaci di darci e ritengo anche che essa viva meglio in un apparato statale che privilegia la comunità rispetto all’istituzione, così che sono indotto a dare maggiore rilievo alle disposizioni della nostra Carta costituzionale che hanno come riferimento la persona e la comunità e tento di tenermi lontano da una lettura della nostra Carta fondamentale soggetta alle pulsioni di una latente statolatria. La mia interpretazione della legge n. 280/2003 è influenzata da questa premessa. Quando leggo nel secondo comma dell’art. 2 che si fanno “salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”, ne desumo (abbandonando qualsiasi dommatismo) che lo Stato: a) ha riconosciuto che il diritto non è tutto statale e che oltre all’ordinamento dello Stato ci sono altri ordinamenti; b) che pertanto tali ordinamenti possono predisporre norme giuridiche; c) che queste norme danno vita a situazioni giuridiche rilevanti all’interno dell’ordinamento di appartenenza; d) che ciò che è rilevante all’interno di un determinato ordinamento può non esserlo o può non esserlo allo stesso modo per altro ordinamento. Ossia: il legislatore del 2003 ha preso atto delle tre parti in cui è diviso il fenomeno sportivo di cui parlava M.S. Giannini e nel fare ciò ha dichiarato che le regole tecniche e le disposizioni disciplinari dello sport sono estranee allo Stato, così lasciandole al potere regolatore degli organismi sportivi. Lo ha fatto per libera scelta o per il carattere originario di quella disciplina? È un problema dommatico di cui non mi interesso, così come non mi intriga sapere che questo diritto non è autosufficiente e non è espressione di sovranità (il cui ambito, peraltro, è relativo e storicamente determinato). Mi basta sapere che c’è un’area di cui lo Stato non si occupa, così che ce ne sono altri che se possono occupare e che di fronte a questi organismi regolatori ci sono soggetti sottoposti, ossia [continua ..]
Le decisioni della Corte costituzionale hanno coperto nella sostanza la disciplina regolatrice dell’attività sportiva in senso stretto. Tuttavia esiste l’ampio settore dell’organizzazione e quello dell’utilizzazione economica dell’attività sportiva nei cui riguardi lo Stato non può ritenersi estraneo. Non lo è neppure il diritto dell’Unione europea, anche se si tratta di competenze deboli e complementari (come si apprende dal saggio di Mastroianni e Ferraro, p. 69 ss.). La misura dell’interesse dello Stato è variabile così come è variabile la misura della sua ingerenza nei meccanismi organizzativi. Il nostro Stato si avvale del CONI, che è “la confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline associative” (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 242/1999). Il CONI (e con lui le Federazioni), secondo lo stesso articolo, è tenuto a conformarsi ai principi dell’ordinamento sportivo internazionale in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi emanati dal CIO, così che, non esistendo un “corpus” di disposizioni che diano vita a un ordinamento sportivo internazionale, è da ritenere che si sia pensato a un diritto che si forma sulla base delle prassi condivise a livello internazionale (qualcosa di simile alla “lex mercatoria”). Dall’art. 2 si trae l’impressione che lo Stato non includa lo sport tra i suoi compiti primari e che, pertanto, si limiti ad esercitare il controllo, nei limiti dell’indispensabile, sull’attività del CONI, essendosi obbligato a rispettare il diritto promanante dalle deliberazioni e dagli indirizzi del CIO. Nei fatti non è così (Sanino, p. 325 s., ci riassume la lunga storia degli interventi dello Stato in materia sportiva). Il d.lgs. n. 242/1999 è stato modificato dal d.lgs. n. 15/2004, il quale all’art. 1 ha stabilito che federazioni e discipline sportive associate, pur avendo personalità giuridica di diritto privato, svolgano la loro attività “anche in considerazione della valenza pubblicistica di specifiche tipologie di attività individuate nello statuto del CONI”. Secondo l’art. 23 dello Statuto del CONI, approvato nel 2004, “hanno valenza pubblicistica esclusivamente le attività delle federazioni sportive nazionali relative all’ammissione e [continua ..]
Lo Stato, che riconosce ampia autonomia agli organi sportivi, dovendo provvedere alla provvista economica, ha diritto di controllare come i soldi vengono spesi. Tutto ciò dovrebbe portare a limitare la “valenza pubblicistica” dell’attività del CONI e delle federazioni e degli altri enti a ciò che comporta diretto impegno di risorse pubbliche. La nostra propensione a “concettualizzare” le forme giuridiche, a dare ad esse consistenza ontologica, ha invece fatto in modo che la prospettiva fosse spostata. La “valenza pubblicistica” dell’attività, da valutare caso per caso, è rifluita sulla natura dell’ente, che è inserito tra i soggetti ai quali si applica la disciplina pubblicistica sostanziale e processuale. Nello sfondo c’è la tendenza (che riaffiora in molti degli interventi raccolti nei volumi) ad inquadrare la disciplina dello sport nell’ambito del diritto amministrativo (o comunque, pubblico), là dove vi è un ambito – quello riservato al potere normativo dei soggetti sportivi – che non può essere aggettivato (né come pubblico né come privato: qui dissento da Clemente di San Luca), e per quanto riguarda gli altri settori l’attribuzione all’una o all’altra branca del diritto statale dipende dalla sussistenza o meno di una valenza pubblicistica (un concetto che si può allargare a fisarmonica) di ciò che viene regolato. Gli atti del CONI, ma non quelli delle federazioni (che dovrebbero essere enti privati), diventano così provvedimenti automaticamente attratti nell’area del diritto amministrativo. Di ciò è frutto l’art. 3 della legge n. 280, che riserva al giudice ordinario soltanto le controversie “sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti”. “Ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle federazioni sportive … è disciplinata dal codice del processo amministrativo”. L’art. 3 aggiunge nel comma successivo che “sono in ogni caso riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo … le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni professionistiche o comunque incidenti sulla [continua ..]
In disparte le controversie in tema di ammissione o di esclusione dei soggetti, resta il problema generale. Per le controversie di cui al primo comma dell’art. 3 il legislatore non parla di legislazione esclusiva. Lascia aperta la possibilità di valutare, caso per caso, se l’attività costituente oggetto della controversia abbia “valenza pubblicistica” oppure è preclusiva della possibilità di tale valutazione. Abbiamo ricordato le discussioni in materia di attività contrattuale. La questione sembra aperta. Del resto non sfuggirà che il legislatore ha creato una giurisdizione esclusiva individuando come destinatari società e associazioni. Un problema di ammissione o di esclusione può anche riguardare le persone fisiche e, in particolare, gli atleti. Nel volume sono ricordate le controversie di Casey e di Pistorius (ad es. a p. 36 s.). Nessuno ha mai dubitato che costoro potessero rivolgersi al giudice statale e, se avessero agito in Italia, non credo che si sarebbe dubitato della competenza del giudice ordinario. Essi, per usare il linguaggio comune, hanno “diritti”; per chi scrive, che, da anticoncettualista, non entifica i concetti (tali sono i diritti, puri prodotti del pensiero umano), hanno interessi, aspettative, bisogni ai quali l’ordinamento riconosce tutela piena (di accertamento, di annullamento e di condanna). Nei casi ricordati il problema riguardava la possibilità che le norme “tecniche” incidano sul pieno e integrale soddisfacimento delle aspettative degli atleti. Infatti la competizione sportiva è confronto tra soggetti che devono essere in posizione paritaria. Non lo è chi si dopa e, per questa ragione, gli ordinamenti sportivi apprestano forme di tutela più o meno efficaci. Ma, paradossalmente, non lo sarebbe l’atleta che dall’uso del supporto tecnico che sopperisce al suo handicap traesse vantaggio nei riguardi di chi non ne ha bisogno. La valutazione del giudice finisce col dipendere dal responso dell’esperto a cui è rimessa. È una casistica che si allunga a dismisura. Le competizioni maschili sono distinte da quelle femminili, perché si dà per presupposta una disparità che altererebbe la competizione. Anche qui si pone il problema nel caso in cui l’atleta, per uno scherzo della natura, ha caratteri per i quali non è facile stabilire [continua ..]
L’art.3 e in parte l’art. 2 non godono della mia simpatia. In applicazione di queste disposizioni gli statuti delle federazioni prevedono il cd. vincolo di giustizia (v. ad es. l’art. 30 dello Statuto e l’art. 34 del codice della FIGC). Non mi soddisfano le finzioni e non ritengo che chi chiede l’ammissione a una qualsiasi federazione o associazione ne accetti liberamente le regole, dal momento che soltanto attraverso l’ammissione è abilitato ad esercitare la sua attività nel mondo sportivo. Il contratto presuppone la libertà dei contraenti; nel nostro caso l’affiliato o l’associato, se vuole esercitare il suo “diritto” all’attività nel mondo dello sport, è costretto ad accettare le regole eteroimposte. Egli non “negozia” l’ingresso nel mondo sportivo, chiede di esservi ammesso in maniera non dissimile da chi fa richiesta di cittadinanza in un Paese diverso da quello di appartenenza originaria. In realtà siamo di fronte a una barriera a difesa dell’autonomia dell’ordinamento sportivo. Esse comportano una compromissione del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. (come sottolinea Terracciano, p. 427). Potremmo escluderla in base a una diversa valutazione. Potremmo, cioè, sostenere che le disposizioni che rendono necessario che l’interessato adisca gli organismi di giustizia sportiva e solo successivamente quelli statali possono essere ricondotte alle ipotesi in cui il legislatore impone a chi agisce fasi preliminari di tipo conciliativo. Sotto questo profilo ci sarebbe, tuttavia, da valutare se c’è proporzione tra il beneficio per gli organismi sportivi e il sacrificio che si impone all’interessato e in questa valutazione rientrerebbero la durata dei procedimenti, i costi e la sufficiente idoneità dei soggetti preposti all’amministrazione della giustizia sportiva. Per quanto riguarda le clausole compromissorie, se non fosse data la possibilità all’affiliato o all’associato di rifiutarle, le riterrei illegittime, in quanto esse sono espressione dell’autonomia privata, comportando l’accettazione di una giustizia privata in sostituzione di quella dello Stato (che interviene soltanto in secondo tempo e con forti limitazioni). Non si è mai dubitato che una rinuncia incondizionata alla tutela giurisdizionale dello Stato sarebbe [continua ..]
Ovviamente la mia valutazione risente della premessa ideologica. È molto diffusa, tra i cultori del diritto privato, che qualsiasi forma di diritto debba essere presa in considerazione alla luce dei valori promananti dalla Costituzione. In questo modo, si finisce inevitabilmente per rinchiudere qualsiasi “forma giuridica” nel guscio dell’ordinamento statale, essendo la Costituzione, per così dire, l’atto riassuntivo dell’intero ordinamento dello Stato. In questa prospettiva, la valutazione dell’autonomia dell’ordinamento sportivo è diversa. Le posizioni di rilevanza e di irrilevanza vengono decise unilateralmente dallo Stato; di conseguenza, le fonti sportive sono inserite nella gerarchia delle fonti dello Stato, in quanto l’ordinamento giuridico non conosce al suo interno altri “ordinamenti” (ancorché derivati), bensì settori normativi integrati da uno o più sistemi nell’insieme ordinamentale unitario e superiore. È questa l’impostazione di fondo del saggio introduttivo dei volumi (di Di Nella, p. 3 ss., dal quale non si discostano molti altri interventi a partire da quello immediatamente successivo di Gambino, p. 61 ss.). È una prospettiva legittima che porta a criticare la giurisprudenza della Corte di cassazione (che ritiene di non potere intervenire nell’ambito dei rapporti tecnici e disciplinari: p. 17) e soprattutto le sentenze della Corte costituzionale cui si imputa “l’incongruente qualificazione in termini di ‘irrilevanza’ per l’ordinamento giuridico dei rapporti dipendenti dalle regole tecniche” (p. 50). La conclusione è coerente con le premesse e, come tale, legittima. Bisogna, però, chiedersi se sia esatto affermare che la valenza pubblicistica, alla quale si dà in questo modo straordinaria importanza, non comporti una nuova “pubblicizzazione” del fenomeno sportivo (p. 35). Dalla mia prospettiva, di democratico liberale, se si vuole evitare un “neo-pubblicismo” in materia sportiva, la via da seguire è quella di limitare la “valenza pubblicistica” dell’attività sportiva nei limiti di ciò che è strettamente necessario. La scelta dipende da opzioni ideologiche.
Il diritto sportivo vive una sorta di crisi di identità. Secondo lo Statuto del CONI i soggetti dell’ordinamento sportivo devono esercitare l’attività con lealtà sportiva “osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive, nonché salvaguardando la funzione popolare, educativa, sociale e culturale dello sport”. Oggi, anche per effetto della possibilità di trasmettere a distanza e contemporaneamente l’evento sportivo, lo sfruttamento economico dello “spettacolo” sportivo diventa in molti casi assorbente. Chi organizza eventi sportivi a livello internazionale è nella sostanza un superimprenditore che si avvale di altri imprenditori, produttori di spettacolo, e l’atleta è sempre meno atleta e sempre più un professionista che rende una prestazione in cambio della mercede. Nulla di nuovo. Basta pensare alla differente maniera in cui fu considerato lo sport nell’antica Grecia e nell’antica Roma. In questo mondo in trasformazione lo sport, soprattutto nelle discipline che catturano l’attenzione di milioni di spettatori, diventa l’occasione per dare vita ad imprese che organizzano spettacoli. E di conseguenza, gli ordinamenti statali e sovrastatali hanno da risolvere il problema della misura in cui è consentito agli operatori sportivi, oramai diventati dei meri imprenditori, di pretendere regole “ad hoc” divergenti da quelle che regolano la comune attività d’impresa. Partiamo dallo sfruttamento in varie forme delle immagini degli eventi sportivi. Vi è il problema di chi abbia diritto alla diffusione e alla riproduzione e di chi possa godere dei relativi proventi. Se ne occupano l’ampio saggio di G. Nava (p. 219 ss.) e quello connesso di Blandini e Cataldi (p. 171 ss.) a cui rinvio. Personalmente sono interessato da un aspetto particolare: la manifestazione sportiva è equiparabile a una qualsiasi forme di spettacolo o è qualcosa di diverso? Se lo sport ha una imprescindibile funzione “popolare, educativa, sociale e culturale” è corretto ridurre l’evento sportivo a una rappresentazione scenica? Il d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9, che disciplina la titolarità e la commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi, rappresenta il tentativo del legislatore di razionalizzare l’ibrido esistente (ne accenna Sannino, p. 331 ss.). [continua ..]
Il caso Bosman è stato un’applicazione del principio per cui la sostanza prevale sulla forma. Ci eravamo abituati a pensare a un “mercato dei calciatori” (un’espressione inelegante, che tradisce le sue origini e che andrebbe dismessa), considerando questi ultimi come una “res” oggetto di scambio (con danaro o con altra “res”). Ce lo ricordano Pessi e Zumbo (p. 157 ss.). La sostanza del rapporto non poteva non emergere e questa sostanza vuole che l’atleta sia una persona che mette a disposizione dell’imprenditore (nel nostro caso, la società di calcio) la sua attività “professionale”. La “compravendita” dei giocatori è, quindi, una semplice cessione di contratto e la società cd. acquirente, con il consenso dell’atleta, semplicemente subentra nel contratto della società cedente. È toccato ai giudici di mettere le cose al loro posto. Ma i giudici hanno guardato e risolto il caso considerando il rapporto tra la società sportiva e l’atleta come un comune rapporto di lavoro. Sarebbe spettato ai protagonisti della vicenda trovare, nella cornice fissata dalla giurisprudenza, una disciplina che tenga conto che la società sportiva non è o non dovrebbe essere semplice produttrice di spettacoli e che l’atleta professionista non è soltanto un lavoratore, ma anche uno sportivo. Limitando il discorso alle sole società professionistiche, la disciplina attuale (legge n. 91/1981, mod. dal d.l. n. 485/1996, conv. nella in legge n. 586/1996: su cui v. E. Indraccolo, p. 95 ss.) ha abrogato l’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività sportiva, salva la previsione di cui all’art. 10, comma 3, per la quale “l’atto costitutivo deve prevedere che una quota parte degli utili, non inferiore al 10 per cento, sia destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva”. È evidente che lo stesso legislatore riconosce che le società professionistiche sono imprenditori che producono spettacoli per ricavare utili. Il legame con il mondo sportivo è dato dal fatto che le manifestazioni sportive sono organizzate dal CONI o dalle Federazioni o, comunque, sotto il loro controllo. Lo statuto del CONI, pertanto, prevede che società e associazioni esercitino le loro attività nel rispetto del principio [continua ..]