Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
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Il ritorno dei calciatori stranieri in Italia: la riapertura delle frontiere calcistiche (1976-1980) (di Alberto Molinari, Ricercatore. Membro della Società Italiana di Storia dello Sport)


Nella storia del calcio italiano le vicende legate ai giocatori stranieri hanno avuto una notevole rilevanza, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. Il presente contributo intende ricostruire un segmento di questa storia che portò alla riapertura delle frontiere calcistiche italiane nel 1980. Vengono in particolare analizzati i risvolti giuridici, tecnici, economici e politico-sportivo della questione e il ruolo dei diversi attori – i vertici del calcio, le forze politiche, i club, la stampa l’associazione calciatori – che animarono il dibattito su questo tema.

The return of foreign players to Italy: the reopening of football borders (1976-1980)

In the history of Italian football, events involving foreign players have always played a major role, not only from the perspective of sport. This contribution aims to reconstruct part of the historical events that led to the reopening of the Italian football borders in 1980. In particular, the legal, technical, financial and political-sports implications of the issue will be discussed, as well as the role played by the parties involved – the football management, the political forces, the clubs, the press, the Players Association – who all enlivened the debate on this subject.

Keywords: football, foreign players, sports law, sports policy.

 

 

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Da Rovigo a Lussemburgo - 3. Verso la riapertura. Il dibattito politico-sportivo - 4. Le decisioni di Bruxelles, le reazioni in Italia e le nuove norme sui calciatori stranieri - 5. Conclusioni - NOTE


1. Introduzione

Nella storia del calcio italiano i giocatori stranieri hanno recitato una parte importante, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. La loro presenza in Italia ha suscitato passioni contrastanti e alimentato polemiche politiche; ha condizionato gli equilibri economici del mondo del pallone e dato vita a contese giuridiche; ha rappresentato talvolta una cartina di tornasole degli atteggiamenti delle istituzioni e del­l’opinione pubblica nei confronti degli stranieri in generale. D’altro canto, le vicende di questi atleti, come singoli o come gruppi legati dalla provenienza geografica, si configurano come un racconto polifonico di grande interesse nel quadro della storia dello sport e dei suoi intrecci con la società italiana e la dimensione internazionale.

Alla fine dell’Ottocento una pattuglia di inglesi, svizzeri, mitteleuropei – giunti nel nostro Paese a vario titolo, come imprenditori, agenti di compagnie commerciali, rappresentanti di compagnie di navigazione, ingegneri, tecnici – diede un contributo decisivo alla nascita del calcio italiano. L’influenza degli ambienti esteri suscitò una reazione nazionalistica in una parte del mondo calcistico che si manifestò con l’italia­nizzazione del linguaggio sportivo e culminò nel 1908 con la decisione della Federazione di escludere i club con giocatori stranieri: «si proclamò che al campionato “italiano” non sarebbero stati ammessi che giocatori italiani; le società che non avessero accettato questa norma draconiana, potevano concorrere a un altro torneo, il torneo “federale”, che doveva costituire un premio di consolazione» [1].

A partire dal primo dopoguerra, si alternarono aperture e chiusure delle frontiere calcistiche, dettate da motivazioni politico-sportive, interessi economici, valutazioni tecniche, questioni giuridiche, mutevoli umori degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica.

Il flusso di giocatori stranieri arrivati in Italia nella prima metà degli anni Venti – principalmente dall’area danubiana e dal Sudamerica – fu arrestato con la chiusura autarchica del calcio voluta dal fascismo [2].

All’indomani del secondo conflitto mondiale gli atleti stranieri ritornarono nel campionato italiano. La corsa al campione straniero «divenne frenetica, configurando l’assurdo di un paese stremato dal conflitto, con un cambio della valuta sfavorevolissimo, e insieme Mecca del calcio migratorio» [3]. Era l’avvio di quella che fu chiamata «legione straniera» [4], formata dapprima da svedesi e danesi, poi da sudamericani, inglesi, tedeschi, spagnoli.

Inizialmente alle società fu concesso di tesserare due calciatori provenienti da altre Federazioni. Convinti di elevare il tasso tecnico del calcio italiano con l’innesto di elementi di altri Paesi, nel 1947 i dirigenti federali autorizzarono i club ad ingaggiare cinque calciatori stranieri, due dei quali dovevano essere «oriundi», giocatori nati all’estero ma figli di genitori italiani. Nel 1949 la categoria degli «oriundi» venne abolita; ogni società poteva ingaggiare tre stranieri, che passarono a due nel 1952 [5].

Questo succedersi di modifiche normative si interruppe nel 1953 con il cosiddetto «veto Andreotti». In seguito ad una serie di deludenti prestazioni della nazionale, mentre montava la polemica sull’acquisto dei campioni stranieri che impediva la crescita di promesse italiane, l’arrivo di atleti appartenenti ad altre federazioni fu bloccato per iniziativa di Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Andreotti diramò agli organi di polizia una disposizione nella quale si vietava la concessione di permessi di soggiorno a stranieri che lo avessero chiesto «per svolgere l’attività di giocatore nelle squadre di campionato», con la sola eccezione dei «giocatori di provenienza estera» ma di «nazionalità italiana per essere figli di italiani» [6]. L’intento del provvedimento era «evitare che l’eccessivo numero di stranieri compromett[esse] l’ef­ficienza delle forze sportive nazionali» [7].

Dopo nuove aperture e limitazioni, nel 1965 venne introdotto un altro blocco dei giocatori stranieri, confermato l’anno successivo in seguito al fallimento della nazionale ai mondiali di Inghilterra e poi continuamente prorogato lungo gli anni Settanta.

Dei quaranta stranieri che militavano nel campionato italiano a metà degli anni Sessanta, alla fine del decennio successivo ne rimaneva solo uno [8]. L’Italia era l’unico Paese della Comunità Economica Europea che manteneva il blocco totale [9].


2. Da Rovigo a Lussemburgo

La questione dei giocatori stranieri si ripropose in seguito ad una controversia apparentemente di poco conto, nata nel 1973 ai margini del calcio italiano, che si riverberò sull’intero sistema calcistico con effetti dirompenti.

Protagonisti della vicenda furono tre avvocati: Mario Mantero, presidente del Rovigo calcio che militava in serie D; Gaetano Donà, padovano, impiegato a Bruxelles presso il Segretariato generale della Comunità Economica Europea; Wilma Viscardini, moglie di Donà, assistente di Diritto delle Comunità Europee all’Università di Padova.

Contando su un’imminente riapertura delle frontiere calcistiche italiane, per rafforzare la squadra e attirare pubblico allo stadio Mantero decise di puntare sull’ingaggio di un calciatore straniero. Si rivolse perciò a Donà chiedendogli di prendere contatto con giocatori belgi disposti a trasferirsi in Italia.

Il 19 aprile 1973 Donà fece pubblicare sul periodico belga Sportif un’inserzione alla quale risposero alcuni calciatori professionisti. Mantero non prese in considerazione le offerte pervenute a Donà e si oppose al rimborso delle spese per l’annuncio ritenendo l’iniziativa prematura visto che i regolamenti calcistici italiani vietavano ancora l’ingaggio di calciatori stranieri. A sua volta l’avvocato padovano contestò il mancato pagamento e, convinto della insussistenza giuridica delle limitazioni alla circolazione dei calciatori in Europa, fece causa a Mantero affidando la pratica alla moglie.

Dopo tre anni, il 7 febbraio 1976, il giudice di Rovigo, investito della questione, rinviò il processo alla Corte di Giustizia Europea chiedendo se il diritto di un cittadino comunitario di svolgere la sua attività economica in un altro Stato membro si estendeva anche ai calciatori professionisti e se la normativa di un ente di natura privata come la Federazione Italiana Giuoco Calcio poteva contrastare la libera circolazione dei calciatori in Europa [10].

Poco prima, aveva suscitato curiosità e polemiche un viaggio a Barcellona del presidente della Juventus Giampiero Boniperti, accompagnato dal segretario generale della squadra torinese Pietro Giuliano. Nonostante le smentite di Boniperti, secondo la stampa italiana lo scopo della trasferta era incontrare Johan Cruijff – il fuoriclasse olandese in forza al Barcellona – in vista di un suo possibile passaggio alla Juventus [11]. Nel contempo la Lega nazionale delle società professionistiche confermava la sua contrarietà all’apertura agli stranieri, seguita dal Consiglio federale della FIGC che ribadiva il veto al tesseramento di giocatori stranieri anche per la stagione 1976-77 [12].

La Federazione avviò inoltre un’inchiesta per verificare se la querelle Mantero-Donà fosse stata alimentata ad arte «con l’appoggio e dietro sollecitazione di un club calcistico interessato alla riapertura delle frontiere» [13]. Mantero e la moglie di Donà replicarono attraverso la stampa sostenendo di essere stati mossi unicamente da motivazioni di principio. L’ex presidente del Rovigo riteneva «illiberali» le norme federali che proibivano «a un lavoratore, sia pure del pallone, di prestare la propria opera presso il club di un Paese aderente alla Comunità europea» e Wilma Viscardini sosteneva che l’azione legale intentata insieme al marito era ispirata esclusivamente all’europeismo:

Convinti europeisti sono anche i coniugi Donà. Hanno la residenza in Belgio anche se da un anno sono tornati a stabilirsi a Padova. «Abbiamo contribuito a costruire l’Europa unita e questa unione passa anche per il mondo del calcio», dice Wilma Donà Viscardini […]. Suo marito vuole andare fino in fondo […] perché vuole che da parte di tutti siano rispettati certi principi europeistici» [14].

Al di là dei reali motivi che avevano generato il contenzioso, l’esito della controversia legale aprì la strada alla revisione della normativa sul trasferimento dei calciatori.

Il 14 luglio 1976 la Corte di giustizia europea riunita a Lussemburgo diede ragione all’avvocato padovano [15], rifacendosi al «caso Walrave-Koch» sul quale si era pronunciata due anni prima [16].

Walrave e Koch – allenatori olandesi di stayers [17] ingaggiati da ciclisti di nazionalità spagnola – avevano intentato una causa contro l’Unione Ciclistica Internazionale che aveva emanato un regolamento secondo il quale gli atleti dovevano essere seguiti esclusivamente da allenatori della stessa nazionalità. La Corte europea era stata chiamata ad esprimersi in ordine alla compatibilità della clausola introdotta dall’UCI con gli articoli del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea che garantivano la libertà di circolazione delle persone e la libera prestazione di servizi di natura economica negli Stati membri, vietando «ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità» [18].

Riconoscendo le ragioni dei due allenatori, la Corte sanciva alcuni «principi-chiave destinati col tempo a divenire le basi fondanti del rapporto tra sport e diritto europeo» [19].

La sentenza riconosceva che l’attività sportiva, quando assumeva il carattere di lavoro subordinato o di prestazione di servizi, doveva essere considerata assoggettata al diritto comunitario, rientrando a pieno titolo nell’ambito di applicazione delle norme sulla libera circolazione contenute nel Trattato.

Veniva inoltre affermato che la natura privata delle Federazioni sportive non poteva costituire «un motivo sufficiente per sottrarle al diritto comunitario». L’abolizione tra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione sarebbe stata infatti «compromessa» se, oltre alle limitazioni stabilite da norme statali, non fossero state eliminate anche quelle «poste da organismi non di diritto pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica» [20].

Nella «sentenza Donà» la Corte applicava questi principi al calcio italiano, riconosceva lo status di lavoratori ai giocatori professionisti e semiprofessionisti [21] e osservava che l’Italia rappresentava un’eccezione visto che «una restrizione tanto rigida» nei confronti dei calciatori stranieri non esisteva «in nessuno Stato membro» [22].

Su queste basi, si ribadiva che non erano ammessi regolamenti volti a discriminare la libera circolazione dei lavoratori, e quindi anche dei calciatori, per la loro nazionalità.


3. Verso la riapertura. Il dibattito politico-sportivo

La questione dei calciatori stranieri si intrecciava con la situazione critica del sistema calcistico italiano, contraddistinto da profondi squilibri e distorsioni.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, grazie alla crescente popolarità del calcio le entrate delle società erano aumentate, ma i club spendevano più di quanto incassavano. Ciò era dovuto in parte «alla crescita dei compensi ai calciatori e al calciomercato, in altra non minor parte alle numerose e fantasiose uscite di danaro dalle società che costituivano, per i dirigenti, guadagni sotterranei» [23].

Le cifre iperboliche investite per l’ingaggio dei campioni consentivano di mantenere alta la passione dei tifosi e alimentavano la notorietà dei proprietari dei club che puntavano su un ritorno in termini di prestigio, visibilità, influenza e relazioni in ambito economico e politico. La competizione spingeva le società a gestire il calcio facendo un uso disinvolto del denaro e aprendo voragini nei bilanci [24].

La macchina del football accumulò continue perdite, in un quadro economico complessivo che si aggravò negli anni Settanta. Per gli effetti delle crisi monetarie ed ener­getiche, dopo il 1973 l’inflazione in Italia raggiunse la doppia cifra e superò il 20% alla fine del decennio.

La crisi economica internazionale pesava anche sul bilancio del calcio: come altri settori fortemente indebitati e con scarsa redditività, il mondo del pallone subiva «la crisi inflazionistica che con il rialzo dei tassi di interesse rese sempre più soffocanti gli oneri finanziari» [25]. Il deficit del calcio passò nel biennio 1977-1978 da 50 a 130 miliardi [26].

Quanto ai risultati sportivi, dopo il secondo posto ai mondiali del Messico nel 1970 il calcio italiano stentava ad affermarsi sul piano internazionale sia con gli azzurri che nelle competizioni per club. Il pallone restava una delle principali passioni degli italiani, ma da più parti si lamentava uno scadimento del livello tecnico del campionato, testimoniato da segnali di stanchezza da parte del pubblico che si riflettevano sui dati delle presenze negli stadi.

La sentenza sulla libera circolazione dei calciatori nell’area europea complicava quindi il quadro dei problemi che dovevano affrontare i vertici del calcio italiano, a partire da Artemio Franchi, dal 1967 al 1976 presidente della FIGC [27], e da Franco Carraro, alla guida della Lega nazionale professionisti tra il 1973 e il 1976 e della Federazione dal 1976 al 1978 [28].

Sulla questione si aprì un dibattito nel quale si delinearono diverse posizioni, basate su considerazioni tecniche, giuridiche, economiche e politiche, secondo una gamma di valutazioni che oscillava tra argomentazioni pretestuose e giudizi improntati ad una seria preoccupazione per l’assetto complessivo del sistema-calcio.

Tra il 1976 e il 1980 oppositori e sostenitori dell’apertura delle frontiere calcistiche e fautori di una mediazione (apertura sì, ma limitata e dilazionata nel tempo) si confrontarono in forme spesso molto accese, misurandosi con gli scenari determinati dalle scelte degli organismi europei e mutando talvolta atteggiamento per ragioni di convenienza o per ripensamenti legati all’evoluzione della vicenda sul piano degli equilibri interni al mondo del calcio italiano ed europeo.

Come si è accennato, il caso Montero-Donà aveva provocato un’immediata reazione della FIGC e della Lega, ferme sulla posizione di chiusura nei confronti dei calciatori stranieri.

All’inizio del 1976 Franchi indicava alcuni motivi che rendevano inopportuna l’a­pertura. In primo luogo, il calcio moderno era sempre più improntato sul collettivo e sarebbe stato quindi «un non senso» puntare tutte le risorse economiche e tecniche su un solo «asso» acquistato tra gli stranieri. Il loro arrivo avrebbe inoltre comportato una corsa al rialzo degli ingaggi, mentre per risanare il calcio occorreva andare nella direzione opposta. Infine, l’assunzione del campione straniero avrebbe accentuato il divario «tra squadre ricche e squadre povere», a fronte del «livellamento» raggiunto dal campionato, un dato valutato dalla Federazione come «una conquista» [29].

Secondo Carraro – che si faceva interprete delle posizioni delle società di A e di B, in quel momento in maggioranza contro l’apertura, ed era stato chiamato alla guida della Lega con il compito di cercare nuove soluzioni per la disastrosa situazione finanziaria del calcio – la difficile fase economica attraversata dal Paese «ed il pauroso disavanzo della bilancia commerciale» dovevano indurre «i responsabili del calcio a valutare il problema anche sotto il profilo psicologico». L’arrivo dei calciatori dall’estero avrebbe portato ad un incremento delle spese delle società, peggiorando la crisi del calcio che rendeva indispensabile «un risparmio strutturale» [30].

Tra le 16 società di serie A alcune premevano per avere la possibilità di ingaggiare almeno un giocatore nel mercato europeo: la presenza di un campione straniero avrebbe consentito di fare un salto di qualità tecnico alla squadra e attirato il pubblico allo stadio con un vantaggioso ritorno in termini di incassi. Favorevoli agli stranieri erano anzitutto le grandi società con maggiori disponibilità finanziarie, la Juventus, l’Inter e il Milan, che avevano già inviato diversi osservatori all’estero. A favore, ma con riserve, si pronunciavano i presidenti di Napoli, Sampdoria, Verona e Bologna. Contrari erano i presidenti di altre società, come il Torino e la Fiorentina, che avevano puntato sui vivai con buoni risultati, le squadre minori di serie A e le formazioni di serie B, preoccupate per il crescente gap che si sarebbe creato tra «grandi» e «piccole» e per gli effetti negativi sui loro bilanci, basati sulla valorizzazione del «parco giocatori» [31]: per le società che «sopravvi[vevano] facendo da serbatoio per le grandi», il danno sarebbe stato «enorme» perché l’arrivo dei giocatori stranieri avrebbe precluso la strada alle loro «giovani promesse» [32].

Direttamente coinvolta nella questione degli stranieri era l’Associazione Italiana Calciatori guidata da Sergio Campana [33]. Il sindacato dei giocatori intendeva difendere il patrimonio calcistico nazionale – un arrivo incontrollato di atleti da altri Paesi avreb­be comportato una perdita di «posti di lavoro» per i calciatori italiani [34]–, ma d’altro canto doveva tenere conto dello stretto legame tra la libera circolazione sancita a livello europeo e l’eliminazione del vincolo, una delle principali rivendicazioni dell’AIC. Il vincolo era un istituto anacronistico, abolito o in via di eliminazione in tutta Europa, che comprimeva la libertà dell’atleta: i calciatori erano legati da un vincolo di proprietà «a vita» ai club che ne disponevano a piacimento nella compravendita e nei trasferimenti del calciomercato. Applicare i principi sanciti dalla Corte di Giustizia Europea – il riconoscimento dell’attività degli atleti come lavoro subordinato e quindi il loro diritto alla libera circolazione – significava mettere radicalmente in discussione l’esi­stenza del vincolo. D’altra parte, nel gennaio 1976 le organizzazioni dei calciatori europei, compresa l’AIC, riunite a Parigi avevano chiesto «la libera circolazione dei “lavoratori” del football, almeno entro i confini della Comunità Economica Europea, come per tutti gli altri prestatori d’opera» [35]. Per il caso italiano, Campana chiedeva che la riapertura non fosse immediata e rimanesse comunque limitata ad un giocatore per ogni società di serie A [36].

Anche la stampa appoggiava in genere l’idea di una riapertura graduale e regolata, vista come opportunità di rilancio del calcio dal punto di vista tecnico e spettacolare.

Secondo La Gazzetta dello Sport «da troppi anni» le squadre di serie A offrivano

il medesimo spettacolo, grosso modo con gli stessi protagonisti. Il pubblico non può esaltarsi; lo dimostrano le cedenti o ristagnanti statistiche sul numero degli spettatori. L’inte­resse popolare ha da essere rinfocolato. […] Il livello tecnico ed atletico è in una situazione così poco esaltante che, probabilmente, una certa simbiosi con elementi formati in altri Paesi con scuole diverse e diverse mentalità, potrebbe arrecare un vantaggio o perlomeno uno stimolo [37].

Sulle pagine sportive del Corriere della Sera Gianni De Felice sosteneva che il «pessimismo» degli «autarchici» non era giustificato:

L’importazione dei calciatori non ha mai inaridito alcun vivaio. Con gli stranieri la Germania Ovest è diventata campione del mondo, l’Olanda vicecampione del mondo, la Francia e la Spagna hanno superato più o meno profonde crisi e sono ora qualificate per i mondiali, il Belgio ha recitato per alcuni anni la parte di enfant terrible sulla scena europea [38].

Secondo De Felice, l’apertura delle frontiere calcistiche avrebbe inoltre messo in risalto le criticità del calcio italiano, costringendo ad un ripensamento complessivo del sistema [39].

A Gianni Brera – uno dei pochi giornalisti che si era espresso per il no agli stranieri  [40]– rispondeva sulle colonne de La Stampa Giovanni Arpino, lo scrittore che seguiva le vicende sportive per la testata torinese:

L’amico Giuan Brera è subito uscito allo scoperto: pur moderando le sue antiche forze polemiche, parla di nuovi servaggi, di calcio italiano che si vende – per comperare muscoli – ad altrui poteri. […] Personalmente ho ritenuto valido il «no» federale alla riapertura delle frontiere per lungo tempo. Ha protetto il fiorire di certi virgulti nostrani, ha ridato una fisionomia alla nazionale che – con gli Altafini, i Sivori, i Maschio, gli Angelillo – fece figure così poco onorevoli, tanti anni fa. […] Non discutiamo, almeno per iscritto, certi principi di libertà di circolazione in Europa: dovrebbero essere stampati nei crani di ognuno. Teniamoci realisticamente ai fatti. E i fatti suggeriscono una «riapertura», pur moderata, pur controllata. In modo che non crei inciampi ai giovani […] [41]


4. Le decisioni di Bruxelles, le reazioni in Italia e le nuove norme sui calciatori stranieri

Dopo una serie di incontri tra i presidenti delle Federazioni dei Paesi aderenti al Mercato Comune Europeo per cercare una soluzione di compromesso sul numero di stranieri e sui tempi della riapertura, il 23 febbraio 1978 a Bruxelles Etienne D’Avi­gnon, membro della commissione CEE per l’industria e il lavoro, comunicò ai dirigenti federali le disposizioni comunitarie definitive in materia di calciatori stranieri: eliminazione di qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei calciatori, possibilità quindi di tesserare giocatori dell’area comune europea in numero illimitato, impiegandone però inizialmente non più di due. Al termine di un periodo transitorio, era prevista la totale liberalizzazione. Le Federazioni europee dovevano portare all’esame degli organi competenti queste norme per modificare i rispettivi regolamenti e attuare le disposizioni del MEC nella stagione 1979-80 [42].

Le decisioni prese a Bruxelles andavano oltre quanto auspicato dalla maggior parte degli ambienti calcistici italiani e suscitavano forti preoccupazioni per gli effetti di una piena liberalizzazione degli scambi dei calciatori. Scriveva Bruno Raschi: «Le nostre squadre, di intatto, conserveranno solo il colore delle maglie, una identità geografica e basta. Per tutto il resto andranno soggette alle leggi di un mercato imprevedibile» [43]. E Artemio Franchi affermava: «Il giorno in cui una squadra dovesse presentarsi in campo con 11 stranieri, non sarà un bel giorno per lo sport» [44].

I vertici del calcio italiano si trovarono di fronte ad un bivio: avviare una battaglia legale quasi certamente persa in partenza o ricercare una soluzione interna per limitare le conseguenze delle scelte fatte a livello europeo. Con toni che la stampa definiva drammatici, Carraro chiese a tutte le componenti del calcio di collaborare per evitare un arrivo incontrollato dei calciatori stranieri che avrebbe compromesso i vivai, fatto lievitare gli ingaggi, squilibrato i rapporti di forza tra i club [45].

Il dibattito coinvolse anche le forze politiche, esponenti del governo e del mondo economico. Il democristiano Filippo Maria Pandolfi, Ministro delle Finanze, e il Ministro del Commercio con l’Estero, l’economista Rinaldo Ossola, ritenevano che l’aper­tura del mercato calcistico non avrebbe comportato effetti negativi dal punto di vista fiscale e valutario [46]. Sulla stessa linea Mario Ercolani, direttore generale della Banca d’Italia, ridimensionava le preoccupazioni di carattere finanziario e i rischi di ulteriori «pazzie» delle società che andavano eventualmente combattute «con l’impostazione di adeguate discipline» [47].

Quanto alla stampa di partito, mentre Il Popolo, organo della Democrazia Cristiana, appoggiava le posizioni «europeiste» [48], decisamente contraria all’apertura era l’U­nità che considerava l’arrivo degli stranieri come l’inizio di un processo che avrebbe rafforzato i club più potenti e danneggiato la pratica calcistica giovanile [49]. Secondo il quotidiano del Partito Comunista, i sostenitori dell’apertura si nascondevano «dietro la finzione del risanamento tecnico e morale» del calcio, quando in realtà rispondevano solo agli interessi dello sport-spettacolo [50]. Ignazio Pirastu, responsabile del «Gruppo di lavoro per lo sport» della Direzione del partito, invitava quindi il parlamento, il governo e il CONI a respingere le decisioni prese a Bruxelles e accusava la CEE di interpretare in modo «ipocrita» la mobilità di mano d’opera nello spazio europeo, mettendo sullo stesso piano i lavoratori costretti a lasciare il loro paese alla ricerca di un lavoro e i calciatori milionari [51]. Per la Direzione del PCI – che sosteneva con l’asten­sione il governo guidato da Giulio Andreotti, impegnato in una politica di austerità economica – interveniva anche Dario Valori sottolineando l’inopportunità dell’uscita di valuta dal paese mentre si chiedevano sacrifici agli italiani [52].

Gabriele Moretti, responsabile del settore del tempo libero della direzione del PSI, esprimeva valutazioni analoghe a quelle di Pirastu [53]. Vincenzo Balzamo, presidente del gruppo socialista alla Camera, riconosceva invece che la decisione di aprire le frontiere calcistiche era inevitabile, viste le norme europee. Le conseguenze non dovevano essere drammatizzate, a patto che le società non procedessero ad una «deplorevole ed incontrollata (per numero e per validità tecnica) “caccia allo straniero”» [54].

Sul piano delle istituzioni sportive, dopo le decisioni assunte a Bruxelles alla Lega spettava l’elaborazione di un indirizzo comune tra i presidenti dei club di A e di B da proporre alla FIGC che aveva il potere di varare norme vincolanti per il mondo del calcio.

Tra il 1978 e il 1979 i dirigenti delle società si divisero, tra infruttuose discussioni, tentativi di patteggiamento, personalismi e repentini e opportunistici voltafaccia. D’al­tro canto la Federazione – anche in attesa di una chiara presa di posizione della Lega – scelse una politica attendista, procrastinando la decisione definitiva.

Sotto la pressione delle istituzioni europee, che non tolleravano più ulteriori rinvii, e in una situazione resa ancor più delicata per lo scandalo del calcio scommesse che screditava il football italiano anche sul piano internazionale [55], il 21 marzo 1980 i presidenti riuniti nella Lega trovarono finalmente un accordo che prevedeva la possibilità di acquistare un atleta straniero da Paesi europei o extraeuropei per ogni società di serie A e la costituzione di una commissione che avrebbe dovuto formulare delle proposte di indennizzo per i sodalizi della serie B [56].

La decisione della Lega aprì la strada al Consiglio federale che il 9 maggio ratificò l’abolizione del divieto di tesserare giocatori provenienti da federazioni estere e accolse l’impegno assunto dalle società di limitarsi ad ingaggiare un solo straniero [57].

Nel frattempo si era aperta la «caccia» ai calciatori stranieri che ritornarono a calcare i campi degli stadi italiani nel campionato 1980-81.


5. Conclusioni

All’alba degli anni Ottanta, la riapertura delle frontiere calcistiche, ponendo fine al lungo blocco delle importazioni, segnalava «un epocale cambiamento di tendenza» [58] e si inseriva in una fase di profonda trasformazione del mondo del calcio italiano: il primo contratto firmato dalla Lega per le sponsorizzazioni faceva intravedere le potenzialità di quel mercato; la nomina di Carraro alla presidenza del CONI nel 1978 modificava i rapporti di forza del calcio rispetto ad altre discipline, con ricadute anche in termini economici [59]; la legge n. 91, approvata nel 1981, che eliminava gradualmente il vincolo e garantiva al calciatore la libertà di scegliere il club per il quale prestare la propria opera, rappresentava l’inizio di una rivoluzione nel rapporto tra giocatori e società.

La libera circolazione dei calciatori nello spazio europeo venne sancita definitivamente il 15 dicembre 1995 con la celebre sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, nota come «sentenza Bosman», dal nome del giocatore belga che si era rivolto alla Corte per risolvere il suo caso [60]. La sentenza riconosceva come illegittima la garanzia di un indennizzo per la liberazione di un lavoratore dopo la scadenza del contratto; inoltre, applicando l’articolo 48 del Trattato di Roma agli atleti, affermava che non potevano «essere posti limiti né alla tesserabilità né all’utilizzo in campo degli atleti nei campionati professionistici comunitari» [61].

Si apriva così un nuovo, complesso e contraddittorio capitolo della storia dei calciatori stranieri in Italia.


NOTE

[1] A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino, 1972, p. 37.

[2] La prima limitazione imposta dal fascismo all’importazione dei calciatori fu introdotta nel 1926 attraverso la Carta di Viareggio. Il provvedimento, che introduceva il girone unico del campionato, era stato elaborato da tre esperti della Federazione Italiana Giuoco Calcio e approvato dal Comitato Nazionale Olimpico Italiano. Come norma transitoria veniva ammesso per un anno il tesseramento di due giocatori stranieri, con l’obbligo però di non impiegarne più di uno per partita, cfr. La nuova carta del calcio italiano promulgata a Viareggio nella riunione indetta dal C.O.N.I, in La Gazzetta dello Sport, 3 agosto 1926. L’anno successivo venne proibito l’ingaggio di atleti stranieri a meno che non fossero figli di italiani nati all’estero e come tali aventi diritto alla cittadinanza italiana. Giocatori con questi requisiti erano definiti «rimpatriati».

[3] A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (1945-2000), Bologna, 2000, p. 29.

[4] A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, cit., p. 182.

[5] Era inoltre prevista la categoria dei «fuori quota», gli stranieri tesserati da almeno cinque anni in Italia, che venivano equiparati agli italiani. Cfr. L. Bonizzoni, Calciatori stranieri in Italia ieri e oggi, Roma, 1989, p. 224.

[6] G. Zanetti, Vietato il permesso di soggiorno ai calciatori di nuova importazione, in La Gazzetta dello Sport, 30 maggio 1953.

[7] Realizzato il “blocco” delle importazioni calcistiche, in Corriere dello Sport, 30 maggio 1953. Andreotti calcolava anche «gli effetti elettorali del provvedimento», A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, cit., p. 221. Il «blocco» venne varato il 29 maggio 1953, nel pieno di una tesa campagna elettorale. Di lì a poco si sarebbero tenute le elezioni politiche sulla base della nuova legge elettorale maggioritaria, voluta dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati di governo e duramente contestata dalle opposizioni che la definivano «legge truffa».

[8] Importati 400 giocatori in 20 anni. Il brasiliano Clerici unico superstite, in Corriere della Sera, 24 febbraio 1978.

[9] Come si regolano gli altri, in La Gazzetta dello Sport, 25 febbraio 1978.

[10] Pe runa ricostruzione della vicenda cfr. S. Garioni, Chi è la donna che si batte per il ritorno degli stranieri, in Corriere della Sera, 6 marzo 1976; F. Mognon, All’avvocatessa piacciono gli stranieri. Si batte perché tornino in Italia, in Stampa Sera, 6 marzo 1976; S. Garioni, Al tribunale del Mec il veto agli stranieri, in Corriere della Sera, 16 giugno 1976; Corte giust. Eur., 14 luglio 1976, causa 13/76, Donà, in Raccolta della giurisprudenza 1976, p. 1336, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri= CELEX:61976CJ0013&from=IT (ultima consultazione 10 marzo 2021).

[11] P. Dardanello, E Agnelli mormorò. Ritorni lo straniero, in Corriere d’Informazione, 20 gennaio 1976; A. Biagi, Stranieri in arrivo? Non è poi così facile, in Stadio, 21 gennaio 1976.

[12] E. Heiman, Il calcio replica il no agli stranieri, in La Gazzetta dello Sport, 7 febbraio 1976; Il CF ribadisce il “no” agli stranieri, in l’Unità, 15 febbraio 1976.

[13] S. Garioni, Stranieri: inchiesta federale per il ricorso al MEC, in Corriere della Sera, 13 marzo 1976.

[14] S. Garioni, Chi è la donna che si batte per il ritorno degli stranieri, in Corriere della Sera, 6 marzo 1976.

[15] A. Guatelli, La CEE giudica illegale il “veto” agli stranieri, in Corriere della Sera, 16 luglio 1976; I calciatori Mec ammessi in Italia, in La Gazzetta dello Sport, 16 luglio 1976.

[16] Corte giust. eur., 12 dicembre 1974, causa 36/72, Walrave, in Raccolta della giurisprudenza 1976, p. 1406, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:61974CJ0036&from=IT (ultima consultazione 10 marzo 2021).

[17] Si tratta di gare ciclistiche di mezzofondo nelle quali ciascun corridore corre dietro ad un allenatore su motocicletta.

[18] Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, artt. 3 e 7. L’idea è rafforzata al comma 2 dell’art. 48 che prevede «l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro». Il Trattato venne firmato a Roma il 25 marzo 1957 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1958, https://eurlex.
europa.eu/legalcontent/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:11957E/TXT&from=BG (ultima consultazione 2 marzo 2021).

[19] B. Nascimbeni, S. Bastianon, Diritto europeo dello sport, Torino, 2011, p. 12.

[20] Ibidem.

[21] «Nella sentenza Donà si specifica che l’attività dei calciatori professionisti e semi-professionisti, che svolgono un lavoro subordinato o una prestazione di servizi retribuita, riveste carattere economico: essi pertanto fruiscono delle norme comunitarie relative alla libera circolazione delle persone e dei servizi», cfr. M. Di Filippo, La libera circolazione dei calciatori professionisti alla luce della sentenza Bosman, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 2, 1996, p. 209.

[22] Corte giust. eur., 14 luglio 1976, causa 13/76, Donà, cit.

[23] N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, 2015, p. 48.

[24] Si veda l’inchiesta condotta da M. Salvatorelli, responsabile delle pagine economiche de La Stampa: Nella giostra dei miliardi del calcio alle società restano solo debiti, in La Stampa, 6 gennaio 1971; Calcio professionistico deficit di 34 miliardi, in La Stampa, 4 dicembre 1971.

[25] N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., p. 29.

[26] G. Accatino, Calcio in crisi, “s.o.s.”, in La Stampa, 23 luglio 1977; M. Mulinacci, Il deficit delle società sarebbe di 130 miliardi!, in La Gazzetta dello Sport, 17 febbraio 1978.

[27] Nel 1973 Franchi fu eletto anche presidente dell’UEFA.

[28] Per un sintetico profilo di Franchi e Carraro si veda N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., pp. 207-210. Su Franchi, A. Ghirelli, Artemio Franchi. Una vita per lo sport, Roma, 1993; A. Leoncini, Artemio Franchi. Un genio del calcio con il palio nel sangue, Siena, 2013.

[29] La “riapertura” agli stranieri sarà bocciata dalla Lega calcio, in l’Unità, 23 gennaio 1976.

[30] Il calcio replica il no agli stranieri, in La Gazzetta dello Sport, 7 febbraio 1976.

[31] Avanti lo straniero, in Stampa Sera, 21 gennaio 1976.

[32] Scusi, lei è favorevole o contrario allo straniero?, in La Gazzetta dello Sport, 3 dicembre 1977.

[33] Sulle origini dell’AIC e l’attività svolta dall’associazione negli anni Settanta cfr. A. Molinari, L’Associazione Italiana Calciatori e le trasformazioni del calcio italiano (1968-1981), in Il calciatore. Organo mensile dell’AIC, anno 47, n. 7, ottobre-novembre 2019.

[34] La relazione del presidente. Assemblea nazionale dell’AIC, Roma, 20 marzo 1978, in Il Calciatore. Organo dell’Associazione Italiana Calciatori, anno 6, n. 4, aprile 1978, p. 2.

[35] P. Patruno, La linea intransigente italiana bocciata al Congresso di Parigi, in La Stampa, 14 gennaio 1976.

[36] M. Mulinacci, Il sindacato è d’accordo sul limite agli stranieri, in La Gazzetta dello Sport, 14 febbraio 1978.

[37] Perché riaprire, in La Gazzetta dello Sport, 21 gennaio 1976.

[38] G. De Felice, Perché il MEC dei calciatori ci fa paura, in Corriere della Sera, 25 febbraio 1978.

[39] Ibidem.

[40] Si veda la risposta lapidaria di Brera a Roberto Gervaso («Sei favorevole all’importazione di giocatori stranieri? No, anche se atleti ne abbiamo pochi») in un un’intervista del 1976, riprodotta in R. Gervaso, Il dito nell’occhio. Interviste con i contemporanei, Milano, 1977, p. 84.

[41] G. Arpino, Ma quale straniero?, in La Stampa, 23 gennaio 1976.

[42] S. Garioni, Aperte le frontiere agli stranieri del MEC, in Corriere della Sera, 24 febbraio 1978.

[43] B. Raschi, Allegri ragazzi, arriva il circo!, in La Gazzetta dello Sport, 24 febbraio 1978.

[44] D. Messina, Tra un anno si riaprono le frontiere. Il nostro calcio cambia volto, in La Gazzetta dello Sport, 24 febbraio 1978.

[45] M. Mulinacci, Il drammatico appello di Carraro, in La Gazzetta dello Sport, 25 febbraio 1978; Stranieri: scattato l’allarme, in La Stampa, 25 febbraio 1978.

[46] Il parere delle forze politiche, in La Gazzetta dello Sport, 2 marzo 1978.

[47] Ivi.

[48] Cfr. il corsivo, firmato Summ., a commento dell’articolo Stranieri: no di Carraro, in Il Popolo, 25 febbraio 1978.

[49] E. Bomboni, La riapertura agli stranieri: una proposta che va respinta, in l’Unità, 22 gennaio 1976.

[50] Nordhal Calloni Aballay, in l’Unità, 25 febbraio 1978.

[51] La dichiarazione di Pirastu, in l’Unità, 24 febbraio 1978.

[52] Il parere delle forze politiche, cit.

[53] Il Psi si schiera contro gli stranieri, in La Gazzetta dello Sport, 26 febbraio 1978. Cfr. anche Calcio: continuano le polemiche dopo lo “sblocco” degli stranieri, in l’Avanti, 26 febbraio 1978.

[54] Il parere delle forze politiche, cit.

[55] Lo scandalo del calcioscommesse, noto anche come «Totonero», colpì il calcio italiano nella stagione agonistica 1979-1980 coinvolgendo giocatori, dirigenti e società di serie A e B, accusati di truccare le partite di campionato attraverso scommesse clandestine.

[56] B. Perucca, L’Italia riapre le porte ai fuoriclasse del calcio, in La Stampa, 22 marzo 1980; D. Messina, Perché la “B” ha accettato la riapertura delle frontiere, in La Gazzetta dello sport, 22 marzo 1980.

[57] N.P. Caduto il veto agli stranieri con una formula all’italiana, in Corriere della Sera, 10 maggio 1980; Come il governo del calcio affronta la crisi, in La Gazzetta dello Sport, 10 maggio 1980.

[58] N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., p. 226.

[59] Nel 1981 la giunta del Coni presieduta da Carraro approvò un incremento del 50% della quota del Totocalcio destinata al calcio.

[60] Una ricostruzione del caso Bosman e della relativa sentenza si trova in P. Russo, Soldi e pallone. Come è cambiato il calciomercato, Milano, 2018, pp. 61-76.

[61] Ibidem, p. 75.