Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Sport di contatto e responsabilità (di Tommaso Mauceri, Professore associato di Diritto privato nell’Università di Catania)


Per i danni che si producono nel corso dell’attività sportiva si ritiene sorga un’obbligazione risarcitoria soltanto se «la condotta materiale esorbita per violenza e contesto dalle finalità del gioco», ovvero se è ravvisabile un «difetto di collegamento funzionale tra l’azione lesiva ed il gioco». Questo orientamento, però, si fonda su argomenti non univoci e comunque sull’idea (data per lo più per scontata) che gli incidenti in questione siano riconducibili all’art. 2043 c.c. Respinta questa idea l’Autore ricerca il fondamento e l’identità della regola all’interno del diritto sportivo e, in tale ottica, suggerisce una distinzione tra attività agonistico-professionale e attività svolta, invece, a livello amatoriale.

Damage in contact sports

With regard to claims occurring in sports competitions, especially of a high professional level (and competitive tone), the main orientation is that there is standing for a remedy claim only if either «the material conduct exceeds for violence and context the purposes of the game», or if there is a «defect in the functional connection between the harmful action and the game». The Author analyzes the uncertain legal basis of this peculiar – however compelling – orientation and disputes the thesis according to which the problem belongs to art. 2043 of the Italian Civil Code. The essay is rooted in the classic themes of sports law and in the precets of what is usually called the «theory of the plularity of the legal systems».

Keywords: liability for damages, injury to health, relations between state and sporting regulations.

SOMMARIO:

1. Una soluzione operativa condivisa senza un fondamento normativo sicuro - 2. Il rischio sportivo come causa di giustificazione atipica - 3. Agonismo e ingiustizia del danno - 4. Pratica sportiva e criteri di imputazione soggettiva della responsabilità - 5. Incidenti negli sport di contatto come fattispecie non riconducibili all’art. 2043 c.c. - NOTE


1. Una soluzione operativa condivisa senza un fondamento normativo sicuro

All’inizio della finale di calcio Uefa Champions League 2017/18, v’è un duro scontro di gioco tra il difensore (e capitano) del Real Madrid F.C., Sergio Ramos, e l’attaccante egiziano del Liverpool F.C., Mohamed Salah. Mentre i due rotolano a terra, il primo afferra e blocca il braccio del secondo per brevi istanti, comunque sufficienti a provocargli un grave infortunio alla spalla che lo costringe ad abbandonare immediatamente il campo. Il Liverpool, orfano del suo prolifico attaccante, perde la partita. Poche settimane dopo è previsto l’inizio del campionato mondiale FIFA e, nell’interesse di Salah e della Federazione egiziana di calcio, viene annunciata un’in­gente azione risarcitoria contro Sergio Ramos, reo di aver intenzionalmente leso la salute del campione egiziano, pregiudicandone la partecipazione al mondiale (con prestazioni che poi saranno effettivamente scarse per quantità e qualità) [1]. Queste dichiarazioni, che non risulta abbiano avuto realmente un seguito giudiziario, hanno contribuito al dibattito nel quale, pur condividendosi che la trattenuta del braccio abbia costituito una gravissima scorrettezza, non giustificata in alcun modo dalla specifica dinamica dell’azione di gioco (di già interrottasi) [2], è comunque parsa destituita di fondamento (se non del tutto balzana) l’idea di un’azione risarcitoria [3]. Del resto, se si fosse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in capo alla federazione egiziana, come lo si sarebbe potuto poi negare al Liverpool football club, che si era visto privare di uno dei più talentuosi giocatori dopo pochi minuti dall’inizio della finale? E un siffatto risarcimento non avrebbe in qualche modo sconfessato il risultato del campo (il Real Madrid si era aggiudicata la finale per 3-1)? Orbene, proprio il rischio che il risultato del campo sia rimesso in discussione e, più in radice, che sia indebitamente condizionata la genuinità del tono agonistico pongono il problema, per gli sport c.d. «di contatto» [4], di una messa in disparte o, quanto meno, di una rimodulazione delle regole e dei principi circa la nascita di un’obbli­gazione risarcitoria a carico dell’autore della condotta lesiva e, in particolare, dell’isti­tuto dell’illecito extracontrattuale (art. 2043 c.c.) [5]. Infatti, con riferimento ai [continua ..]


2. Il rischio sportivo come causa di giustificazione atipica

L’idea che l’ostacolo alla nascita di un’obbligazione risarcitoria sia da rinvenire in una causa di giustificazione tipica (consistente nel consenso dell’avente diritto o nell’esercizio di un diritto) [9] ovvero atipica (da riconnettere alla tacita accettazione del rischio sportivo) [10], si radica su una risalente prospettiva giuspenalistica [11] che, da un lato, rende subito evidente l’inadeguatezza delle tradizionali categorie civilistiche [12] ma, dall’altro, mostra con altrettanta evidenza punti di debolezza. Guardando, sia pure rapidamente, ai contorni delle richiamate cause di giustificazione, si rileva come la ricostruzione imperniata sull’accettazione del c.d. rischio sportivo (ovvero del consenso a subire lesioni del bene salute mediante condotte non esorbitanti rispetto all’alea agonistica) rimandi al tema della compatibilità col limite del­l’art. 5 c.c. (e del principio in esso racchiuso) [13], e si presenti particolarmente problematica di fronte a sportivi minori d’età; fenomeno, quello della partecipazione di atleti in giovane età, di enorme importanza per il mondo dello sport [14]. La differente posizione che la figura delle cause di giustificazione riveste nella struttura del giudizio di responsabilità, rispettivamente penale [15] e civile, del resto, potrebbe riflettersi anche nella correlata disciplina essendo secca, nel primo caso, l’al­ternativa responsabilità (recte, punibilità)/irresponsabilità e restando aperto, invece, nel secondo, l’ingresso di meccanismi indennitari (basti pensare alla disciplina dello stato di necessità). Occorre infatti tenere presente la distanza che corre tra la decisione di punire l’autore di una condotta criminale e la scelta di trasferire in tutto o in parte il danno dalla sfera dov’è caduto a quella del responsabile della condotta, che potrebbe anche essere un soggetto giuridico distinto dall’autore materiale della stessa, come ad esempio il club sportivo presso il quale il giocatore autore della lesione milita (art. 2049 o 1228 c.c.) o una società assicuratrice chiamata a risponderne (soluzione destinata ad espandersi ove si affermi un orientamento più rigoroso). Ciò che, soprattutto, va evidenziato è che in diritto penale, in assenza di cause di giustificazione, [continua ..]


3. Agonismo e ingiustizia del danno

Si è appena mostrato più lineare l’approccio risolutivo che nega la nascita di un’ob­bligazione risarcitoria per la ragione che non è configurabile un danno ingiusto (art. 2043 c.c.): se e in quanto il danno sia stato inferto mediante una condotta non esorbitante le modalità del contesto agonistico in cui si è svolta e, cioè, mediante una condotta lecita. Se, infatti, ci si richiama al risalente insegnamento secondo il quale, perché il danno sia ingiusto occorre non soltanto la lesione di un interesse giuridicamente rilevante (che il danno sia «contra ius»), ma anche una condotta lesiva non consentita dall’ordinamento (che il danno sia «non iure datum») [18], pare abbastanza agevole rilevare che i danni inferti nell’ambito della normale alea sportiva debbano considerarsi iure dati [19]. Ma, a ben vedere, la superiore ricostruzione ha buon gioco soltanto dopo che è stato risolto il nodo cruciale e, cioè, una volta che si sia stabilito se la condotta causatrice del danno sia o meno compatibile con l’alea della pratica sportiva [20]. Il riferimento al requisito dell’ingiustizia del danno, in altri termini, non serve a discernere tra condotte lecite e illecite, ma soltanto a offrire un apparato argomentativo a una decisione il cui reale fondamento risiede altrove. E ciò, del resto, è confermato se si riflette sulla circostanza che il requisito dell’ingiustizia del danno introduce un criterio di discernimento di tipo formale-giuridico, nel senso che rimanda alle scelte di valore già fatte proprie dall’ordinamento [21]; mentre, invece, la peculiarità della regola di (ir)responsa­bilità in esame risiede proprio nell’esigenza di sottrarre i canoni di comportamento legati all’attività agonistica al rischio del pervasivo controllo statale che si avrebbe con la messa all’opera di un criterio di valutazione giuridico [22]. Non va, infatti, trascurato come l’esigenza di autonomia e indipendenza sia propria del ceto dei professionisti dello sport in modo del tutto diverso rispetto ad altri settori del tessuto sociale e economico. Basti pensare alle deontologie degli ordini professionali e, in particolare, alle norme del processo che sanciscono i doveri degli avvocati di non far degenerare le difese processuali in offese in giudizio o, [continua ..]


4. Pratica sportiva e criteri di imputazione soggettiva della responsabilità

Ci siamo rifatti all’idea secondo la quale il requisito dell’ingiustizia del danno non costituisce una clausola generale cui spetti il compito di riempire il contenuto della fattispecie legale col ricorso a criteri extra giuridici [31]. In questi termini, invece, vanno senz’altro intesi il criterio della diligenza di cui all’art. 1176 e, correlativamente, il criterio della colpa dell’art. 2043, mediante i quali, per l’appunto, hanno ingresso standard di valutazione oggettiva della condotta ripresi da parametri deontologici economico-socia­li [32]. Questa osservazione impone di guardare con molta attenzione all’o­rientamento che discrimina le condotte sportive foriere di responsabilità avendo riguardo allo standard di diligenza di volta in volta dovuto [33]; standard di diligenza il cui contenuto viene, per l’appunto, determinato mediante la ricognizione dei modelli di condotta ritenuti esigibili all’interno dei vari settori sportivi in relazione alla specificità del gioco e al peculiare tono agonistico del contesto [34]. Ne viene fuori un criterio sufficientemente razionale, secondo il quale l’adozione della misura di prevenzione di un certo tipo di eventi lesivi non è dovuta se e nella misura in cui ne verrebbe compromessa la libera esplicazione del particolare tipo di gioco in cui dovrebbe essere adot­tata [35]. Va però subito precisato come i modelli di condotta in questione non siano definibili attraverso il riferimento alle regole tecniche del gioco. Ed infatti è unanime l’opinione secondo la quale non è sufficiente la violazione (ancorché grave) delle regole tecniche del gioco perché si configuri una colpa idonea a fondare una regola di responsabilità [36]. Già da questa precisazione si intuisce come anche l’approccio ora in esame sia meno conducente di quanto possa a prima vista sembrare: non è agevole distinguere i modelli di condotta (codificati all’interno del ceto degli sportivi ma) che esigono di essere presidiati esclusivamente da sanzioni endofederali, dai canoni minimi di lealtà sportiva che (secondo un metro di giudizio ancora una volta squisitamente sportivo) non possono essere violati con la conseguenza, altrimenti, anche di una responsabilità penale e/o civile accertabile dal giudice statale [37]. Ciò vale [continua ..]


5. Incidenti negli sport di contatto come fattispecie non riconducibili all’art. 2043 c.c.

Il quadro fin qui delineatosi suggerisce di mettere in discussione l’idea, generalmente data per scontata, che gli incidenti occasionati dalla pratica di sport di contatto debbano essere ricondotti all’art. 2043 c.c.  [40]. In questa direzione, del resto, spinge anche la considerazione del progressivo ridimensionamento che la disposizione di legge ha subìto rispetto alla visione tradizionale di una portata applicativa tendenzialmente illimitata. Ci si riferisce alla ricostruzione della «responsabilità da contatto sociale» ovverosia all’idea che, in tutti i casi in cui il danno si produce nell’ambito di una relazione che sia (non già meramente occasionale bensì) appositamente creata e voluta in vista dell’ottenimento di reciproci vantaggi (c.d. «contatto sociale pregnante»), sarebbe più appropriato fare riferimento all’istituto della responsabilità contrattuale, pur in assenza di utilità suscettibili di valutazione economica e, quindi, configurabili come prestazioni [41]. Pensiamo, ad esempio, alle ela­borazioni in tema di responsabilità precontrattuale [42] o anche alla tematica dei danni provocati all’interno dei rapporti familiari per violazione di doveri coniugali [43]. Con riferimento agli incidenti provocati nel corso dell’attività agonistica, però, e a differenza che per la responsabilità precontrattuale o endofamiliare, una volta che si reputi di prescindere dall’art. 2043 c.c., viene a mancare una norma alla quale ricondurre la fondazione di una regola di responsabilità [44]; a meno che non si ritenga di fare leva esclusivamente su norme come l’art. 833 c.c. (e il principio in questa racchiuso) per dare ingresso a un’obbligazione risarcitoria soltanto nel caso in cui si accerti una condotta connotata da dolo c.d. specifico [45]. La soluzione da ultimo indicata si profila razionale ed esaustiva per gli sport professionistici di elevato tono agonistico. In questi casi, infatti, non bisogna trascurare che l’ordinamento sportivo offre già adeguati incentivi ai protagonisti (che rischiano pesanti sanzioni che si ripercuotono gravemente sulla loro carriera), e che sono altresì previsti per legge adeguati strumenti assicurativi a tutela del bene salute (e dei connessi interessi produttivistici) [46]. D’altra parte, [continua ..]


NOTE