Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Dagli sport a violenza necessaria agli sport ad aggressione regolata (di Giangabriele Agrifoglio, Ricercatore di Diritto privato nell’Università degli Studi di Palermo. Avvocato)


L’articolo analizza il concetto tradizionale di sport a violenza necessaria e propone la sostituzione di tale definizione con quella di sport ad aggressione regolata. Lo scopo del lavoro è quello di delineare la differenza tra azioni violente e attività sportive. L’uso della violenza, infatti, è incompatibile con la pratica dello sport.

From sports to necessary violence to sport with regulated aggression

Parole chiave: diritto sportivo, violenza, boxe

The article analyzes the traditional concept of necessary violence sport and proposes the replacement of this definition with that of regulated aggression sport. The aim of the work is to outline the difference between violent actions and sporting activities. The use of violence, in fact, is incompatible with the practice of sport.

Keywords: sports law, violence, boxe.

SOMMARIO:

1. Sport e violenza: due termini tra loro incompatibili - 2. Il paradosso della boxe: tra dovere di aggressione e tutela della salute degli atleti - 3. Sport ad aggressione regolata e liceità della causa dell’accordo - 4. Le regole tecniche di sicurezza quale parametro di liceità delle attività sportive ad aggressione regolata - 5. Conclusioni: principio di lealtà sportiva e dovere di rispetto per la vita dell’avversario - NOTE


1. Sport e violenza: due termini tra loro incompatibili

Il recente e tragico episodio che ha visto come protagonista un giovane italiano di ventun anni originario di Capo Verde, il quale ha perso la vita in seguito ad una violenta aggressione subita da soggetti che praticavano arti marziali miste [1] (MMA) [2] costituisce spunto per una riflessione critica sulla liceità delle attività sportive tradizionalmente definite a violenza necessaria [3]; attività sportive, le cui regole impongono lo scontro fisico con l’avversario. Orbene, pur dando per scontato che tale drammatica vicenda non abbia nulla a che vedere con gli sport da combattimento, il dibattito da essa prodotto impone ancora una volta di fare chiarezza sulla ontologica distinzione tra attività sportive che ammettono una aggressione fisica nei confronti di un avversario consenziente ed attività violente vietate dall’ordinamento giuridico. Ciò al fine di ribadire [4] che, sebbene il rischio di danni all’incolumità fisica sia spesso correlato all’esercizio dello sport, il concetto di violenza rimane ad esso estraneo. Nel presente lavoro si cercherà pertanto di mettere in rilievo come la definizione tradizionale di sport a violenza necessaria non colga l’essenza stessa di tale fenomeno giuridico, apparendo viceversa ontologicamente e metodologicamente più corretta la locuzione «sport da combattimento» o, come qui si vuol proporre, «sport ad aggressione regolata». L’uso della «violenza», infatti, intesa «in senso prototipico come un particolare atto inflitto al soggetto contro la sua volontà, qualora esso si traduca nella restrizione più o meno improvvisa della libertà di disporre di sé e del proprio corpo» [5], appare incompatibile con l’esercizio dello sport proprio perché l’attività sportiva è una attività «lecita», «regolata» e «libera» [6], per ciò stesso inconciliabile con qualsiasi atteggiamento di tipo coercitivo. Un comportamento violento, contrario all’altrui volontà, verrebbe ovviamente riprovato e non già consentito e promosso dall’ordinamento giuridico (si ricordi, per quanto riguarda il diritto civile, alla violenza quale vizio del consenso o, dal punto di vista penalistico, alla violenza che costituisce il presupposto di [continua ..]


2. Il paradosso della boxe: tra dovere di aggressione e tutela della salute degli atleti

Non è raro che nell’ambito dell’esercizio di arti marziali, o in generale di sport da combattimento, si possano verificare lesioni all’incolumità fisica degli atleti che ne possono comportare, nei casi più gravi, addirittura la morte. Molteplici sono state infatti, specialmente con riferimento allo sport del pugilato, ma anche in relazione ad altre tipologie di arti marziali come il Muay Thai [11], le vicende che hanno avuto quale epilogo la morte di sportivi e che hanno fatto addirittura discutere sull’opportunità di abolire tali sport [12]. Mentre però in passato la polemica su tali episodi veniva attutita dalla distanza nello spazio e nel tempo – dato che essi non venivano conosciuti dall’opinione pubblica e difficilmente potevano essere trasmessi in diretta e persino in differita – nell’epoca del­l’informazione telematica bastano pochi secondi per vivere tali drammi in diretta nell’eterno presente di internet. Occorre tuttavia anticipare come, probabilmente, molti di tali eventi infausti avrebbero potuto essere evitati sol che gli atleti fossero stati sottoposti ad accertamenti medici più accurati, ovvero che gli arbitri o gli altri soggetti deputati ad assicurare tanto il rispetto delle regole quanto la protezione dell’integrità psicofisica dei combattenti (medici sportivi e/o «secondi») [13] fossero intervenuti per interrompere l’incontro applicando, appunto, le regole proprie di tali sport. Basti un esempio su tutti. Risale al 24 marzo 1962 uno degli episodi più sanguinosi della storia del pugilato professionistico moderno; si trattava dell’incontro tra Emile Griffith e Benny Paret valevole per il titolo mondiale. Alla dodicesima ripresa Paret subì un KO, dopo essere stato colpito alla testa per ben ventinove volte prima che l’arbitro fermasse il match; Paret entrò in coma dopo l’incontro e morì dieci giorni dopo. Chiunque abbia, per rimanere nel gergo pugilistico, il fegato di guardare tale ripresa non potrà fare a meno di pensare che l’arbitro avrebbe dovuto interrompere il match sol che avesse applicato le regole adottate dall’ordinamento sportivo le quali gli a­vrebbero imposto di porre fine all’incontro nel caso di evidente inferiorità fisica di uno dei due pugili. Non a caso è bene precisare sin da [continua ..]


3. Sport ad aggressione regolata e liceità della causa dell’accordo

Nonostante la pratica di sport da combattimento sia stata ritenuta meritevole di tutela anche a fronte della sua potenziale pericolosità per l’incolumità fisica dei gareggianti, si è posto il problema del suo possibile contrasto con alcuni valori dell’ordina­mento giuridico. Più precisamente, secondo una risalente dottrina, tali sport si porrebbero infatti in contrasto con l’art. 5 c.c.: l’attività pugilistica, è stato affermato, comporterebbe non soltanto la possibilità di produrre diminuzioni permanenti alla integrità fisica, ma addirittura «un’alta probabilità di produrle: i casi di distacco della retina, di indebolimento permanente di certi organi, di pugili che si ritirano dall’attività completamente suonati e trascinano il resto della propria vita in uno stato prossimo all’ebetismo sono talmente frequenti che confortano energicamente questa tesi» [34]. Da qui l’illiceità della causa del contratto con il quale il pugile si impegna ad esercitare la propria attività sportiva; mancherebbe infatti qualsiasi interesse meritevole di tutela tanto nell’impegno contrattuale del pugile di offendere volontariamente l’altrui integrità fisica, quanto nel consenso da lui prestato a subire lesioni da parte dell’avver­sario; tale consenso, di volta in volta manifestato direttamente dai pugili, ovvero dai procuratori eventualmente delegati a rappresentarli nella contrattazione, sarebbe pertanto privo di effetti [35]. In tale ottica l’art. 5 c.c. si sarebbe dovuto interpretare in maniera estensiva; esso non vieterebbe soltanto i comportamenti che cagionino con certezza lesioni permanenti dell’integrità fisica, ma anche quelli che comportino la sola probabilità di tali lesioni; se così non fosse infatti, «l’ambito degli atti proibiti sarebbe estremamente ristretto» [36], laddove viceversa la lettera di tale norma «minus dicit di quanto il legislatore abbia inteso» [37]. Né al fine di giustificare tale attività e di superare tale divieto legislativo, sempre secondo tale opinione, si sarebbero potute invocare le norme federali, dato che esse non avrebbero avuto alcuna efficacia poiché, alla stregua di consuetudini contra legem, avrebbero interessato settori di attività punite o [continua ..]


4. Le regole tecniche di sicurezza quale parametro di liceità delle attività sportive ad aggressione regolata

Alla luce delle superiori considerazioni si ha pertanto l’impressione che il problema della liceità degli sport ritenuti tradizionalmente violenti sia stato sinora erroneamente affrontato in un’ottica «sanzionatoria» volta a delineare i confini della imputabilità del danneggiante piuttosto che i limiti posti dall’ordinamento all’autonomia del danneggiato di ricercare attraverso lo sport le proprie soddisfazioni esistenziali o economiche [52]. In altri termini, l’attenzione della giurisprudenza e della dottrina si è sovente focalizzata sulla ricerca di una causa di giustificazione che potesse scriminare condotte lesive del danneggiante ritenute altrimenti illecite sulla base dei tradizionali valori dello Stato. Sembrerebbe tuttavia più opportuno, specie sulla base della crescente attenzione del legislatore per gli aspetti «esistenziali» del diritto alla salute e dei correlati atti di disposizione del proprio corpo, analizzare il fenomeno degli sport da combattimento da un punto di osservazione più vicino alla posizione del potenziale danneggiato; «non altri che quest’ultimo, infatti, può assumersi il rischio di un danno che gli incomba» [53]. È, in altri termini, al potenziale soggetto attivo dell’obbligazione risarcitoria che bisognerà rivolgere l’attenzione al fine di valutare la meritevolezza di tutela dell’atto di autonomia privata con il quale egli dispone del proprio corpo come strumento di soddisfazione esistenziale e/o economica, accettando le regole del gioco e rinunciando così ad un’eventuale azione nei confronti del danneggiante. Il grado di accettazione di tale rischio, che nel caso degli sport da combattimento coincide con il grado di «violenza» accettata (rectius, con la istituzionalizzata possibilità di subire l’altrui aggressione) sarà direttamente proporzionale al livello nel quale si svolge l’attività sportiva; con la conseguenza che esso sarà ovviamente maggiore negli sport da combattimento esercitati a livello dilettantistico e, ancor di più in quelli esercitati a livello professionistico, ove l’interesse dell’atleta al raggiungimento della vittoria o del guadagno possono porsi in contrasto con la protezione della sua salute intesa come assenza di malattia. Esso sarà viceversa inferiore [continua ..]


5. Conclusioni: principio di lealtà sportiva e dovere di rispetto per la vita dell’avversario

Alla luce di quanto sinora rilevato si può dunque ritenere che nel momento in cui i combattenti «incrociano» i guanti, salutano l’arbitro e danno inizio alla gara sigillano tra loro ed agli occhi dell’ordinamento giuridico l’impegno di rispettare non soltanto le regole del gioco ma anche le norme di sicurezza predisposte dall’ordinamento sportivo e recepite dall’ordinamento statale [71]; norme di sicurezza che, come è stato osservato, vanno a riempire peraltro di contenuto le norme statali in materia di responsabilità civile ed in particolare l’art. 2043 c.c. [72]. Da quel momento gli atleti, i quali hanno volontariamente deciso di scontrarsi fisicamente, avranno il difficile compito – per l’adempimento del quale verranno ovviamente guidati dagli arbitri – di esprimere al massimo la propria combattività ma pur sempre nel rispetto dei diritti fondamentali dell’avversario. Si pensi, sempre con riferimento alla normativa federale, non soltanto alla regola menzionata all’inizio del presente lavoro che impone all’arbitro di «porre fine all’incon­tro ogni qualvolta ritenga che uno dei due pugili si trovi in stato di evidente inferiorità fisica o tecnica e non lo ritenga in grado di continuare l’incontro» [73], ma anche al divieto di incontri tra atleti «la cui differenza di peso sia superiore a quella che intercorre tra il limite massimo e quello minimo della categoria in cui rientra il pugile di peso minore», tra «pugili PRO uomini e pugili PRO donne», tra «pugili PRO terza serie e pugili PRO prima serie» [74]; divieti, questi, volti ad assicurare un equilibrio nel combattimento tanto che si tratti di incontri tra professionisti quanto che si tratti di incontri tra dilettanti [75]. La protezione della salute dei contendenti, quantomeno di quel minimum standard compatibile con l’esecuzione dei gesti atletici, fa dunque parte, come si è sopra osservato, delle stesse regole dello sport. Del resto, se le sopracitate regole di sicurezza non avessero previsto tutele volte a garantire in primis il rispetto per la vita umana, persino negli sport che impongono di percuotere l’avversario, tanto l’ordinamento sportivo che quello statale, si ripete, non avrebbero potuto considerare tali attività come meritevoli di tutela ma le [continua ..]


NOTE