Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Risultati e limiti del totalitarismo fascista nello sport: la coesistenza di due sistemi sportivi nell´Italia del ventennio (di Erminio Fonzo, Dottore di ricerca in Storia, Università degli Studi di Salerno)


Una delle principali peculiarità dello sport italiano durante il Ventennio fascista era la coesistenza di due sistemi sportivi. A promuovere lo sport, infatti, vi erano sia le organizzazioni del regime (Opera Nazionale Dopolavoro, Opera Nazionale Balilla, Gruppi Universitarî fascisti, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), che investivano nelle attività atletiche una parte significativa delle loro risorse; sia le società sportive “indipendenti”, messe sotto controllo dalle autorità politiche ma non completamente fascistizzate.

Nel corso degli anni il regime cercò più volte di delimitare le competenze dello “sport fascista” delle organizzazioni e quelle dello “sport ufficiale” delle società “indipendenti”, ma non riuscì mai a trovare una soluzione definitiva. Nella seconda metà degli anni ’20 fu introdotto il principio di far praticare lo sport di massa nelle organizzazioni e far specializzare gli atleti più talentuosi nelle società sportive; dal 1935, invece, il regime si propose di far praticare nelle sue organizzazioni anche una parte delle attività di alto livello. Le società sportive si trovarono in seria difficoltà per la carenza sia di atleti, sia di finanziamenti, e i contrasti con le organizzazioni fasciste furono frequenti.

Tra lo sport “fascista” e lo sport “ufficiale” si sviluppò una sorta di collaborazione competitiva che, in forme e modi diversi, andò avanti per tutto il Ventennio. Tuttavia, il fascismo non portò fino in fondo la totalitarizzazione dello sport e non smantellò completamente le società “indipendenti”.

Results and limits of fascist totalitarianism in sport: the coexistence of two sports systems in the Italy of the ventennio

One of the main peculiarities of Italian sport during the Fascist Ventennio was the co-existence of two sports systems. Sport was promoted by the organizations of the regime (Opera Nazionale Dopolavoro, Opera Nazionale Balilla, Gruppi universitarî fascisti, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), which invested a relevant part of their resources in athletic activities; and by the “independent” sporting clubs, which had been put under the control of the political authorities but not completely fascistized.

Over the years, the regime tried many times to define the competences of “fascist” and “official “sport”, but it never succeeded in establishing clear rules once and for all. In the second half of the Twenties, the regime introduced the principle that the organizations had to promote the mass sport, whereas the sports clubs were charged of the specialization of the athletes; since 1935 this perspective changed and the political authorities decided that also a part of the high-level activities had to be practiced within the fascist organizations. The “independent” clubs found themselves in serious difficulty, for the lack of both athletes and funds, and the contrasts between them and the fascist organizations were frequent.

The relations between “fascist” and “official” sport constituted a sort of competitive cooperation, which, in different forms, went on for the entire Ventennio. However, fascism never brought the totalitarianization of sport to completion and did not disband the “independent” clubs completely.

SOMMARIO:

1. Il fascismo e lo sport - 2. Gli anni di Augusto Turati e la Carta dello sport - 3. La parentesi Giuriati-Scorza e l’ascesa di Achille Starace - 4. Il Rapporto di Firenze e l’«accelerazione totalitaria» - 5. La creazione della Gil e lo sport femminile - 6. Riforme sportive tra il 1939 e il 1942 - 7. Bilancio ed eredità della politica sportiva fascista - NOTE


1. Il fascismo e lo sport

Durante il Ventennio fascista in Italia esistevano due sistemi sportivi, ognuno dei quali promuoveva competizioni e gestiva atleti e squadre. Da un lato vi era lo “sport fascista” delle organizzazioni del regime (Opera nazionale Dopolavoro, Opera nazionale Balilla, Gruppi universitarî fascisti, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), che investivano nelle attività atletiche una parte significativa delle loro risorse; dall’altro lo “sport ufficiale” delle società sportive “indipendenti”, esistenti da prima del regime, che furono messe sotto controllo dalle autorità politiche ma non completamente fascistizzate.

Il rapporto tra i due sistemi sportivi non riguarda solo la storia dello sport, ma interessa le più generali caratteristiche dell’Italia negli anni del fascismo. Infatti, far gestire le attività sportive dalle organizzazioni del partito unico era una misura da Stato totalitario, ma il regime non la sviluppò fino in fondo e fu costretto a tenere conto del sistema sportivo “ufficiale”, che per vari motivi non poteva essere smantellato completamente. Analizzare l’evoluzione dei rapporti tra “sport fascista” e “sport ufficiale”, perciò, consente di gettare luce sulla progressiva totalitarizzazione della società e sui limiti che il fascismo non riuscì a superare nell’edificazione dello Stato totalitario.

Va ricordato, preliminarmente, che durante il Ventennio lo sport divenne un fenomeno di massa. La crescita interessò sia le attività dilettantistico-amatoriali, giacché i cittadini che praticavano attività fisiche aumentarono enormemente, sia lo sport-spettacolo, che raccoglieva sempre più spettatori. La crescita era favorita dal contesto: lo sviluppo della società di massa, della quale la prima guerra mondiale era stata un potente acceleratore, ebbe tra le sue conseguenze la diffusione dello sport, la cui popolarità aumentò in tutto il mondo occidentale. Le politiche del regime, però, diedero un contributo significativo alla diffusione dello sport, incentivando sia le attività dilettantistico-amatoriali, sia lo sport-spettacolo.

Per il fascismo, lo sport aveva varie funzioni. Anzitutto, serviva alla creazione dell’“uomo nuovo”, cioè a fare degli italiani un popolo forte, virile ed erede degno degli antichi romani [1]. Le attività sportive erano fondamentali, sia perché consentivano di migliorare la prestanza fisica, sia perché incidevano sul carattere, facendo sviluppare alle persone, e in particolare ai giovani, doti di abnegazione, coraggio, accettazione del rischio, spirito di competizione, disponibilità a essere permanentemente mobilitate. Le attività sportive, inoltre, contribuivano alla preparazione militare e consentivano di formare soldati migliori. Questo uso dello sport non era nuovo, essendo stato introdotto a livello embrionale sin dall’inizio dell’Ottocento, ma il fascismo ne fece una parola d’ordine di primaria importanza, che la pubblicistica ripeteva ossessivamente.

Lo sport, inoltre, aveva una funzione “nazionalizzante”, essendo capace di far crescere il senso di appartenenza alla nazione e, di conseguenza, al regime, che con la nazione si identificava. Tale funzione era espletata sia dallo sport-spettacolo, grazie all’identificazione degli atleti con il Paese, evidente soprattutto nelle competizioni internazionali; sia dallo sport dilettantistico, perché le gare erano accompagnate quasi sempre dalla celebrazione del culto del littorio.

Per tali ragioni alla metà degli anni ’20, quando fu istituita la dittatura vera e propria, il fascismo iniziò a investire sullo sport ingenti risorse, sia economiche, sia di impegno politico. Più specificamente, le organizzazioni che il regime aveva costituito per “governare” la nazionalizzazione delle masse o per ragioni militari, in particolare l’Opera Nazionale Balilla, i Gruppi Universitari Fascisti, l’Opera Nazionale Dopolavoro e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, cominciarono a dedicare attenzioni crescenti allo sport, promuovendo frequentemente allenamenti e competizioni per i loro iscritti. In origine tali iniziative interessavano solo una minoranza dei membri delle organizzazioni, ma gradualmente la loro importanza aumentò.

In Italia, però, esisteva già un sistema sportivo, composto dalle società “indipendenti” e dalle federazioni nazionali dei singoli sport. Subito dopo la presa del potere, il regime si preoccupò di metterlo sotto controllo mediante l’inserimento di suoi uomini ai vertici di federazioni e società. Già nel 1923 alla presidenza del Coni fu chiamato Aldo Finzi, uno dei più stretti collaboratori di Mussolini. Nello stesso anno alle società sportive fu affidato un compito di primaria importanza, quale l’insegnamento dell’edu­cazione fisica nelle scuole, con la creazione dell’Enef (Ente nazionale educazione fisica), che aveva il compito di selezionare e sovvenzionare le società sportive che fornivano gli istruttori [2].

In sostanza, nella prima metà degli anni ’20 il sistema dello “sport ufficiale” stava andando incontro a una crescita, dovuta sia alle politiche del regime, sia all’evoluzione della società. Esso però dovette presto confrontarsi con lo “sport fascista” delle organizzazioni del regime.


2. Gli anni di Augusto Turati e la Carta dello sport

Tra il 1925 e il 1927 il governo sciolse le associazioni sportive legate ai partiti antifascisti, in particolare quelle di area socialista e, in molti casi, quelle cattoliche. La maggior parte dei sodalizi sportivi italiani, però, apparteneva all’ambito monarchico-costituzionale ed era animata da sentimenti patriottici. Il regime, contrariamente a quanto proponevano alcuni gerarchi, scelse di lasciarli in vita e metterli sotto la propria tutela politica. Essi, però, dovevano convivere con la presenza sempre più invasiva delle organizzazioni fasciste.

La convivenza iniziò negli anni nei quali era segretario del Partito nazionale fascista Augusto Turati (in carica dal marzo 1926 all’ottobre del 1930), al quale, com’è noto, spettò il compito di “normalizzare” il partito, sottraendogli il ruolo di elaborazione della linea politica e trasformandolo in uno strumento per la propaganda, l’educazione e l’irreggimentazione dei cittadini [3]. Nel 1928 Turati, che era un uomo di sport e un valente schermidore, assunse anche la presidenza del Coni.

Il segretario dedicò molti sforzi a incentivare le attività sportive delle organizzazioni fasciste. Le attenzioni maggiori erano rivolte ai Guf, perché gli studenti universitari erano una delle categorie più interessate allo sport e, soprattutto, perché il fascismo si aspettava che dal loro interno emergesse la nuova classe dirigente del Paese, per formare la quale lo sport era considerato essenziale. Dal 1925-1926 i Guf cominciarono a promuovere attività sportive per i loro iscritti e istituirono i campionati universitari di varie discipline. Il numero di studenti che facevano sport aumentò progressivamente e i Guf più grandi istituirono sezioni sportive per le discipline più popolari [4]. Gli studenti sportivi, tuttavia, erano una minoranza del totale.

Il caso dell’Opera Balilla – che non dipendeva dal Pnf, ma dal Ministero del­l’Educazione nazionale – era, almeno in parte, diverso perché il suo presidente, Renato Ricci, era contrario allo sport agonistico e prediligeva le attività non competitive. Tuttavia, anche l’Onb nel corso degli anni organizzò frequentemente attività sportive, che per i Balilla (da 6 a 14 anni) comprendevano soprattutto ginnastica e attività non competitive, ma per gli avanguardisti (cioè gli adolescenti tra 14 e 17 anni) prevedevano anche le competizioni.

La Milizia, a sua volta, promuoveva la pratica dello sport tra i suoi membri, giacché le attività fisiche erano considerate essenziali per migliorare la preparazione militare. La disciplina nella quale la Milizia si distinse maggiormente negli anni ‘20 era il ciclismo, che i comandanti incentivavano perché la bicicletta era un mezzo assai utile per motivi pratici, consentendo il rapido spostamento dei reparti. Da questo nacque l’interesse per il ciclismo sportivo, che portò la Milizia a costituire squadre che prendevano parte alle principali competizioni nazionali, compreso il Giro d’Italia, al quale fornirono numerosi corridori (circa un terzo dei 317 partecipanti totali nel 1927). Turati promosse anche la stipula di un accordo tra la Milizia e la federazione nazionale del ciclismo, l’Unione velocipedistica italiana, in base al quale la federazione riconosceva l’impegno delle camicie nere e si impegnava a istituire nelle sue gare classifiche apposite per loro. I risultati agonistici erano prestigiosi: nel 1927 un milite si classificò primo alla Milano-Sanremo e nel 1928 altri due fecero parte della squadra che vinse una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam. Tuttavia la Milizia, più che far emergere corridori competitivi dai suoi membri, reclutava ciclisti già iscritti alle società “indipendenti” e li faceva gareggiare sotto le proprie insegne. I dirigenti sportivi e politici non apprezzavano tale prassi, criticata anche sulla stampa, e nel 1928 la Milizia fu costretta a cessare il suo impegno nel ciclismo [5]: negli anni ’20 le organizzazioni fasciste non avevano ancora la forza per opporsi allo “sport ufficiale”, soprattutto in una disciplina professionistica come il ciclismo.

Fatto sta che le tensioni provocate dalla coesistenza di “sport fascista” e “sport ufficiale” erano già evidenti e dal 1927 il regime si rese conto della necessità di cercare un coordinamento tra i due sistemi.

La prima mossa fu quella di porre il Coni sotto un controllo più stretto. Nel 1927 il Comitato fu dotato di un nuovo statuto, che riconosceva alle organizzazioni del regime il diritto di nominare un proprio rappresentante nel consiglio direttivo [6]. Turati, inoltre, promosse una serie di accordi tra il Coni e le organizzazioni, allo scopo di garantire il controllo tecnico delle federazioni sulle loro attività. Nel caso dei Guf, per esempio, l’accordo precisava che essi erano liberi di indire competizioni sportive, ma dovevano seguire le norme tecniche delle federazioni [7].

Una innovazione fondamentale fu introdotta all’inizio del 1928, quando il governo sciolse l’Enef e affidò l’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole all’Onb. Le conseguenze del provvedimento andavano ben oltre l’ambito sportivo, perché con la nuova normativa l’Opera Balilla entrava nel sistema scolastico e poteva influenzare l’educazione dei giovani. Il provvedimento, inoltre, andava nella direzione che il regime avrebbe seguito fino alla metà degli anni ’30: affidare lo sport di massa alle organizzazioni fasciste e lasciare alle federazioni e alle società “indipendenti” il controllo tecnico e lo sport di alto livello.

A sancire questa impostazione fu un documento emanato da Turati alla fine del 1928, la Carta dello sport, finalizzata a delimitare le competenze dei due sistemi. Per l’Onb, la Carta stabiliva il seguente principio: «Tutti i giovani da 6 a 14 anni sono affidati all’Opera Nazionale Balilla per quanto riguarda l’educazione fisica» (art. 1), il che significava che l’Opera doveva curare le attività sportive dei bambini anche al di fuori delle scuole. L’Onb aveva in carico anche gli adolescenti da 14 a 17 anni, ma la specializzazione in singole discipline di quelli più interessati allo sport era affidata alle società “indipendenti”. Anche per le altre organizzazioni – Milizia, Guf e Dopolavoro, la Carta prevedeva che curassero l’educazione fisica dei loro iscritti e a organizzassero attività sportive. Al Dopolavoro, però, erano affidati solo gli «sport popolari», che per lo più erano semplici passatempi: bocce, tiro alla fune, canottaggio a sedile fisso e il gioco della volata, inventato da Turati stesso.

Più in generale, la Carta invitava le federazioni sportive nazionali a «curare la propaganda e lo sviluppo dello sport fra le masse» (art. 9), ma, nei fatti, affidava lo sport di massa alle organizzazioni fasciste [8].

La Carta dello sport aveva molti limiti. Anzitutto, il principio di far praticare l’attività di massa alle organizzazioni fasciste e lo sport di alto livello alle società – un principio implicito nella Carta ma destinato a essere affermato esplicitamente negli anni successivi – era intrinsecamente problematico, perché le società sportive non potevano svilupparsi senza un’adeguata attività di massa. Inoltre la Carta non si soffermava sulla questione dell’appartenenza degli atleti: i membri delle organizzazioni fasciste che erano iscritti anche a un sodalizio “indipendente” potevano gareggiare per più di una squadra e questo, come si vedrà, avrebbe provocato numerose controversie. Infine, non era affrontato il problema del finanziamento delle società che, a causa della concorrenza delle organizzazioni, iniziarono a trovarsi in condizioni economiche sempre più disagiate.

Anche per queste ragioni, non tutte le disposizioni della Carta dello sport trovarono applicazione. Essa, però, fu il primo documento che cercò di regolare organicamente i rapporti tra “sport fascista” e “sport ufficiale”.


3. La parentesi Giuriati-Scorza e l’ascesa di Achille Starace

Nell’ottobre del 1930 Mussolini sostituì Turati con Giovanni Giuriati. Il cambio della guardia fu sancito nella seduta del Gran consiglio del giorno 8, nella quale fu anche creata una nuova organizzazione, i Fasci giovanili di combattimento, aperta ai giovani tra 18 e 21 anni non iscritti all’università.

Giuriati affidò la segreteria dei Guf e il comando dei Fasci giovanili a un ex capo delle squadre di azione, Carlo Scorza, che intraprese una politica diversa da quella di Turati, cercando di tenere lo “sport fascista” separato da quello “ufficiale”. Scorza condivideva l’idea che fosse necessario promuovere le attività fisiche, ma pensava anche che le competizioni dovessero essere limitate. Scrisse a Mussolini nel luglio del 1931 a proposito degli universitari:

La loro attività si è svolta e conclusa in una sola interminabile serie di campionati locali, nazionali, internazionali. Lo scorso anno si sono inventati perfino i campionati a squadre con relative selezioni interregionali. Campionati e campionati, su tutta la linea. Quali vantaggi fisici ha potuto trarre la massa degli universitari da questo programma, che interessava una cifra variabile dall’uno per cento all’uno per mille degli studiosi [9]?

Questa posizione non avrebbe avuto particolare fortuna.

Scorza si preoccupò anche di inventare delle nuove discipline, che erano simulazioni di azione di guerra più che sport vero e proprio. Per esempio, per i Fasci giovanili organizzò una competizione nazionale, con selezioni nelle province e finale a Roma, di «pentathlon d’as­salto», che prevedeva il lancio di bombe a mano, il salto in alto, la marcia, la corsa dei 100 metri e il percorso di guerra [10].

Il gerarca, intendendo lo sport soprattutto come allenamento per il miglioramento della razza, non riteneva necessaria la supervisione tecnica delle federazioni sportive ed evitò di stipulare accordi con il Coni per i Fasci giovanili che, non esistendo nel 1928, non erano “coperti” dalla Carta dello sport. Inoltre, in una circolare ai segretari provinciali dei Guf del dicembre del 1931 precisò che «non è obbligatorio essere iscritti ad alcuna Federazione sportiva per partecipare alle nostre gare» [11] e lasciò liberi i segretari di scegliere se affiliare o meno le proprie sezioni sportive.

Il cambio di impostazione rispetto agli anni di Turati era evidente, ma la breve gestione di Giuriati e Scorza rappresentò solo una parentesi nella politica sportiva del regime. Nel dicembre del 1931 Mussolini affidò la segreteria del Pnf ad Achille Starace, che nel volgere di poco tempo assunse un potere senza precedenti sull’atletismo italiano. Starace, infatti, tenne per sé il comando dei Guf e dei Fasci giovanili, nominando un suo collaboratore, Giovanni Poli, come suo vice con funzioni tecniche ed esecutive. Inoltre, nel 1932 il Dopolavoro, che prima era autonomo, fu posto alle dipendenze del partito; l’anno successivo il segretario del Pnf assunse anche la presidenza del Coni (che nel 1932 era stato dotato di un nuovo statuto e di maggiori finanziamenti).

Starace era animato da una vera e propria ossessione per lo sport, che considerava lo strumento più utile per fascistizzare le nuove generazioni. A tale scopo, diramava disposizioni con cadenza quasi quotidiana alle due organizzazioni che guidava in prima persona, i Guf e i Fasci giovanili, per invitarle a promuovere allenamenti e competizioni. Starace, però, riteneva che il controllo tecnico sulle attività delle organizzazioni spettasse alle federazioni sportive nazionali, perché in questo modo sarebbe stato possibile migliorare le prestazioni e il livello degli sportivi. Le attività delle organizzazioni, infatti, non erano finalizzate solo a costituire un movimento sportivo di massa, ma dovevano anche essere una fucina di campioni. Negli anni ’30 per il regime l’obiettivo di conseguire successi nelle competizioni internazionali, già presente in precedenza, divenne prioritario. Il fascismo, infatti, iniziò ad accrescere l’attenzione per la politica estera e per il prestigio internazionale del Paese, del quale lo sport era considerato uno strumento assai importante: attraverso i suoi campioni, Mussolini voleva mostrare al mondo e all’opinione pubblica italiana la forza del regime. A testimonianza di tali intenzioni, si legga quanto scrisse Starace in una circolare del 1933:

Le Olimpiadi, per le quali dobbiamo offrire al DUCE la più bella vittoria, attendono alla prova i futuri campioni; questi non possono emergere che attraverso la leva in massa, fatta nelle nostre file, per poi raggiungere la forma più completa, sotto la guida responsabile delle società [12].

Le organizzazioni fasciste, secondo Starace, dovevano promuovere le attività di massa, al cui interno le società sportive avrebbero “pescato” i campioni. L’organiz­zazione dalla quale il regime si aspettava che potessero emergere gli atleti più talentuosi era quella universitaria. Molti dirigenti e pubblicisti ritenevano che gli studenti fossero più intelligenti della media dei giovani e, quindi, più portati a diventare campioni. Starace, tuttavia, non escludeva che atleti degni di nota potessero emergere anche dai Fasci giovanili.

Il segretario mise da parte le competizioni militaresche inventate da Scorza e decise di puntare sulle discipline sportive propriamente dette. L’idea che lo sport dovesse contribuire all’addestramento militare non venne meno, ma Starace pensava che per conseguire questo obiettivo fossero più utili gli sport olimpici. Seguendo un’imposta­zione verticistica, il segretario pretendeva di scegliere le discipline che le organizzazioni dovevano praticare. La scelta era dettata da due “parametri”: utilità per il miglioramento della razza e, più specificamente, per la preparazione militare; possibilità di garantire successi sul piano internazionale. Di conseguenza, tra gli sporti individuali erano privilegiati l’atletica leggera, il nuoto, il canottaggio, lo sci, il pugilato, la scher­ma e, per i soli Fasci giovanili, il ciclismo; tra i giochi di squadra, i favori del partito andavano al rugby e alla pallacanestro, mentre il calcio riceveva meno incentivi.

Starace, però, doveva anche curare i rapporti tra organizzazioni fasciste e sport “ufficiale”. Una delle sue prime preoccupazioni fu quella di sottoporre le attività dei Fasci giovanili al controllo tecnico delle federazioni, per garantire il quale promosse diversi accordi. Il primo fu stipulato all’inizio di febbraio 1932 con la Federazione italiana gioco calcio (Figc). Il calcio, pur non essendo incentivato dal Pnf come sport di massa, era una delle discipline che i Giovani fascisti (come erano chiamati i membri dei Fasci giovanili) praticavano più spesso. In base all’accordo, tutte le squadre formate dai Fasci giovanili dovevano essere affiliate alla Figc o alla Unione libera italiana del calcio (Ulic) [13] e tutti i Giovani fascisti calciatori dovevano essere tesserati presso una delle due federazioni. A queste ultime, inoltre, era garantita una sorta di controllo sulle attività calcistiche dei Fasci giovanili, giacché dovevano dare il nulla osta per ogni competizione. Era previsto, infine, che rappresentati dei Fasci giovanili entrassero a far parte dei comitati federali della Figc e che i Giovani fascisti potessero tesserarsi a costo ridotto [14]. Gli accordi stipulati con le altre federazioni seguivano lo stesso schema: obbligo di iscrizione dei Giovani fascisti, supervisione tecnica su tutte le attività, ingresso di rappresentanti dei Fasci giovanili negli organi delle federazioni, tesseramento agevolato [15].

Per i Guf non furono stipulati simili accordi, ma Starace cercò di incentivare il più possibile lo sport universitario. Poco dopo essere asceso alla segreteria del Pnf istituì una nuova manifestazione, i Littoriali dello sport, che unificavano i campionati nazionali universitari di varie discipline e divennero presto il più importante evento di tutto lo sport dilettantistico italiano. I Littoriali si tenevano ogni anno in una sede diversa ed erano divisi in due manifestazioni, una per gli sport invernali in febbraio e una per le altre discipline in maggio. Nel 1933 furono istituiti, con una formula simile, i campionati nazionali dei Fasci giovanili

Il crescente attivismo delle organizzazioni fasciste non poteva non mettere in difficoltà le società sportive. I problemi erano causati soprattutto dai Guf e dai Fasci giovanili, giacché l’Onb si curava di ragazzi più giovani e non incentivava l’agonismo, il Dopolavoro si dedicava soprattutto ai passatempi e la Milizia aveva ridotto il suo impegno nello sport agonistico. I contrasti erano provocati da varie questioni, tra le quali le principali, in ordine decrescente di importanza, erano le seguenti:

– l’appartenenza degli atleti, che potevano gareggiare sia nelle squadre delle organizzazioni giovanili, sia in quelle delle società;

– i finanziamenti, perché le società “indipendenti”, avendo meno iscritti, erano sempre più a corto di fondi;

– il controllo tecnico delle federazioni sulle manifestazioni sportive delle organizzazioni fasciste;

– il livello di indipendenza delle società sportive.

Questi problemi erano gli argomenti più discussi al Consiglio generale del Coni, un organismo istituito nel 1933, del quale facevano parte i presidenti delle federazioni sportive e i rappresentanti delle organizzazioni fasciste. I presidenti delle federazioni lamentavano soprattutto la concorrenza delle organizzazioni nell’ingaggio degli atleti. Per esempio, in una seduta dell’ottobre 1933 il presidente della Federazione italiana di atletica leggera (Fidal), Luigi Ridolfi, dichiarò: «Con l’andare del tempo l’impulso preso dalle organizzazioni giovanili può effettivamente pregiudicare l’elemento società» [16]. La stessa tesi era sostenuta da altri presidenti, mentre le federazioni con meno iscritti, come quelle dell’atletica pesante, del pugilato e del nuoto, cercavano si servirsi delle organizzazioni giovanili per diffondere la pratica dei loro sport.

Starace pensava che l’aver accentrato nelle sue mani il controllo di quasi tutto lo sport era garanzia di un prospero sviluppo e alla fine del 1933 promosse la stipula un nuovo accordo tra il Coni e tre organizzazioni fasciste (Fasci giovanili, Guf e Milizia) per regolare la questione dell’ingaggio degli atleti. In base all’accordo, i membri di Guf, Fasci giovanili e Milizia, anche se iscritti alle società sportive, potevano gareggiare per le rispettive organizzazioni nelle manifestazioni da loro promosse; nelle gare delle federazioni, quando era possibile, doveva essere istituita per loro una speciale classifica [17].

Tuttavia, l’accordo non risolse i problemi. Nel 1934, in un’altra seduta del Consiglio del Coni, Gaetano Lemetre, presidente della Federazione italiana nuoto, lamentò che «quando vi sono delle gare avviene un po’ l’arrembaggio. Non si sa se questo individuo concorre per il Fascio Giovanile, per la Società o deve andare con l’Università» [18]. I contrasti erano frequenti anche a livello locale. Per esempio, nel 1934 a Milano si sviluppò una polemica perché una neocostituita associazione di sci, lo Sci club A, tesserò alcuni universitari e il segretario del Guf, Carlo Boidi, se ne lamentò con Giovanni Poli, chiedendogli di far intervenire Starace per bloccare l’ingaggio [19].

La questione dell’ingaggio degli atleti avrebbe creato contrasti anche negli anni a venire. Essa, per altro, era collegata alla moltiplicazione delle competizioni provocata dalla coesistenza dei due sistemi sportivi, che impegnava gli atleti in continue gare e lasciava poco tempo per gli allenamenti.

Un altro problema era rappresentato dalle difficoltà economiche nelle quali si trovavano le società sportive. Secondo i presidenti delle federazioni, la crisi delle società danneggiava anche le organizzazioni del regime, perché impediva ai giovani emersi al loro interno di trovare ambienti idonei per continuare la loro carriera. Dichiarò Luigi Ridolfi:

Noi ci troviamo davanti al fatto che l’elemento che viene fuori dal Fascio Giovanile o dal Guf, poi, arrivato ad un certo punto, ad una certa età, dovrebbe continuare a svolgere la sua attività sportiva in seno alle società, mentre le Società italiane vivono tutte una vita assolutamente grama perché nessuna [sic] le aiuta. Mecenati non ne esistono più, nemmeno a cercarli con il lanternino. D’altra parte le federazioni non sono in grado assolutamente di sovvenzionare le Società della periferia, se no dovrebbero abbandonare tutto il programma di preparazione vera e propria [20].

Il presidente della Fidal proponeva che il Pnf finanziasse le società sportive, ma la proposta non fu accolta e in più occasioni la segreteria amministrativa del partito ricordò che le sedi locali dovevano finanziare esclusivamente le attività delle proprie organizzazioni [21]. In realtà, questo non sempre avveniva, perché, per via degli intrecci di potere e dei legami tra dirigenti politici e sportivi, non era raro che le federazioni del Pnf devolvessero qualche obolo alle società indipendenti. Non erano, però, entrate sufficienti a garantire loro stabilità economica.

Anche sulla questione della supervisione tecnica, che in genere significava seguire i regolamenti federali nelle attività delle organizzazioni e far autorizzare le manifestazioni, i presidenti delle federazioni lamentavano che non sempre la normativa era rispettata. Su questo aspetto le federazioni trovarono il sostegno di Starace, che nel 1933 dichiarò:

Lo sport di massa che viene fatto dai F.G.C. e dal Dopolavoro è così tanto importante da non essere abbandonato, come è avvenuto, a individui inesperti. Per conseguenza il controllo da parte delle Federazioni, su tutta l’attività sportiva sia dei F.G.C., sia dei G.U.F. sia dell’O.N.D. deve essere un fatto concreto. Prima non si è verificato perché uno era il presidente del CONI, uno il comandante dei F.G.C., un altro il Presidente dell’O.N.D. […]

Lo sport deve essere sempre controllato dai tecnici e perciò dalle federazioni [22].

Sebbene la normativa non fosse sempre rispettata, effettivamente le federazioni sportive “controllavano” le principali manifestazioni delle organizzazioni.

Sulla questione dell’indipendenza delle società, le ingerenze del Pnf crearono alcuni contrasti di livello locale. La normativa prevedeva che i dirigenti dei sodalizi sportivi fossero nominati dalle federazioni nazionali, dopo aver sentito il parere del Pnf, ma in alcune province i gerarchi del partito pretendevano di nominare direttamente i presidenti, come accadde a Milano nel 1934 [23]. Anche in questo caso Starace si schierò dalla parte delle federazioni sportive, ribadendo che la nomina dei dirigenti spettava a loro. La questione, tuttavia, creava meno contrasti dell’appartenenza degli atleti e dei finanziamenti.

Va osservato anche che il ruolo delle organizzazioni fasciste era diverso a seconda degli sport. Nell’atletica leggera, che era la disciplina maggiormente incentivata dal regime, le organizzazioni sottrassero molti sportivi alle società “indipendenti”, ma in genere gli atleti più talentuosi, anche quando erano iscritti alle organizzazioni, continuavano a gareggiare per le società. Le organizzazioni fasciste, e in particolare i Guf, si lamentarono più volte del problema. Per esempio Libro e moschetto, il giornale del Guf di Milano, scrisse nell’aprile del 1935:

Non è certo simpatico che gli studenti non si raccolgano presso la loro unica società, il loro raggruppamento naturale, il Gruppo Universitario Fascista. […]

Le società specializzate offrono dei privilegi, permettono di usufruire di viaggi in seconda classe e di alberghi lussuosi; il Guf invece non può arrivare più in là del trattamento in cui, pur non derogando al decoro, si cerca di realizzare qualche economia. Ebbene lo studente lascia allora il Guf, e se ne va frettolosamente alla prima società che gli si para innanzi [24].

Era vero che molti studenti preferivano le società “indipendenti”, ma le ragioni, a differenza di quanto affermato da Libro e Moschetto, andavano ricercate nelle migliori competenze e nell’assenza degli obblighi “politici” imposti dalle organizzazioni.

In altri sport, come il canottaggio e la scherma, gli atleti migliori erano tutti gufini, ma non gareggiavano per il proprio Guf, se non nelle competizioni universitarie, e affidavano la loro preparazione a circoli e associazioni “indipendenti”.

Nel ciclismo, invece, il ruolo delle organizzazioni, e in particolare quello dei Fasci giovanili, era molto importante. Tra i Giovani fascisti che gareggiavano in bicicletta vi erano alcuni corridori destinati a diventare famosi, tra i quali uno che nel volgere di pochi anni avrebbe riempito le cronache dei giornali: Gino Bartali, che nel 1934 si classificò terzo alla prima (e unica) edizione del “Giro d’Italia” per Giovani fascisti [25]. Tuttavia i ciclisti più talentuosi, gareggiando già per società private, non effettuavano la loro preparazione all’interno dei Fasci giovanili e si limitavano a partecipare a qualche gara promossa dall’organizzazione. Quest’ultima, però, era essenziale per le attività di massa. Basti pensare che nel 1934 i Giovani fascisti tesserati erano ben 7.745 e tutti gli altri iscritti messi insieme 11.892; inoltre, i singoli Fasci affiliati come società ciclistiche erano 1.013, a fronte di 433 società private e 88 sezioni del Dopolavoro [26]. L’attivismo dei Fasci giovanili era dovuto anche al fatto che essi incentivavano l’uso della bicicletta per ragioni pratiche, tanto che sin dal 1930 il comando aveva costituito in tutte le provincie dei “reparti celeri”, allo scopo di avere forze in grado di mobilitarsi rapidamente [27].

Negli sport meno popolari, come il nuoto, l’atletica pesante, la ginnastica, le organizzazioni cercarono di promuovere delle attività, ma i risultati furono assai modesti. Poiché queste discipline avevano pochi praticanti anche nelle società “indipendenti”, non si svilupparono contrasti tra sport “fascista” e sport “ufficiale”.

In merito ai giochi di squadra, il ruolo delle organizzazioni era particolarmente importante nel rugby e nella pallacanestro. Numerose squadre partecipanti ai campionati federali dei due sport, inclusi quelli di primo livello, erano costituite dai Guf o dai Fasci giovanili, mentre altri membri delle due organizzazioni militavano per formazioni “indipendenti”. In qualche caso le squadre gufine si trovarono in contrasto con le federazioni. Nel 1933, per esempio, al campionato di rugby di primo livello presero parte le squadre dei Guf di Torino, Genova, Napoli e Padova, ma tre di loro, non avendo ricevuto aiuti finanziari dalla Federazione italiana di palla ovale, lasciarono la competizione e organizzarono un torneo in proprio [28]. La partecipazione delle organizzazioni, tuttavia, era indispensabile per consentire lo svolgimento dei campionati di rugby e pallacanestro e i contrasti furono presto appianati.

Diverso era il caso del calcio, nel quale le squadre delle organizzazioni non andarono mai oltre i livelli regionali del campionato. Il calcio, infatti, era uno sport sempre più professionistico, che necessitava di investimenti ingenti per costituire una squadra capace di competere ad alti livelli.

In sostanza, sebbene i rapporti tra “sport fascista” e “sport ufficiale” cambiassero a seconda delle discipline, le competenze non erano state delineate in maniera precisa pressoché per nessuna di esse. Per un regime che faceva dell’ordine e dell’efficienza uno dei vanti maggiori, era necessario trovare una soluzione al caos che la coesistenza dei due sistemi generava. Essi, del resto, erano intrecciati a più livelli, perché numerosi atleti, dirigenti e squadre erano presenti in entrambi. Nel 1935 Starace introdusse nuove regole, che miravano sia a regolare il sistema, sia a rendere “totalitaria” la partecipazione degli italiani alle attività sportive.


4. Il Rapporto di Firenze e l’«accelerazione totalitaria»

Com’è noto, dalla metà degli anni ’30, e soprattutto dopo la guerra di Etiopia, iniziò la fase dell’«accelerazione totalitaria», nel corso della quale il regime si propose di incrementare la mobilitazione della popolazione e di aumentare ulteriormente la presenza del Pnf nella società [29]. Lo sport non poteva non essere coinvolto dal cambiamento, anche in considerazione del fatto che era la principale attività delle organizzazioni fasciste.

Dalla metà degli anni ’30 Starace iniziò a considerare un dovere dei giovani del Pnf, e in particolare dei gufini, la partecipazione alle attività sportive. Per questo nel 1935 introdusse alcune innovazioni. In febbraio istituì gli Agonali dello sport, una competizione multisportiva che si doveva tenere in primavera in ogni università e doveva fungere sia da manifestazione a sé stante, sia da selezione per i Littoriali. La partecipazione, in teoria, era obbligatoria per tutti gli studenti [30]. In autunno, il segretario introdusse il brevetto sportivo, che si otteneva superando prove di atletica leggera e tiro a segno, organizzate in ogni provincia, e che ogni studente doveva conseguire per essere ammesso nei Guf. La misura si rivelò un fallimento, perché era invisa non solo agli studenti, ma anche alle autorità locali del Pnf, che si servivano di vari escamotage per tesserare nei Guf anche chi non conseguiva il brevetto [31].

Più in generale, con Agonali e brevetto il numero di universitari che facevano sport aumentò, ma l’obiettivo di farlo praticare a tutti non fu conseguito.

Per i Fasci giovanili non furono introdotte misure “obbligatorie”, ma fu istituita la tessera sportiva, rilasciata a tutti gli iscritti, che dava diritto a partecipare alle iniziative degli sport considerati più importanti. Il rilascio della tessera non era soggetto al superamento di specifiche prove, ma testimonia ugualmente la volontà di far praticare attività sportive a tutti i Giovani fascisti [32].

L’attivismo delle organizzazioni, naturalmente, fece aumentare i contrasti con le società sportive, soprattutto sulla questione dell’appartenenza degli atleti. Starace era consapevole che la questione dovesse essere risolta e il 27 luglio convocò a Firenze gli addetti sportivi provinciali di Guf e Fasci giovanili per comunicare loro alcune decisioni importanti. Il segretario stabilì che i gufini e i Giovani fascisti avrebbero gareggiato esclusivamente sotto le insegne delle loro organizzazioni; al termine della permanenza al loro interno (cioè a 28 anni per i Guf e a 21 anni per i Fasci giovanili) sarebbero passati alle società sportive, in modo da dare continuità al loro impegno atletico [33].

L’innovazione era molto importante perché sovvertiva il principio di cercare campioni nelle organizzazioni del regime e farli poi specializzare nelle società private. Con la nuova normativa, anche le attività di alto livello dovevano essere praticate nei Guf e nei Fasci giovanili, almeno nei primi anni di carriera degli sportivi. L’inno­vazione era particolarmente rilevante per i Guf, che avrebbero tenuto al loro interno atleti nel pieno della loro carriera.

Il Pnf riteneva che il Rapporto di Firenze aveva fissato nel modo migliore le competenze dei due sistemi sportivi e ne fece uno dei suoi vanti. Per esempio, nel novembre del 1935 Giorgio Vaccaro, segretario generale del Coni, elogiò la riforma in una relazione al Consiglio generale, sostenendo che le norme «potenzia[va]no l’organiz­zazione sportiva, dandole carattere nazionale e totalitario, anziché di specialità» [34] In realtà, il Rapporto di Firenze non riuscì a definire le competenze di “sport fascista” e “sport ufficiale” e anche negli anni successivi i gufini e i Giovani fascisti continueranno a gareggiare per le società “indipendenti”.

La riforma, del resto, presentava alcune criticità evidenti. Anzitutto, pretendeva che gli sportivi più talentuosi militassero per organizzazioni che non sempre disponevano delle competenze e delle strutture necessarie per farli preparare nel migliore dei modi. Sul territorio, infatti, l’efficienza delle strutture sportive era eterogenea: nei paesi più piccoli spesso le organizzazioni fasciste erano le uniche associazioni sportive esistenti e le uniche che potevano disporre di qualche struttura per la pratica di attività fisiche; in altri contesti, e in particolare nei centri urbani, era frequente che le società “indipendenti” disponessero delle strutture e delle competenze migliori per curare la preparazione degli atleti. In altre parole, non sempre le organizzazioni fasciste erano in grado di gestire nel migliore dei modi gli sportivi di alto livello.

Inoltre, molti atleti erano legati alle società per le quali gareggiavano e non gradivano militare per le organizzazioni. Allo stesso modo, era problematica la pretesa che gli sportivi restassero nelle organizzazioni nei primi anni di attività e poi passassero a società indipendenti, perché comportava di far loro cambiare casacca nel pieno della carriera.

Lo scopo di Starace, tuttavia, era anche quello di usare lo sport per fascistizzare i cittadini. Non a caso, le manifestazioni delle organizzazioni includevano sempre la celebrazione del culto di littorio. Il segretario del Pnf era convinto che la “fascistizzazione” (spesso solo presunta) degli atleti garantisse la loro superiorità su quelli degli altri Paesi. Dichiarò nel novembre del 1936 al Consiglio generale del Coni:

Dal punto di vista fisico la nostra razza oggi migliorata indubbiamente offre delle possibilità infinite. Aggiungiamo che i nostri atleti hanno anche una forza spirituale che forse manca negli atleti degli altri Paesi, ed io sono sicuro che voi sapete quanto me, che la forza dello spirito giuoca in senso determinante sulla forza dei muscoli. Non potremmo aspirare a un clima più favorevole: il Partito offre una piattaforma che ogni giorno è più confortante.

I Fasci Giovanili di Combattimento come i Gruppi Universitari Fascisti costituiscono delle serie garanzie. Nessun dubbio che lo sport che queste organizzazioni praticano sia uno sport perfettamente intonato a quelle che sono le nostre esigenze. E possiamo definirlo uno sport di massa [35].

Starace pensava che la «forza spirituale» degli atleti italiani, consapevoli di gareggiare per il fascismo e di rappresentarlo sul piano internazionale, era garanzia di successo. Era chiaro che si trattava di una pura illusione, sia perché gli atleti italiani non erano tutti fascisti convinti, sia perché nella seconda metà degli anni ’30 per vari fattori i successi internazionali degli atleti italiani diminuirono, almeno in alcuni sport.

Inoltre, come si è accennato le competenze di “sport fascista” e “sport ufficiale” non furono regolate in via definitiva e i rapporti continuarono a essere eterogenei. In molte località organizzazioni del regime e società sportive riuscivano a collaborare e in alcune occasioni si giunse persino a una fusione. Per esempio, a Firenze il Gruppo universitario e l’associazione di atletica leggera Giglio Rosso diedero vita alla Società universitaria Giglio Rosso; a Napoli la sezione atletica del Guf si fuse con la Virtus Partenopea [36].

Anche i contrasti, però, erano frequenti. Particolarmente significativo fu il contrasto che alla fine del 1935 contrappose il Guf di Roma alla Società sportiva Parioli, fondata l’anno precedente da Vittorio e Bruno Mussolini. Nel novembre del 1935 il Guf cercò di ingaggiare alcuni atleti della Parioli e Vittorio Mussolini se ne lamentò con Starace: «La società del G.U.F. viene a frustrare l’attività delle altre Società sportive e specialmente della nostra, che è composta di prevalentemente di studenti». Starace accettò la tesi del figlio del Duce e diede disposizioni al Guf di Roma di non tesserare gli atleti della Parioli e di limitarsi a utilizzarli nelle competizioni universitarie [37]: era il segretario stesso a chiedere di violare le norme da lui stabilite con il Rapporto di Firenze.

Il fatto che le competenze dei due sistemi sportivi non fossero state delimitate con chiarezza emergeva anche dalle polemiche che, sia pure in termini velati, comparivano sui giornali. In genere la pubblicistica presentava le organizzazioni del regime come lo strumento che aveva permesso di diffondere lo sport in Italia e, pertanto, si aspettava che esse incrementassero ulteriormente le attività, anche a danno delle società “indipendenti”. Uno dei maggiori dirigenti sportivi e pubblicisti, Lando Ferretti, scrisse nel 1936:

Ai fini della propaganda sportiva tra le masse, le formazioni giovani del Partito non hanno rivali; esse, infatti, hanno dato e danno sempre più ai giovani il senso e il bisogno del momento dell’audacia, della lotta, della conquista, la premessa cioè, e l’essenza, dello sport [38].

Molti altri osservatori sostenevano la medesima tesi, stigmatizzando soprattutto i trasferimenti da una società all’altra degli studenti-atleti, per i quali, invece, si auspicava che potessero gareggiare sempre nelle squadre dei propri Guf  [39]. Questi ultimi, del resto, erano l’organizzazione più presente nello sport di alto livello e includevano numerosi atleti che presero parte alle Olimpiadi di Berlino del 1936. In molti casi, però, non si trattava di veri gufini, ma di sportivi che gareggiavano nelle società “indipendenti” e che erano anche iscritti (o venivano fatti iscrivere apposta) all’università e quindi ai Guf  [40].

Anche per questa ragione, altri pubblicisti e addetti ai lavori, pur ritenendo che il ruolo delle società dovesse essere limitato, non volevano che fossero completamente smantellate. Scrisse per esempio Il Littoriale a proposito delle società ciclistiche:

Le società debbono rimanere in vita e vi rimarranno; ma si capisce che per vivere dovranno adattarsi alle necessità dei tempi nuovi. Sopravvivranno le società dei grandi centri, le società che hanno una tradizione tale da giustificare con il passato la loro attività futura, le società provviste largamente di mezzi e quelle che hanno sempre proficuamente operato: le altre sono destinate a lasciare il campo a queste forze nuove e giovani che hanno a disposizione tutti i mezzi per svolgere attività fruttifera.

E citiamo il caso dei paesi o dei piccoli centri di provincie dove le società, salvo rare eccezioni, vivono alla giornata sempre alle prese con i magri bilanci sociali [41].

Le società, del resto, continuavano ad avere una funzione importante, soprattutto nello sport di alto livello e nelle discipline che richiedevano attrezzature specifiche. Nel 1937, per altro, il Pnf ridimensionò la norma che vietava alle federazioni fasciste di devolvere loro dei finanziamenti, accettando che potessero essere corrisposti «modesti contributi», purché autorizzati di volta in volta dalla segreteria amministrativa nazionale [42].

La norma, però, non risolse il problema delle condizioni economiche delle società. Inoltre, le polemiche con lo “sport fascista” non cessarono, anche perché dal 1937 il ruolo delle le organizzazioni del regime sarebbe stato ancora più invasivo.


5. La creazione della Gil e lo sport femminile

L’accelerazione totalitaria non poteva non fare crescere ulteriormente la presenza delle organizzazioni fasciste nella vita degli italiani. Nel 1937 fu emanata una riforma importante, che non riguardava solo lo sport, ma tutta la politica giovanile, perché il Pnf riuscì a mettere sotto il proprio controllo l’Onb, con la quale Starace era sempre più in contrasto. In ottobre fu creata la Gioventù italiana del Littorio, dipendente direttamente dal partito, che inglobò l’Opera Balilla, i Fasci giovanili di combattimento e i gruppi delle Giovani fasciste (fondati nel 1930 e aperti alle giovani tra 18 e 21 anni).

Con la creazione della Gil il controllo di Starace sullo sport aumentò ulteriormente. Il segretario volle mostrare subito la discontinuità della sua impostazione rispetto a quella di Renato Ricci e il 5 febbraio 1938 convocò a Roma gli addetti sportivi dei comitati provinciali della Gil per esporre loro i suoi programmi. Per le fasce di età più giovani, Starace stabilì che almeno gli adolescenti dovessero praticare attività competitive e decise di puntare sui Ludi Juveniles, una manifestazione introdotta in forma sperimentale nel 1934 per iniziativa di Vittorio e Bruno Mussolini. I Ludi non erano organizzati direttamente dalla Gil, ma raccoglievano gli studenti medi di tutto il Paese, divisi per istituti scolastici. Dopo l’esperienza del 1934, limitata alle scuole di Roma, non si erano più tenuti per l’ostilità di Ricci e ripresero solo nel 1938 [43].

Per i Giovani fascisti – che dal 1937 costituivano un raggruppamento della Gil – per molti aspetti prevalse la continuità e la normativa emanata per i Fasci giovanili fu in larga parte confermata. I Giovani fascisti continuarono anche a disputare i loro campionati nazionali, ma dal 1937 si tennero manifestazioni per le singole discipline e non più un evento unico. Starace, però, era sempre deciso a garantire il controllo tecnico alle federazioni raccomandò ai dirigenti locali della Gil di tenere rapporti stretti con il Coni e per la riforma dei programmi di educazione fisica [44].

Nello stesso periodo la Gil fu incaricata della formazione premilitare dei giovani fino a 21 anni (fino a quel momento in carico alla Milizia), della quale le attività sportive erano un elemento importante.

In sostanza, con la creazione delle Gil la “totalitarizzazione” dello sport fu incrementata, ma questo non valse a smantellare completamente il sistema dello “sport ufficiale”. Starace smentì personalmente le voci, che avevano preso a circolare negli ambienti sportivi, secondo le quali il regime intendeva sciogliere tutte le società “indipendenti” [45].

Guf e Fasci giovanili, però, erano sempre più presenti sia negli sport individuali, sia negli sport di squadra. Per esempio nel campionato di Divisione nazionale di rugby del 1939/40 sei squadre delle otto totali provenivano dai Guf; nella Serie A di pallacanestro dello stesso anno militavano due squadre studentesche sulle dieci totali e ben quattordici su ventuno nei gironi della Serie B.

Anche il ruolo delle altre organizzazioni, il Dopolavoro e la Milizia, continuava a essere importante, ma nella maggior parte dei casi le loro attività erano allenamenti o competizioni “interne”, che non creavano contrasti con lo “sport ufficiale”. In alcuni casi, però, Ond e Milizia prendevano parte anche alle gare delle federazioni, in particolare nel calcio (a livelli bassi) e nel ciclismo. In quest’ultimo sport, alla fine degli anni ’30 parteciparono anche alla manifestazione più importante, il Giro d’Italia. Dal 1937, infatti, al Giro furono introdotti i “gruppi”, cioè squadre fondate da cinque corridori, che potevano essere finanziati da enti pubblici, società sportive e giornali (non dalle aziende private). Diverse sezioni del Dopolavoro fondarono un loro gruppo per partecipare alla corsa. Spesso la fondazione era promossa dalle aziende, che, presentando il gruppo come squadra del Dopolavoro aziendale, aggiravano la norma che impediva ai privati di finanziare i gruppi. In alcuni casi, però, la partecipazione fu promossa anche da sezioni comunali dell’Ond, come quella di Novi Ligure nel 1939. Nel 1940 tornò al Giro d’Italia anche la Milizia, che costituì un suo gruppo [46].

Tuttavia, il ruolo della Milizia e del Dopolavoro nello sport di alto livello era molto meno rilevante di quello dei Guf. Questi ultimi continuavano a creare tensioni con le società “indipendenti” e, sebbene negli organi ufficiali si coltivasse l’illusione che i problemi fossero stati risolti [47], nei mesi successivi il sistema sarà nuovamente riformato.

Un cenno a parte merita lo sport femminile. In questa sede non è possibile discutere dettagliatamente la questione della partecipazione delle donne alle attività sportive, che fu uno degli argomenti più discussi per tutto il Ventennio, e perciò ci si limita a pochi cenni sul ruolo delle organizzazioni fasciste e sui loro rapporti con le società “indipendenti”. Giova ricordare solo che il fascismo aveva molte riserve sulla partecipazione delle donne alle attività sportive, ma nella seconda metà degli anni ’30, in corrispondenza con l’«accelerazione totalitaria» e l’accresciuta mobilitazione della popolazione, lo sport femminile fu accettato, con alcuni limiti, da vasti settori della classe dirigente [48].

Fino al 1936 le organizzazioni del regime dedicarono poco spazio allo sport. Nel 1933 le donne furono ammesse ai Littoriali dello sport, ma la partecipazione, oltre a essere limitata a poche discipline, era finalizzata solo a migliorare la preparazione per i Giochi mondiali universitari, previsti nello stesso anno. Non tutte le partecipanti, per altro, erano vere universitarie e alcune erano giovani atlete fatte passare per studentesse [49]. Dal 1934, del resto, le donne furono nuovamente escluse dai Littoriali.

Più in generale, sin dagli anni ’20 e primi anni ’30 alcune giovani iscritte ai Guf o alle Giovani fasciste praticavano sport autonomamente, ma fino all’«accelerazione totalitaria» l’impegno delle organizzazioni per incoraggiare la loro partecipazione fu modesto. Nella seconda metà degli anni ’30, però, le organizzazioni femminili aumentarono le proprie attività e promossero competizioni e allenamenti. Nel febbraio del 1935 Starace ordinò di potenziare le attività sportive delle sezioni femminili dei Guf, e nel marzo dell’anno successivo emanò per le Giovani fasciste norme simili a quelle dettate per i Fasci giovanili, stabilendo che le iscritte ai Gruppi potevano tesserarsi a condizioni vantaggiose presso alcune federazioni (atletica leggera, ginnastica, nuoto, pallacanestro, scherma, sport invernali, pattinaggio a rotelle e tennis), e che ogni delegazione provinciale doveva formare un gruppo sportivo, affiliato al Coni. Il tesseramento, a differenza di quanto avveniva tra i Giovani fascisti di sesso maschile, non era obbligatorio, né il Pnf pensava che lo sport dovesse essere praticato da tutte le iscritte alle organizzazioni. Starace, inoltre, prescrisse che le attività femminili fossero rigidamente separate da quelle maschili e che fossero finalizzate prevalentemente a rafforzare il corpo in vista della maternità [50]. Ciò nonostante, il cambiamento rispetto al passato era evidente. Nel corso dell’«accelerazione totalitaria» le organizzazioni istituirono anche i campionati nazionali femminili: quelli delle Giovani fasciste iniziarono nel 1936 e quelli delle gufine nel 1937 (e dall’anno successivo assunsero la denominazione di Littoriali femminili dello sport). Il Dopolavoro, a sua volta, nel 1936 organizzò il suo primo concorso ginnico-atletico femminile nazionale.

Per le donne, tuttavia, non si poneva il problema della concorrenza tra “sport fascista” e “sport ufficiale”, perché in entrambi i sistemi la partecipazione femminile era molto meno sviluppata di quello maschile.


6. Riforme sportive tra il 1939 e il 1942

Nell’ottobre del 1939, com’è noto, Achille Starace perse la carica di segretario del Pnf e di presidente del Coni. Nella sua lunga gestione, Starace aveva cercato di incrementare quanto più possibile le attività sportive delle organizzazioni del regime, ma aveva anche riconosciuto un ruolo importante alle società “indipendenti” e alle federazioni nazionali, rendendosi conto che le loro competenze erano fondamentali per elevare il livello delle attività sportive e per allevare campioni.

Starace fu sostituito da Ettore Muti alla segreteria del partito e da Rino Parenti alla presidenza del Coni. Il regime era indirizzato sempre più verso il totalitarismo, anche a causa del clima bellicista che si era diffuso in seguito allo scoppio della guerra in Europa, e per lo sport furono emanate nuove riforme, che concernevano soprattutto la questione dell’appartenenza degli atleti. La prima riforma, emanata nel novembre 1939, stabilì che i Guf dovevano costituire per ogni disciplina praticata una Società autonoma sportiva (Sasguf). Le Sasguf erano diverse dalle precedenti sezioni sportive, perché gli atleti universitari erano obbligati a militare sotto le sue insegne. La normativa, infatti, prevedeva che gli studenti tesserati presso club privati passassero alle Sasguf e che queste ultime trasferissero alle società gli atleti che perdevano la qualifica di studente. Solo nelle provincie nelle quali non era possibile istituire le società studentesche, gli universitari erano autorizzati a militare in altre società [51]. Nella sostanza la riforma confermava i principi del Rapporto di Firenze, ma stabiliva anche il modo per applicarli. Tuttavia il regime si rendeva conto che negli sport professionistici non era possibile chiedere agli atleti, che erano lautamente retribuiti, di militare gratuitamente per il proprio Guf e perciò per tre sport (calcio, ciclismo e pugilato) esentò gli sportivi professionisti dall’iscrizione alle Sasguf.

La nuova norma, se applicata, sarebbe stata rilevante soprattutto per gli sport di squadra. Come si è detto, molti Guf avevano formato squadre che gareggiavano nei campionati “ufficiali”, ma molti studenti militavano nelle altre formazioni e, con la nuova normativa, sarebbero dovuti passare alla loro Sasguf. Tuttavia, lo scoppio della guerra impedì che il passaggio degli atleti fosse completato. La riforma, del resto, aveva le medesime debolezze del Rapporto di Firenze, giacché pretendeva di stabilire dall’alto l’appartenenza degli atleti e di imporre un cambio di casacca che molti non gradivano.

Nemmeno dopo la defenestrazione di Starace, però, il regime si propose di smantellare completamente le società sportive. Rino Parenti, al contrario, dichiarò che intendeva rafforzarle:

Proponimento del C.O.N.I. sarà quello di favorire la rinascita delle società sportive, molte delle quali hanno tradizioni fulgidissime e vantano un passato famoso. Dalle società rinvigorite e potenziate, alle quali saranno affidati gli atleti che avranno raggiunto limiti di età e atletici che saranno da stabilire, il C.O.N.I. si attende la più fervida ed entusiastica collaborazione [52].

Parenti si aspettava che il regime emanasse nuove riforme, che in realtà non arriveranno. Il Pnf, infatti, si limitò ad emanare delle «Direttive di massima per il C.O.N.I.», che stabilivano che i giovani, dal quattordicesimo anno di età, si dovevano specializzare secondo il metodo dello sport agonistico e prescrivevano che il Comitato dovesse

operare, sempre in collaborazione con la G.I.L. e con i G.U.F., il perfezionamento giovanile negli sport essenziali dal punto di vista olimpionico e dal punto di vista della preparazione militare, e cioè: nuoto, corsa, salto, lancio, pugilato, calcio, sport invernali, tiro a segno, ippica, ecc. [53].

Nella sostanza, le direttive ribadivano le norme già stabilite in precedenza.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, le attività sportive delle organizzazioni fasciste non si interruppero del tutto, ma la loro importanza scemò. Molti iscritti erano al fronte e l’attenzione per l’atletismo non poteva non diminuire: il regime aveva sostenuto per anni che lo sport serviva a creare soldati migliori; era giunto il momento nel quale gli italiani, temprati dalle attività atletiche, dovevano dimostrare il loro valore sui campi di battaglia.

Ciò nonostante, nel 1941 furono introdotte nuove norme per regolare i rapporti tra organizzazioni fasciste e società “indipendenti”. Il regime già guardava al “nuovo ordine mondiale” che avrebbe instaurato dopo la vittoria, nel quale lo sport avrebbe avuto un ruolo centrale. Sul piano internazionale, sin dal 1939 era in discussione la fondazione di una nuova confederazione universitaria, l’Organizzazione studentesca olimpica [54]. Sul piano interno, fu rafforzato il Coni, che nel 1942 fu riconosciuto come ente di diritto pubblico, dotato di organi territoriali e parificato alle amministrazioni dello Stato per gli effetti tributari, il che consentiva di aumentare i fondi a disposizione [55]. Un’altra riforma interessò l’educazione fisica scolastica, che nel gennaio del 1941 fu equiparata alle altre materie, a ulteriore testimonianza del desiderio di migliorare la prestanza atletica dei giovani.

In merito ai rapporti tra “sport fascista” e “sport ufficiale”, il regime continuò a spingere per incrementare l’attivismo delle organizzazioni e per accrescere la loro partecipazione alle gare delle federazioni. Nel 1941 la Gil, l’Ond e la Milizia furono invitate a costituire, come i Guf, vere e proprie società sportive. Più specificamente la Gil doveva creare in ogni provincia un proprio Gruppo polisportivo, con sezioni per i singoli sport, affiliate alle federazioni nazionali.

Per l’Ond, in marzo il partito decretò che dovevano essere istituite sezioni per una o due discipline a scelta tra atletica leggera, nuoto, ginnastica e scherma. L’accordo precisava anche che i rappresentanti del Coni sarebbero entrati a far parte degli organi del Dopolavoro e viceversa, come era già previsto per Guf e Gil [56]. L’Ond, in tal modo, superava l’approccio dello sport ricreativo per dedicarsi anche ad attività agonistiche, sia pure in un numero limitato di discipline.

Misure simili furono stabilite per la Milizia, che il 23 giugno 1941 sottoscrisse un accordo con il Coni per la costituzione di società sportive. Le camicie nere, secondo la normativa, dovevano praticare soprattutto l’atletica leggera, lo sci, il nuoto e gli sport di combattimento [57].

I nuovi i provvedimenti furono celebrati dalla pubblicistica come la definitiva sistemazione dell’atletismo italiano [58], ma la realtà era molto diversa, perché la guerra stava riducendo drasticamente le possibilità di dedicare attenzioni allo sport. Non a caso, molte competizioni furono sospese. I Littoriali maschili furono organizzati per l’ultima volta nel 1940 e quelli femminili nel 1942. I Guf, la Gil e le altre organizzazioni continuarono a promuovere iniziative fino alla caduta del regime, ma i partecipanti erano pochi e l’attenzione del pubblico e della stampa pressoché nulla.

La guerra, inoltre, impedì che i provvedimenti presi tra il 1939 e il 1942 fossero pienamente applicati e le polemiche tra società e organizzazioni del regime non terminarono, perché entrambi i “contendenti” lamentavano di essere danneggiati dall’altro e rivendicavano il diritto ad avere un ruolo più ampio nello sport di massa [59]. Le nuove norme, del resto, non superavano il dualismo tra “sport fascista” e “sport ufficiale”: anche nei suoi ultimi anni, il regime non spinse fino in fondo la totalitarizzazione dello sport.


7. Bilancio ed eredità della politica sportiva fascista

In tutto il Ventennio, la coesistenza di sport “fascista” e sport “ufficiale” si rivelò piuttosto caotica, perché il regime non riuscì mai a definire con chiarezza le competenze e i limiti dei due sistemi. Tutte le riforme, dalla Carta dello sport in avanti, furono presentate come la soluzione definitiva, che avrebbe garantito uno sviluppo poderoso e armonico dello sport italiano, ma la normativa, come si è visto nel corso del lavoro, era intrinsecamente debole. Dalla fine degli anni ’20 alla metà degli anni ’30 il regime si propose di far praticare lo sport di massa nelle organizzazioni e di lasciare alle società sportive la specializzazione degli atleti e le attività di alto livello, ma per le società era impossibile operare adeguatamente senza un’attività di massa, che, se non altro, era fonte di introiti. Il tentativo successivo, introdotto dal rapporto di Firenze e perfezionato dal 1939 in avanti, era ancora più problematico, sia perché voleva far svolgere le attività di alto livello in organizzazioni che non sempre avevano le competenze e le strutture necessarie, sia perché pretendeva di far cambiare casacca agli atleti. Non a caso molti sportivi, pur appartenendo alle organizzazioni fasciste continuarono a militare per le società “indipendenti”.

Il fascismo, del resto, non cercò mai di portare tutto lo sport sotto l’egida delle sue organizzazioni, nemmeno nella fase dell’«accelerazione totalitaria». Per certi aspetti, la convivenza tra “sport fascista” e “sport ufficiale” rispecchiava la più generale politica del regime, seguita anche in altri ambiti: non smantellare il sistema preesistente, ma porlo per quanto possibile sotto il proprio controllo (si pensi all’atteggiamento verso la monarchia, verso un’istituzione come il Senato o verso un corpo di pubblica sicurezza come la polizia) e affiancarlo quando possibile a istituzioni più strettamente fasciste.

Nella scelta di non smantellare le società sportive “indipendenti” giocavano un ruolo anche i rapporti di forza tra gerarchi e la parcellizzazione del potere. Molte società e federazioni erano sotto il controllo dei dirigenti fascisti, che se ne servivano per esercitare la loro influenza sul territorio, e il principio del divide et impera, ampiamente seguito da Mussolini, imponeva che fosse lasciata loro una fetta di potere.

La situazione italiana era simile a quella di altri regimi autoritari e totalitari, i quali, pur volendo gestire dall’alto le attività sportive, non rimossero completamente le società “indipendenti”. Si pensi, per esempio, alla Germania di Hitler o alla Spagna di Franco, nelle quali il ruolo dei pubblici poteri era enorme (in particolare in Germania), ma conviveva con un sistema sportivo preesistente. Diverso era il caso dell’Unione Sovietica, nella quale il ruolo dello Stato nello sport era pressoché totalitario, ma era agevolato dalle caratteristiche specifiche del sistema sovietico e dalla debolezza del sistema sportivo preesistente [60].

In Italia, nelle attività di alto livello la funzione delle società era più importante di quella delle organizzazioni pressoché in tutti gli sport. Solo i Guf avevano un ruolo significativo nell’allevamento dei campioni, ma quasi tutti i gufini che gareggiavano a livello internazionale effettuavano la propria preparazione nell’ambito delle società “indipendenti”, gareggiando per la propria organizzazione solo in occasione delle competizioni universitarie. In altre parole, molti dei gufini più talentuosi erano atleti di società indipendenti “prestati” ai Guf in alcune occasioni. Lo stesso avveniva nelle altre organizzazioni. Si pensi, per esempio, ai ciclisti che facevano parte dei Fasci giovanili, alcuni dei quali divennero campioni di alto livello, ma gareggiavano e si allenavano soprattutto nelle società “indipendenti”.

La coesistenza di sport “fascista” e sport “ufficiale”, come si è accennato, comportò anche una moltiplicazione, spesso caotica, di campionati e competizioni, ai quali gli stessi atleti partecipavano a seconda dei casi sotto le insegne delle loro società o delle organizzazioni.

Un altro limite della politica fascista fu la pretesa, evidente soprattutto negli anni di Starace, di imporre la pratica dello sport a tutti e di voler scegliere le discipline che i membri delle organizzazioni dovevano privilegiare. Queste imposizioni non spinsero i giovani a partecipare alle attività sportive: molti di loro gareggiavano svogliatamente in qualche competizione (quando non riuscivano a trovare escamotage per sottrarsi), ma non si dedicavano allo sport in maniera continuata.

Il Pnf, infatti, non riuscì a far praticare sport a tutti i membri delle sue organizzazioni giovanili. Anche nei Guf, nonostante misure come il brevetto obbligatorio, una parte degli iscritti non faceva sport. Si considerino i dati sulla partecipazione agli Agonali che, come si è detto, in teoria era obbligatoria per tutti i gufini: secondo lo stesso Pnf, nel 1938 in tutte le università italiane presero parte alle competizioni circa 10.000 studenti; nel 1939 11.325 studenti e 3.055 studentesse [61]. Erano cifre imponenti, ma nettamente minoritarie rispetto al totale degli universitari, che nel 1939 erano 77.429 [62].

I risultati dello “sport fascista” furono inferiori alle aspettative anche sul piano politico. L’approccio del Pnf alle attività sportive, infatti, non contribuì a fascistizzare i giovani, molti dei quali vedevano come una seccatura gli obblighi previsti dalle organizzazioni. Inoltre, le celebrazioni del culto del littorio, associate sempre agli eventi sportivi delle organizzazioni, creavano solo un consenso superficiale. I giovani partecipavano ai riti, in maniera più o meno convinta, perché costretti a farlo, ma almeno una parte di loro non gradiva essere coinvolta [63]. Era un problema che riguardava tutta la politica fascista, che privilegiava l’esteriorità e pretendeva di imporre dall’alto un credo politico precostituito, il che creava non pochi malumori nei giovani, soprattutto dalla fine degli anni ’30 [64].

In sostanza, lo sport non riuscì a creare l’“uomo nuovo”, come il regime desiderava: di fronte alla prova decisiva della seconda guerra mondiale, Mussolini dovette rendersi conto che la rivoluzione antropologica era fallita.

Tuttavia, i limiti della politica sportiva e della coesistenza di “sport fascista” e “sport ufficiale” non significano che il ruolo delle organizzazioni fasciste nella promozione dello sport non fosse stato importante. Al contrario, esse contribuirono in maniera rilevante alla diffusione dello sport di massa, in particolare perché “portarono” le attività fisiche anche nelle categorie sociali e negli ambienti che ne erano più lontani, come le campagne (sebbene permanessero differenze rispetto ai ceti urbani e tra il Nord e il Sud del Paese). Le organizzazioni, inoltre, fecero aumentare la popolarità degli sport che, richiedendo poche attrezzature, erano già diffusi (il calcio, l’atletica leggera e il ciclismo) e ne introdussero altri, che prima erano sconosciuti o diffusi pochissimo (pallacanestro, sci, nuoto, rugby, ecc.), mettendo attrezzature e risorse a disposizione degli interessati. In altre parole, le organizzazioni consentirono di praticare sport a molti giovani che diversamente non avrebbero potuto praticarlo. Questo valeva anche per i Guf: molti aspiranti atleti sceglievano di fare sport al loro interno, anche quando nutrivano perplessità verso il regime, perché potevano partecipare a competizioni importanti.

Il Guf – ha ricordato nel 2003 Ruggero di Palma Castiglione, iscritto al Gruppo di Pisa e partecipante ai Littoriali invernali – era visto un po’ come un organismo in cui c’erano dei lati da sfruttare: per esempio soprattutto i Littoriali dello sport, per uno che era bravo, offrivano molte possibilità… penso a Carlo Alberto Ricci, figlio di un avvocato, noto antifascista e anche lui sulle stesse posizioni, che nonostante questo fece parte dell’otto di canoa che, credo, vinse i Littoriali [65].

Questa posizione era condivisa da molti gufini.

Per quanto concerne l’allevamento di atleti di alto livello, le organizzazioni fasciste non furono la fucina di campioni che il Pnf si aspettava, ma in alcuni casi dal loro interno emersero atleti degni di nota. La maggior parte proveniva dai Guf, ma in qualche occasione anche altre organizzazioni “produssero” futuri campioni. Per esempio Adolfo Consolini, vincitore della medaglia d’oro di lancio del disco alle Olimpiadi di Londra del 1948, aveva iniziato a gareggiare nei Fasci giovanili nel 1937 e aveva poi militato nella Gil, prima di passare a società private.

Inoltre, le politiche sportive del regime e, più specificamente, il sistema dello sport “fascista”, fecero sentire la loro influenza dopo la seconda guerra mondiale, quando la loro eredità fu raccolta da nuovi gruppi. Anzitutto, i partiti politici del dopoguerra ripresero il principio di usare lo sport ai fini della creazione del consenso e della socializzazione politica dei militanti, fondando apposite associazioni. Nell’area cattolico-atlantica la più importante era il Centro sportivo italiano, costituito dall’Azione cattolica nel 1944, mentre nel campo socialcomunista, invece, nel 1948 nacque l’Unione italiana sport popolare (Uisp, oggi Unione italiana sport per tutti) [66]. Queste associazioni per molti aspetti raccoglievano l’eredità delle organizzazioni fasciste, sebbene il contesto fosse completamente cambiato e la ricerca del consenso, nell’ambito di una democrazia parlamentare, avesse finalità e forme diverse.

Nel dopoguerra, inoltre, nacquero altre associazioni, non legate direttamente ai partiti, che a loro volta raccoglievano l’eredità delle organizzazioni fasciste. Per esempio nelle università furono fondati i Centri sportivi universitari, che si proponevano di continuare l’impegno sportivo dei Guf (non a caso, il principale promotore dello sport universitario del dopoguerra, Primo Nebiolo, era un ex atleta del Guf di Torino), ma senza imporre l’obbligo della partecipazione agli studenti.

Naturalmente, nell’Italia repubblicana il rapporto tra lo sport indipendente e le associazioni legate ai partiti o al mondo dell’istruzione era del tutto diverso. Nonostante la politicizzazione, nessuno poteva pretendere di imporre dall’alto l’appartenenza degli atleti a questa o a quella organizzazione né di decidere quali sport si dovessero praticare. Questo cambiamento, associato all’evoluzione più generale della società italiana, consentì uno sviluppo più genuino e spontaneo delle attività sportive.


NOTE

[1] Il concetto di uomo nuovo, pur andando incontro a un’evoluzione nel corso degli anni, conservò le caratteristiche principali per tutto il Ventennio. Tra i vari studi che lo hanno preso in esame cfr. L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, a cura di P. Bernhard, L. Klinkhammer, Roma, 2017; G. Gori, Model of Masculinity: Mussolini, the “New Italian” of the Fascist Era, in The International Journal of the History of Sport, XVI, 4, 1999, pp. 27-61; A. Vittoria, Uomo nuovo, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia, S. Luzzatto, Torino, 2002, II, pp. 765-767.

[2] Gli studi sullo sport durante il fascismo sono piuttosto numerosi. Tra gli altri si vedano F. Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Rimini-Firenze, 1976; P. Dogliani, Sport and fascism, in Journal of Modern Italian Studies, V, 3, 2000, pp. 326-348; A. Bacci, Lo sport nella propaganda fascista, Torino, 2002; Sport e fascismo, a cura di M. Canella, S. Giuntini, Milano, 2009; E. Landoni, Gli atleti del Duce. La politica sportiva del fascismo 1919-1939, Udine, 2016.

[3] Numerosi storici si sono soffermati sulla segreteria di Augusto Turati. Si vedano S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, 2005, pp. 147-157; P. Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma partito del fascismo, Bologna, 1983, pp. 19-122; R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Torino, 1995, pp. 175-200.

[4] Cfr. E. Fonzo, Il nuovo goliardo. I Littoriali dello sport e l’atletismo universitario nella costruzione del totalitarismo fascista, Roma, 2020, pp. 65-73.

[5] A. Molinari, Correre in camicia nera, in corso di pubblicazione in Storia dello sport. Rivista di studi contemporanei, III, 2022. Ringrazio l’autore per avermi consentito di leggere il suo contributo prima che fosse pubblicato.

[6] Cfr. F. Bonini, Le istituzioni sportive italiane: storia e politica, Torino, 2006, pp. 105-115.

[7] P. Dogliani, CONI e sport fascista, in Il Coni nella storia dello sport e dell’Italia contemporanea, a cura di F. Bonini, A. Lombardo, Roma, 2015, pp. 107-120.

[8] Il testo fu pubblicato dal mensile Lo Sport fascista, gennaio 1929.

[9] Relazione di Scorza a Mussolini, 11 luglio 1931, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Archivi degli organi e delle istituzioni del regime fascista (d’ora in poi AF), Segreteria particolare del Duce (d’ora in poi SPD), Carteggio riservato (d’ora in poi CR), b. 33, fs. «Riunione del direttorio del 14-7-1931».

[10] Si vedano le circolari diramate da Scorza, conservate in ACS, AF, Partito nazionale fascista (d’ora in poi PNF), Direttorio nazionale (d’ora in poi DN), Servizi serie I (d’ora in poi S I), b. 20, nonché il quotidiano Il Littoriale, 20 agosto 1931.

[11] Circolare, datata 2 dicembre 1931 e conservata in ACS, AF, PNF, DN, Segreteria dei Guf (d’ora in poi SG,) b. 2, fs. 8.

[12] Atti del Partito nazionale fascista, Palombi, Roma – Il Resto del Carlino, Bologna, 1932-1941 (d’ora in poi Atti PNF, seguito dall’indicazione dell’anno dell’era fascista, dell’anno cristiano, del numero del tomo e del numero di pagina), XII – 1933/1934, circolare di Starace del primo novembre 1933, I, pp. 485-492.

[13] L’Ulic (Unione libera italiana del calcio), nata nel 1917, era stata fino al 1927 una federazione separata dalla Figc e si era occupata dell’organizzazione di campionati per i giovani. Nel 1927 fu inglobata nella Figc e continuò a organizzare iniziative per i calciatori più giovani.

[14] Il testo è pubblicato in Atti PNF, X – 1931/32, disposizioni del 4 febbraio 1932, pp. 99-100. Sulla storia del calcio durante il regime, che è stata presa in esame da diversi studiosi, si vedano almeno S. Martin, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, 2006; G. Panico, A. Papa, Storia sociale del calcio in Italia. I. Dal club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Bologna, 1993.

[15] Si veda, per esempio, l’accordo con la Federazione italiana di atletica leggera, pubblicato in Atti PNF, X – 1931/32, disposizioni del 17 febbraio 1932, pp. 109-110.

[16] ASConi, CG, seduta del 4 ottobre 1933.

[17] Relazione di Giorgio Vaccaro al Consiglio generale del Coni, 20 dicembre 1933, in Archivio storico del Coni (d’ora in poi ASConi), Consiglio generale (d’ora in poi CG). L’accordo non includeva il Dopolavoro perché era già risultata «sufficientemente chiara la delimitazione programmatica».

[18] ASConi, CG, seduta del 29 settembre 1934.

[19] Comunicazione s.d. (ma certamente del 1934) in ACS, AF, PNF, DN, S I, b. 361.

[20] ASConi, CG, seduta del 29 settembre 1934.

[21] Si veda, tra le altre, la circolare del 16 novembre 1935 di Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, in ACS, AF, PNF, DN, Servizi serie II (d’ora in poi S II), b. 429.

[22] ASConi, CG, seduta del 4 ottobre 1933.

[23] ASConi, CG, seduta del 29 settembre 1934.

[24] Libro e moschetto, 20 aprile 1935.

[25] Per l’organizzazione della gara cfr. Atti PNF, XII – 1933/34, disposizione del 1 novembre 1933, p. 487. Per la classifica, La Gazzetta dello sport, 25 maggio 1934. Inoltre, il Giornale Luce B0493 del giugno 1934 mostrò alcune immagini della gara.

[26] ASConi, CG, seduta del 31 marzo 1934. Si veda anche il mensile dell’Unione velocipedistica italiana, Ciclismo d’Italia, febbraio 1934, che però riportava dati differenti: 364 società ciclistiche “indipendenti” e 860 fasci giovanili.

[27] La creazione dei reparti celeri fu annunciata da Giuriati in un discorso tenuto alla Scala di Milano il 19 aprile 1931, il testo del quale fu pubblicato in Il Popolo d’Italia e Corriere della sera, 20 aprile 1931.

[28] Cfr. Il Littoriale, 13 aprile 1933; Corriere della sera, 2 e 21 aprile 1933.

[29] La definizione è stata introdotta da E. Gentile, del quale si veda soprattutto Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2005, pp. 27-28. Tra i numerosi altri studi sulla fine degli anni ’30 cfr. R. De Felice, Mussolini il Duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, 2008, soprattutto pp. 156-253; P. Nello, Storia dell’Italia fascista 1922-1943, Bologna, 2020, pp. 309-376.

[30] Atti PNF, XIII – 1934/35, disposizione del 13 febbraio 1935, I, pp. 556-557.

[31] Sul brevetto si rimanda a E. Fonzo, Un provvedimento del fascismo per gli studenti universitari: il brevetto sportivo obbligatorio, in Annali di storia delle università italiane, XXIV, dicembre 2020, pp. 233-255.

[32] Atti PNF, XIV – 1935/36, circolare del 18 novembre 1935, pp. 578-584; circolare della segreteria ammnistrativa, 28 febbraio 1936, in ACS, AF, PNF, DN, S II, b. 429.

[33] Gli appunti preparatori del Rapporto sono conservati in ACS, AF, PNF, DN, SG, b. 36, fs. 579. La relazione di Starace è in Atti PNF, XIII – 1934/35, pp. 89-92. Tra i giornali cfr. Libro e moschetto, 1 agosto 1935; La Gazzetta dello sport, 31 luglio 1935; P. Fusar Poli, G.U.F. F.G.C., in Lo Sport fascista, settembre 1935.

[34] ASConi, CG, seduta del 7 novembre 1935.

[35] ASConi, CG, seduta del 7 novembre 1936.

[36] Cfr. La Gazzetta dello sport, 17 giugno 1938, che racconta brevemente la storia di queste società.

[37] Lettera di Vittorio Mussolini a Starace, 20 novembre 1935, lettere di Starace a Vittorio Mussolini e a Giorgio Vicinelli (segretario del Guf di Roma), 7 dicembre 1935; lettera di Vicinelli a Starace, 17 dicembre 1935, tutte in ACS, AF, PNF, DN, S I, b. 388.

[38] L. Ferretti, Sport e camicia nera, in Lo Sport fascista, ottobre 1936.

[39] Uno dei maggiori cronisti sportivi, Luigi Ferrario sostenne più volte questa tesi sulla La Gazzetta dello sport (per esempio, il 29 aprile, 18 novembre e 2 dicembre 1938). Si vedano inoltre, Il Popolo d’Italia, 15 novembre 1938 e Roma fascista, 16 novembre 1938, che auspicarono che tutti gli atleti universitari potessero gareggiare per i rispettivi Guf.

[40] E. Fonzo, Il nuovo goliardo, cit., pp. 217-223.

[41] Il Littoriale, 23 gennaio 1936.

[42] Circolare di Giovanni Marinelli, 15 marzo 1937, in ACS, AF, PNF, DN, S II, b. 429.

[43] E. Fonzo, Il nuovo goliardo, cit., pp. 183-184.

[44] Una sintesi del rapporto di Roma è in La Stampa, 5 febbraio 1938.

[45] ASConi, CG, seduta del 23 febbraio 1939.

[46] La Gazzetta dello sport, 9 maggio 1940.

[47] Dichiarò, per esempio, Vaccaro al Consiglio generale del Coni nel febbraio 1939: «I rapporti tra il CONI e le organizzazioni che praticano gli sport (GUF, GIL e OND) si vanno sempre più precisando e perfezionando con reciproca utilità. La competenza specifica del CONI e l’efficienza dei suoi quadri sono riconosciuti sempre più come fattori indispensabili a favorire i più razionali sviluppi dei compiti che nella propaganda e nella pratica sportiva hanno quelle organizzazioni. Giova ricordare che il solidale cameratismo che impronta i rapporti tra queste ed il CONI è frutto della vigile e unica guida del Segretario del Partito». ASConi, CG, seduta del 23 febbraio 1939.

[48] Uno degli studi più approfonditi sullo sport femminile negli anni del regime è quello di G. Gori, Italian Fascism and the Female Body. Sport, Submissive Women and Strong Mother, Routledge, New York-London, 2004. Cfr. inoltre S. Morgan, Lo sport femminile nell’epoca fascista, in Donna e sport, a cura di M. Canella, S. Giuntini, I. Granata, Milano, 2019, pp. 113-135.

[49] E. Fonzo, Il nuovo goliardo, cit., pp. 146-155.

[50] Atti PNF, XIV – 1935/36, I, circolare del 28 marzo 1936, pp. 713-714.

[51] Il testo dell’accordo tra il Pnf e il Coni è in Atti PNF, XVIII – 1939/40, II, pp. 35-40. Le Sasguf, dovevano essere costituite per numerosi sport: atletica leggera, atletica pesante, calcio, ciclismo, canottaggio, equitazione, ginnastica, sport invernali, golf, hockey su prato, nuoto e pallanuoto, pallacanestro, pentathlon moderno, pugilato, rugby, tennis, tiro a volo, scherma, vela, automobilismo e motonautica.

[52] Intervista rilasciata a La Gazzetta dello sport, 16-17 dicembre 1939.

[53] Una copia del testo delle Direttive, datate 26 dicembre 1939, è conservata in ACS, AF, PNF, DN, S II, b. 265.

[54] Promemoria del 14 ottobre 1939, in ACS, AF, PNF, DN, S I, b. 359.

[55] F. Bonini, Le istituzioni sportive italiane, cit., pp. 115-116.

[56] I testi degli accordi furono pubblicati in Atti PNF, XIX – 1940/41, disposizioni del 19 marzo e 17 aprile 1941, II, pp. 311-313 e 362-363.

[57] Il testo dell’accordo fu pubblicato dai giornali, tra i quali La Stampa, 24 giugno 1941.

[58] Si veda per esempio S. Favre, Tutti verso l’agonistica, in Lo Sport fascista, maggio 1941.

[59] Cfr. F.A.G. Fabrizio, Sportivi, a noi! Le attività motorie nell’Italia in guerra, 1939-1943, Roma, 2018, pp. 63-69.

[60] Cfr. J. Riordan, Sport in Soviet society. Development of sport and physical education in Russia and the USSR, Cambridge, 1980.

[61] Per i dati del 1938, cfr. Atti PNF, XVI – 1937/38, disposizione del 29 maggio 1938, III, p. 465; per il 1939, Atti PNF, XVII – 1938/39, disposizione del 26 giugno 1939, II, pp. 590-591.

[62] La cifra è riportata da L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Torino, 2003 p. 191.

[63] Si veda per esempio la testimonianza di Margherita Hack, iscritta al Guf di Firenze e littrice di salto in lungo e in alto nel 1940: M. Hack, La mia vita in bicicletta, Portogruaro (Venezia), 2017.

[64] Sulle organizzazioni giovanili si sono soffermati numerosi studiosi. Per molti anni ha prevalso la tesi secondo la quale esse, e in particolare i Guf, erano state fallimentari e avevano costituito quasi una palestra di antifascismo. Ricerche più recenti hanno evidenziato come le organizzazioni avessero dato un contributo importante alla diffusione dei miti del regime, ma anche come la creazione del consenso e la fascistizzazione delle nuove generazioni fossero spesso superficiali. Cfr., tra gli altri, L. La Rovere, Storia dei Guf, cit.; S. Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda 1930-1940, Roma, 2007; T. Baris, Il mito della giovinezza tra realtà e retorica nel regime fasciste, in Dalla trincea alla piazza, L’irruzione dei giovani nel Novecento, a cura di M. De Nicolò, Roma, 2012, pp. 185-204; L. La Rovere, Miti e politica per la gioventù fascista, ivi, pp. 205-220; O. Stellavato, Gioventù Fascista: l’Opera nazionale Balilla, Tesi di dottorato, Università di Roma Tre, 2008; Ch. Duggan, Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista, Roma-Bari, 2013.

[65] Intervista rilasciata nel gennaio 2003 a S. Duranti, Studiare nella crisi. Intervista a studenti universitari negli anni del fascismo, Grosseto, 2011, p. 80.

[66] Sullo sport popolare del secondo dopoguerra si vedano F. Archambault, Il controllo del pallone. I cattolici, i comunisti e il calcio in Italia (1943-anni Settanta), Firenze, 2022; B. Di Monte, S. Giuntini, I. Maiorella, Di sport, raccontiamo un’altra storia. Sessant’anni di sport sociale in Italia attraverso la storia dell’UISP, Roma, 2008.