Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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La situazione della giustizia sportiva a quattro anni dalla riforma (di Mario Sanino, Avvocato amministrativista, è presidente della Camera amministrativa romana. È presidente di sezione del Collegio di Garanzia dello Sport presso il CONI.)


It’s an extensive and detailed report of the innovation introduced by the 2014 CONI reform since now.

After a clarification of the evolution of the «Diritto Sportivo», there is an evaluation of the case law coming from Administrative Judge and from the Collegio di Garanzia dello Sport, so from the statal and from the sportive jurisdiction.

Most of the case illustred are originating from the Collegio di Garanzia, whose verdicts have completed and enforced some provisions of the CONI Codice di Giustizia.

Topical subject are consequence of an illegitimate sanction, precautionary process, right of access, protection against Federation’s silence or inertia.

SOMMARIO:

1. Le basi sulle quali la riforma ha operato - 2. La evoluzione del Diritto Sportivo: dal primo numero della Rivista di Diritto Sportivo ad oggi - 3. L’approdo alla riforma del 2014 - 4. Le connotazioni essenziali della riforma - 5. Gli interventi conformativi della giurisprudenza - 5.1. La competenza del Collegio di Garanzia dello Sport - 5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva - 5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva - 5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva - 5.3. L’«accesso sportivo» - 5.4. Il «silenzio sportivo» e il procedimento cautelare - NOTE


1. Le basi sulle quali la riforma ha operato

Sono trascorsi oltre tre anni dalla riforma della giustizia sportiva voluta dal CONI e si può tentare di procedere ad una ponderata valutazione dell’impatto che la riforma ha avuto sulla organizzazione dello Sport del nostro Paese.

Verosimilmente tre anni possono ritenersi pochi per manifestare apprezzamenti definitivi; ma sono almeno sufficienti per raccogliere novità e verificare la reazione dei componenti l’ordinamento.

Peraltro non può omettersi in questa prospettiva, anche a supporto di quanto si dirà, di raccogliere e riordinare le osservazioni che hanno consentito di meditare sul­l’e­vo­luzione del Diritto Sportivo fino a raggiungere la conformazione attuale.

È, quindi, utile rammentare telegraficamente che all’interno dell’ordinamento statale si collocano una serie di fenomeni associazionistici complessi, e comunque di carattere collettivo, considerati a tutti gli effetti degli «ordinamenti giuridici settoriali», dotati di propria autonomia, seppur operanti nel rispetto della supremazia dell’ordina­mento statale.

Secondo il «principio della pluralità degli ordinamenti giuridici», infatti, ogni associazione che possieda i caratteri della plurisoggettività (composta da soggetti aderenti o affiliati), dell’organizzazione (governata da propri organi interni in merito ad aspetti normativi, esecutivi e giurisdizionali) e della normazione (capace di emanare norme interne proprie) è definibile come «Istituzione» o «Ordinamento giuridico».

Le nozioni a lungo elaborate sul tema ora in esame devono considerarsi come fondate sul nucleo della nota teoria istituzionalistica elaborata da Santi Romano [1], secondo cui, in estrema sintesi, può configurarsi la sussistenza di un ordinamento giuridico ogniqualvolta si sia al cospetto di un insieme di soggetti organizzati in strutture predefinite e retti da regole certe [2].

La pluralità possibile degli ordinamenti giuridici risulta, perciò, dalla concepibilità di più di un tipo di ordinamento (oltre quello statale). I vari tipi di ordinamenti, ossia le species del genus, risultano dalle differenze distinguibili in ciascuno degli aspetti essenziali del genus.

Così sono possibili altri ordinamenti, rispetto a quello statale, ogni volta che la soggettività è diversa da quella stabilita dall’ordinamento statale, ogni volta che la normazione non è, almeno in parte, di provenienza statale, ma è prodotta da un’altra collettività o comunità, e dunque ogni volta che l’organizzazione è distinta, almeno in parte, da quella propriamente statale.

La pluralità di ordinamenti è possibile proprio in quanto siano concepibili ordinamenti sociali, con una propria predeterminazione dei soggetti, con una propria (almeno parziale) produzione normativa, con una propria (almeno parziale) organizzazione (autorità) [3].

Ovviamente, in questo contesto, l’ordinamento statale sarà di supporto e complemento di ogni ordinamento settoriale.

Non potendosi in questa sede affrontare i pur affascinanti aspetti della teoria generale dell’ordinamento giuridico (che si è tentato grossolanamente riassumere), sarà sufficiente rilevare come sia oggi comune la divisione degli ordinamenti giuridici in due categorie:

a) ordinamenti giuridici esprimenti interessi collettivi (fra i quali, soprattutto, gli enti pubblici territoriali e fra questi, innanzitutto, lo Stato);

b) ordinamenti giuridici esprimenti interessi settoriali (come, ad esempio, le associazioni).

Il rapporto tra le due categorie di ordinamenti deve essere risolto in termini di non autosufficienza degli ordinamenti settoriali, se pur autonomi sotto il profilo funzionale; e la detta mancanza di autosufficienza deve esprimersi, quanto meno [4], nella conseguenza che gli effetti connessi ad atti provenienti da un ordinamento esprimente interessi settoriali e determinanti conseguenze contrastanti con i principi fondamentali dello Stato (o di altro ente pubblico territoriale) possono legittimamente essere conosciuti e giudicati da quest’ultimo.

Questi concetti di ordine generale sono stati utilizzati, ovviamente anche dalla giurisprudenza del Collegio di Garanzia dello Sport e si trovano ribaditi in numerose decisioni, proprio nell’opera di aggiustamento e completamento dell’ordinamento sportivo.

Su questi interventi della giurisprudenza, appunto, possono forse essere utili le presenti considerazioni.


2. La evoluzione del Diritto Sportivo: dal primo numero della Rivista di Diritto Sportivo ad oggi

Prima di meditare, quindi, sulla giurisprudenza intervenuta con finalità conformative dell’ordinamento, può essere interessante verificare la consistenza del Diritto Sportivo ed esaminarne la sua evoluzione che può indicativamente articolarsi attraverso cinque periodi.

 

2.1. – Il primo periodo può collocarsi tra il 1949 e il 1991. Nel 1949 apparve – come anticipato – l’articolo di M.S. Giannini in apertura della Rivista di Diritto Sportivo sulla autonomia dell’ordinamento sportivo. In realtà, lo studio (decisamente il primo di consistente validità giuridica) da un lato – come si è detto – riprendeva, con originali spunti, le prospettazioni di Santi Romano sugli ordinamenti settoriali e, dall’altro, sollecitava al legislatore un intervento che rivisitasse in modo organico l’intera materia.

Quella fu l’occasione che originò un’attenzione particolare sull’ordinamento sportivo; fu anche la prospettiva attraverso la quale si esaminò l’unica legge che nel frattempo era intervenuta, e cioè la legge 6 febbraio 1942, n. 426 («Costituzione e ordinamento del Comitato Olimpico Nazionale Italiano CONI»), con la quale venne regolamentato in modo organico l’ambito di operatività del CONI, riconoscendogli la qualifica di ente pubblico, con l’attribuzione della funzione di organizzare e potenziare lo Sport nazionale.

Gli argomenti trattati dopo i richiami di Giannini furono essenzialmente – oltre l’argomento relativo alla natura giuridica del CONI – quelli della natura giuridica delle Federazioni e del rapporto di collaborazione che interveniva tra l’atleta e l’associa­zione sportiva. L’incertezza sulle materie, ancora consistente, era decisamente produttiva di equivoci e provocava la imputabilità di tutti gli atti delle Federazioni al CONI. In realtà, la posizione del CONI era assolutamente predominante e assorbente, anche grazie alla possibilità di beneficiare monopolisticamente delle entrate del Totocalcio.

I contributi dottrinari e giurisprudenziali, peraltro sempre più consistenti, concorsero a porre in evidenza la rilevanza che l’esercizio dello Sport originava sotto il profilo giuridico [5].

È interessante notare che la materia (originariamente di pertinenza degli studi privatistici) progressivamente cominciò ad interessare tutte le scienze giuridiche, accentuando anzi l’attenzione da parte della scienza pubblicistica.

La situazione sembrava sostanzialmente consolidata allorquando nel 1980 il mondo sportivo italiano (ma ovviamente il mondo del calcio) fu sconvolto dalla vicenda del calcio scommesse. Furono rimeditate tutta una serie di questioni, ma che si accentravano essenzialmente sull’assetto organizzativo delle associazioni sportive e sul rapporto di collaborazione di queste con gli atleti.

Con la legge 23 marzo 1981, n. 91 («Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti») si ritenne, quindi, necessario dettare norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti: i fatti più eclatanti di questo primo periodo furono individuati, da un lato, nella conferma che il rapporto tra associazione e atleta fosse qualificabile come rapporto di lavoro subordinato, costruzione dovuta sino allora soltanto alla giurisprudenza, e, dall’altro, sul fatto che le società sportive potessero essere costituite anche come società per azioni, peraltro senza fine di lucro. Trattasi di istituto che, al di là della sua originalità, non trovò consistenti consensi, e comunque non ebbe particolare «fortuna».

La legge n. 91/1981 ha costituito un caposaldo per la evoluzione della materia della Giustizia Sportiva ed ha contribuito ad accrescere l’interesse della dottrina per le vicende sportive.

 

2.2. – Il secondo periodo è da collocare appunto tra il 1981 e il 1996. In questo frattempo la giurisprudenza offre consistenti contributi in ordine alla problematica di Diritto Sportivo ed inoltre le vicende sportive hanno cominciato ad interessare la Comunità Europea; soprattutto è intervenuta la vicenda relativa al caso Bosman. Come è noto, il contenzioso fu originato dalla pretesa del giocatore di non avere ostacoli al trasferimento in altra squadra ed a maggior ragione ad opera della società per la quale era tesserato.

La questione è di particolare importanza, perché segna la data di avvio dell’inte­ressamento al mondo dello Sport della Comunità Europea. Per ora è sufficiente ricordare che i giudici di Bruxelles hanno riconosciuto agli sportivi la titolarità delle libertà economiche fondamentali disciplinate nel Trattato di Roma anche nei confronti dell’organizzazione sportiva operante nell’ambito del mercato interno. Hanno, quindi, trovato applicazione il divieto di discriminazione basata sulla nazionalità (art. 12, Tratt. CE), la libertà di circolazione dei lavoratori (art. 39, Tratt. CE), la libertà di stabilimento (art. 43, Tratt. CE), il principio del mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali (art. 47, Tratt. CE). Va menzionato che, da ultimo, il divieto di discriminazione ha trovato applicazione anche a favore dei professionisti degli Stati terzi con i quali la UE ha stipulato accordi di cooperazione o di associazione.

La Corte di Giustizia della Comunità Europea ritenne che non fosse consentito alcun limite alla «libera circolazione dei lavoratori» e quindi anche nei confronti dei calciatori professionisti. Questo rilievo indusse alla necessaria modifica delle disposizioni della legge n. 91/1981 e ciò avvenne con la legge 18 novembre 1996, n. 586, che, da un lato, superò la configurazione del rapporto di collaborazione come rapporto di lavoro subordinato e, dall’altro, corresse la qualificazione delle società sportive, come società per azioni senza fine di lucro.

È agevole sottolineare che furono superati tutti i punti di approdo cui in precedenza si era pervenuti. L’intervento della Comunità ebbe quindi conseguenze penetranti sulla disciplina della organizzazione dello Sport nel nostro Paese. Non solo si abbandonò senza esitazione lo schema sino allora seguito per la valutazione e conformazione del rapporto tra società e atleta, ma le stesse società sportive, trasformate in autentiche società per azioni, ebbero una attenzione particolare per la loro definitiva collocazione nell’ordinamento sportivo.

 

2.3. – Il terzo periodo è collocabile tra il 1996 e il 2001. È stato il momento del Governo Prodi, nel corso del quale si affermarono ulteriormente il principio del pluralismo e il principio della sussidiarietà, anche attraverso la promulgazione di numerose leggi delega delle quali si fece ampia utilizzazione. Con il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 («Legge Melandri»), in sede di riforma del settore, fu data una definitiva configurazione al CONI come Ente pubblico, mentre alle Federazioni fu attribuita una qualificazione giuridica privatistica.

L’innovazione normativa è stata incrementata con il nuovo Statuto del CONI, che ha avuto particolare rilevanza nel campo della Giustizia Sportiva. Si deve allo Statuto del CONI la previsione di una Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport (istituto, peraltro, che non ha avuto particolare fortuna).

Può affermarsi che l’intervento del legislatore, anche costituzionale, con la riforma del Titolo V della Costituzione, questa volta fu sollecitato anche da fatti collaterali che sino allora non avevano trovato considerazione. L’avvento delle televisioni e l’esalta­zione della autonomia, anche negoziale, delle società concorsero a rinsaldare il ruolo delle Leghe, sino allora del tutto contenuto. Ormai la modifica del contesto nel quale le vicende dello Sport si erano collocate, diviene complessa e sostanziale. Di questo rinnovato contesto ha risentito l’apparato della «Giustizia Sportiva»; le decisioni del Giudice Amministrativo sono state sul punto particolarmente puntuali e chiarificatrici in ordine alla tutela giurisdizionale degli atleti. Peraltro, sulla scorta di principi ormai consolidati, si consacrò la competenza del Giudice Amministrativo a sindacare atti (di natura disciplinare) adottati dagli organi di Giustizia Sportiva.

 

2.4. – Il quarto periodo è collocabile tra la data da ultimo indicata e il 2003; anno, questo, di promulgazione della legge 17 ottobre 2003, n. 280.

In realtà non è esagerato affermare che la «Giustizia Sportiva» riceve una definitiva consacrazione, come argomento di teoria generale del diritto con questa legge. Ed infatti, come si è già avuto modo di segnalare, la concorrenza degli ordinamenti giuridici pone la questione delle reciproche relazioni, dell’eventuale conflitto e della individuazione dei criteri di soluzione. Il problema del rapporto tra ordinamento sportivo ed ordinamento nazionale è risolto dallo stesso legislatore, che, nel d.l. 19 agosto 2003, n. 220, convertito in legge 17 ottobre 2003, n. 280, meglio noto come «decreto salva – calcio», affronta con una norma di principio l’importante questione. L’art. 1, legge n. 280/2003, contenente principi generali, precisa che «la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’Ordina­mento Sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale». Nel comma 2, il medesimo articolo mostra piena consapevolezza del collegamento della specifica materia regolata con la teoria generale, laddove ribadisce che «i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio dell’autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento sportivo» [6].

Quest’ultima norma mostra di tenere in debito conto l’evoluzione teorica della materia, laddove fa salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo.

2.5. – Il quinto periodo è quello che dal 2003 si esaurisce con i giorni nostri. Verosimilmente non è proprio corretto immaginare una collocazione temporale autonoma degli ultimi (recenti) eventi. La verità è che può affermarsi senza indugio che ormai la materia abbia conquistato una posizione autonoma. Il Convegno di Capri del 2008 della Società degli Studiosi di Diritto Civile, proprio sul Diritto Sportivo, ha consacrato definitivamente lo Sport come argomento caratterizzante una Scienza giuridica [7].

In detto periodo sono rilevanti, peraltro, due episodi.

Il primo costituito dalla nota vicenda di «calciopoli», conclusasi con la nota decisione della Corte di Giustizia Federale del 2006; tale decisione ha condotto alla riforma dei sistemi di Giustizia Sportiva all’interno dell’organizzazione delle Federazioni cui hanno fatto seguito, nel tempo, tutta una serie di interventi normativi, adottati dal legislatore sportivo, che sono culminati nella determinazione del Codice della Giustizia Sportiva e nella istituzione, presso il CONI, del Collegio di Garanzia dello Sport e della Procura Generale dello Sport, interventi che saranno descritti nelle pagine che seguono.

Il coordinamento tra l’intervento di questi organi e quello degli organi delle Federazioni non è stato semplice ed ha originato diverse perplessità.

Il secondo episodio è costituito dalla promulgazione del d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9, intitolato «Disciplina della titolarità e della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi e relativa ripartizione delle risorse» con il quale si dà attuazione alla delega conferita al Governo dalla legge 19 luglio 2007, n. 106, intitolata «Delega al Governo per la revisione della disciplina relativa alla titolarità ed al mercato dei diritti di trasmissione, comunicazione e messa a disposizione al pubblico, in sede radiotelevisiva e su altre reti di comunicazione elettronica, degli eventi sportivi dei campionati e dei tornei professionistici a squadre e delle correlate manifestazioni sportive organizzate a livello nazionale».

Sino al 2000 la gestione delle utilità derivanti dallo sfruttamento dello spettacolo sportivo era interamente affidata ad atti di autonomia privata, sia di singoli soggetti che di enti esponenziali degli stessi. Interveniva la giurisprudenza per assegnare la titolarità dei diritti di sfruttamento esclusivo e concedere (o negare) un particolare percorso preferenziale a favore degli organizzatori dello spettacolo sportivo.

Gli istituti giuridici invocati, e talvolta applicati, erano i più vari, dal diritto d’au­tore, alla concorrenza sleale, alla tutela dell’azienda e della sua attività produttiva, al divieto di accesso a luoghi privati.

La disciplina cambia sotto la spinta dell’accresciuta rilevanza dello spettacolo sportivo nella confezione dei palinsesti televisivi. Rilevanza dettata da fenomeni di dimensione planetaria ovverosia la circostanza che lo stesso evento (giochi olimpici, campionato di F1, campionato del mondo del calcio, ecc.) è visto in contemporanea o quasi da milioni di persone. Ciò comporta una lievitazione dei costi e la strumentalizzazione dell’evento sportivo attorno al quale si realizzano dinamiche concorrenziali e di esclusività.

Di qui una attenzione, in Europa, delle autorità comunitarie preposte alla tutela della concorrenza.

Il risultato di tale inquadramento antitrust è consistito nel nostro Paese in una indagine conoscitiva dell’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato che apre la strada alla L. 29 marzo 1999, n. 78, la quale, sia pure con formule legislative piuttosto incerte, attribuisce alle società calcistiche iscritte ai campionati di serie A e di serie B un diritto di esclusiva sullo sfruttamento televisivo dello spettacolo sportivo, fissando un limite del 60% per l’acquisizione dei complessivi diritti da parte di terzi.

La disposizione, dunque, dà veste legislativa ad una situazione di appartenenza di fatto: infatti, le squadre di calcio professionistico si erano comportate uti domini dei diritti televisivi, ottenendo, in genere, il riconoscimento del loro buon diritto in sede giurisprudenziale.

Le conseguenze economiche sono però significative: le principali società di calcio – giovandosi della legittimazione negoziale sempre loro riconosciuta – intavolano trattative dirette con gli operatori televisivi cercando di sfruttare al massimo la rinomanza del loro marchio e riuscendo ad ottenere contratti assai vantaggiosi. A questo punto l’o­pe­ratore televisivo ha quasi saturato le proprie esigenze di programmazione calcistica (non si dimentichi, peraltro, la ampia offerta delle competizioni europee) e dimostra scarso interesse, se non a prezzi stracciati, per gli spettacoli offerti dalle squadre minori [8].

Questa preminente allocazione delle risorse verso i più grandi – pienamente coerente in un mercato concorrenziale – viene da più parti contestata perché, secondo questa prospettazione, nello schema della competizione agonistica anche i soggetti minori sono essenziali, perché senza di essi non potrebbe configurarsi una seria programmazione degli spettacoli. È necessario, dunque, un «bilanciamento competitivo» che eviti che i soggetti minori diventino ancora più deboli, rendendo estremamente difficile la competizione con i più grandi, e comunque scarsamente spettacolare in quanto l’esito è scontato.

Le critiche hanno trovato il loro approdo politico – legislativo quando, nell’estate del 2006 una vicenda di mero rilievo disciplinare – la asserita violazione dei doveri di correttezza da parte dei dirigenti di alcune grandi società – ha subìto uno spropositato risalto mediatico alimentato dal torbido intreccio di interessi fra magistrati degli uffici del pubblico ministero e giornalisti, con la pubblicazione di centinaia di trascrizioni di intercettazioni telefoniche. Mettendo da parte i dubbi sulla effettiva rilevanza penalistica delle vicende e sul, a dir poco curioso, dispendio di energie e risorse investigative sul calcio da parte di uffici giudiziari di una regione vastamente infettata dalla criminalità organizzata e da centinaia di migliaia di episodi di c.d. «micro – criminalità», la principale causa di tali episodi di illecito sportivo veniva ricondotta alla squilibrata distribuzione delle risorse derivanti dai diritti televisivi. Sulla spinta del clamore il Governo presenta un disegno di legge che verrà poi approvato con la già citata legge n. 106/2007. Testo normativo, questo, che come si è detto introduce una nuova disciplina per la commercializzazione di diritti audio-visivi sportivi.

Nel fenomeno evolutivo della legislazione non può omettersi di ricordare che la legge n. 220/2003 è stata nuovamente rimessa alla Corte costituzionale dal Tar Lazio, Sez. I ter (ord. 11 ottobre 2017 n. 10171 in Foro it., 2017, III 260), il quale ha ritenuto che «non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, 1° comma, lett. b), e, in parte qua, 2° comma, d.l. 19 agosto 2003 n. 220, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 ottobre 2003 n. 280, nella parte in cui sottraggono al sindacato del giudice amministrativo la tutela annullatoria nelle controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari sportive incidenti su situazioni giuridicamente rilevanti per l’ordinamento statale, in riferimento agli art. 24, 103 e 113 Cost.».


3. L’approdo alla riforma del 2014

In realtà l’ultimo periodo (conclusivo) dovrebbe ritenersi quello conclusosi con la riforma voluta dal CONI nel 2014.

Assoluta novità in tema di Giustizia Sportiva è costituita quindi dalla adozione da parte del CONI del Codice di Giustizia Sportiva.

La vicenda, come è noto, è dovuta alla posizione sempre determinante, assunta in argomento dal CONI: le Federazioni sono sostanzialmente organi (in senso atecnico) del CONI: questi è deputato a gestire e amministrare lo svolgimento dello Sport nel nostro Paese; quindi, non è possibile immaginare che un contenzioso che si origina all’interno della Federazione non trovi la sua naturale (ultima) conclusione in sede CONI. È una forma impropria di vigilanza, ma è stato sempre accettato dai commentatori il fatto che al CONI spetti l’ultima parola in merito al contenzioso che dovesse articolarsi in seno alle Federazioni.

Pressoché tutte le Federazioni si erano dotate di normativa attraverso la quale veniva disciplinata all’interno della Federazione l’amministrazione della giustizia; ovviamente tanto più complessa e consistente era la Federazione, tanto più articolate erano le disposizioni. Ed invero era facile rinvenire nella Federazione testi normativi anche molto sofisticati, nei quali erano puntualmente previste le relative sanzioni.

Con una iniziativa che merita senz’altro un apprezzamento positivo il CONI ha ritenuto rimeditare sull’argomento e, insieme alla istituzione del Collegio di Garanzia dello Sport, ha ritenuto opportuno dotarsi anche di un Codice che cosituisce normativa base in virtù della quale dovranno essere disciplinati, sia all’interno delle Federazioni che per lo stesso CONI, i rapporti contenziosi tra i vari operatori nell’ambito sportivo.

Ma non basta. L’opera innovatrice avviata con la modifica dell’art. 12 dello Statuto del CONI e l’introduzione degli artt. 12 bis e 12 ter, è stata completata con l’avvento di ulteriori norme: ci si riferisce i) ai «Principi di Giustizia», ii) al Regolamento di Organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport iii) ai «Principi fondamentali degli Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali, delle discipline Sportive Associate».

L’impresa in realtà non è stata agevole, dal momento che l’iniziativa normativa ha avuto per oggetto tutto il «mondo» sportivo che, come noto, è estremamente variegato e non omogeneo.

Il CONI, dunque, attraverso la modifica dell’art. 12 e l’introduzione degli artt. 12 bis e 12 ter dello Statuto ha istituito due nuovi organi di giustizia: il Collegio di Garanzia dello Sport e la Procura Generale dello Sport destinati a sostituire l’Alta Corte di Giustizia Sportiva e il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport.

Quindi è stato adottato il Codice della Giustizia Sportiva, dapprima con deliberazione del Consiglio Nazionale del CONI n. 1512 dell’11 giugno 2014 e poi con deliberazione n. 1518 del 15 luglio 2014.

La ratio sottesa all’adozione, in ambito CONI, del suddetto Codice è stata, oltre quella di offrire strumenti operativi al nuovo istituto del Collegio di Garanzia, quella di dettare regole procedurali univoche per tutte le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate. In altri termini, in virtù delle disposizioni dettate dal nuovo Codice della Giustizia Sportiva, il processo sportivo ha iniziato a svolgersi secondo le stesse regole in tutti í vari ordinamenti federali.


4. Le connotazioni essenziali della riforma

Non può non riconoscersi alla recente opera di riforma del CONI sulla Giustizia Sportiva una storica incisività, sia da un punto di vista tecnico-giuridico, sia per la forza dirompente delle azioni di politica sportiva attuate.

Le convinzioni che hanno animato i conditores del recente passato (e che tuttora animano, vista la costante attività di aggiornamento e affinamento della disciplina) [9] affondano le radici nella pluridecennale evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di diritto e di giustizia sportiva. Infatti, il nuovo disegno sistematico di giustizia si trova, ancora una volta, ad inserirsi nella costante ricerca di autonomia del­l’ordinamento giuridico sportivo [10] al fine di una sempre più impeccabile autodichia dello sport [11].

Lo «sforzo culturale» [12] posto in essere dal legislatore sportivo del 2013 in tema di giustizia ha, come ben noto, dato nuova linfa alle istituzioni di giustizia incardinate presso il CONI.

La riforma, d’altronde, si è andata ad innestare in un’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale pluridecennale, tentando di dare definitiva attuazione al c.d. decreto Pescante – il d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15 – che vede il CONI unico soggetto in grado di sostituirsi alle Federazioni Sportive Nazionali nella normazione in materia di giustizia, per perseguire e realizzare interessi di natura pubblicistica mediante individuazione di «criteri generali dei procedimenti di giustizia» [13] (art. 7, comma 2, lett. h-bis) [14].

Il Comitato Olimpico, infatti, mediante la predisposizione di un «Testo Unico di Giustizia Sportiva» [15], ha evidenziato il proprio intento di sostituirsi, con l’emanazione di un regolamento di giustizia generale, alle Federazioni Sportive Nazionali nella normazione in materia di giustizia.

Dalla lettura del verbale dell’allora riunione del Consiglio Nazionale emerge la volontà di preservare l’autonomia nell’amministrazione della giustizia delle Federazioni, dando il nullaosta ad un sistema di giustizia volto a garantire anzitutto il rispetto del principio di legalità nell’ordinamento sportivo e a responsabilizzare il più possibile gli organi di giustizia federale, ribadendo e affermando, d’altro canto, il potere di vigilanza e di coordinamento attribuito ex lege al CONI nei confronti delle Federazioni medesime [16].

La ragione di tale intromissione nella sfera di autonomia federale, a ben vedere, trova una base normativa proprio nello stesso decreto Pescante; infatti, qualsivoglia atto concernente la giustizia sportiva ha ex se una valenza pubblicistica che consente al CONI di disporre forme di intervento sugli ordinamenti federali, atti ad individuare quei criteri generali dei procedimenti di giustizia cui si è fatto cenno. Parte della dottrina ha addirittura sostenuto che siffatta forma di intervento sia la naturale espressione della natura del CONI di «associazione di secondo grado» [17]; tale locuzione sarebbe rappresentativa della situazione, sulla falsariga di quanto accade con il vincolo associativo, per cui le Federazioni, all’atto del riconoscimento, sono obbligate a rispettare le regole monopolistiche dettate a livello confederale [18].

Si tratta, a ben vedere, di una forma impropria di vigilanza [19] sull’attività giustiziale che si svolge in seno alle Federazioni, fino ad allora lasciate senza condizioni nello statuire autonomamente regole procedurali dei procedimenti endofederali. Queste, pur conservando anche ad oggi autonomia normativa da un punto di vista di diritto sostanziale in materia di illeciti con le relative sanzioni – in funzione della peculiarità della disciplina sportiva, anche in conformità con quanto statuito dalle Federazioni internazionali di appartenenza [20] –, sul piano procedurale sono state assoggettate alla disciplina univoca prevista dal Codice della Giustizia Sportiva [21].

L’ingresso del CONI, mediante il Codice, nello spazio di autonomia delle Federazioni non deve condurre a conclusioni affrettate.

Invero, se, da un lato, è riscontrabile che il Codice della Giustizia Sportiva ha ridotto lo spazio decisionale e di movimento degli organi di giustizia federale con la predisposizione di meccanismi di controllo da parte del CONI, dall’altro, l’omogeneizza­zione procedurale ha fatto in modo di «salvaguardare uno spazio di autonomia federale nell’amministrazione della giustizia [...] mediante l’impossibilità posta al Collegio di Garanzia di poter emettere un giudizio sul merito e vincolando rigidamente l’eser­cizio dei poteri della Procura Generale» [22].

Il risultato cui il legislatore sportivo è pervenuto è, dunque, quello di un Sistema di Giustizia Sportiva in senso stretto, sotto l’egida del CONI [23], basato su medesimi principi in sede endo ed esofederale, pur con modalità procedimentali ovviamente differenziate (ma pur sempre riconducibili ad un unico genus); ciò in modo da agire celermente e, quando occorre, drasticamente [24] e al fine di offrire garanzie reali di obbiettività, imparzialità di giudizio e capacità di autocorrezione sia in sede di impugnativa sia in sede istruttoria e dibattimentale, tutto ciò per realizzare una giustizia sportiva, finalmente, pienamente effettiva [25].

Proprio l’accentuazione dei caratteri pubblicistici del sistema di amministrazione della giustizia, in cui il CONI è garante di ultima istanza, attraverso le norme del citato Codice nonché attraverso l’azione del Collegio di Garanzia e della Procura Generale dello Sport, ha costituito, dunque, le basi per porre ordine al sistema di risoluzione delle controversie e fornendo forme maggiormente compiute ed elaborate di tutela giustiziale.

Ebbene, a conclusione di tali argomentazioni, può ritenersi che, dopo circa quattro anni di procedimenti armonizzati, la predisposizione di un modello procedurale unico abbia portato non pochi giovamenti.

L’esser guidati da punti di riferimento fissi e largamente inderogabili, eliminando così il rischio di imbattersi in Regolamenti di Giustizia federali che non garantissero effettiva tutela e che, ad esempio, consentissero procedimenti disciplinari con bibliche tempistiche di definizione, ha apportato giovamento all’intero sistema.

Invero, anche attraverso l’attività di «osmosi» che un sistema uniforme consente – ove giudici e procuratori di diverse Federazioni possono confrontarsi sulle modalità di risoluzione di profili che emergono da un’unica disciplina – l’intero comparto giustiziale sportivo risulta ormai dotato di quell’efficienza auspicata dai compilatori.


5. Gli interventi conformativi della giurisprudenza

Alla luce delle valutazioni sin qui svolte occorre dare resoconto della reazione della giurisprudenza. Ed invero, può affermarsi che l’opera integratrice del Collegio di Garanzia è stata davvero consistente e fedele esecutrice dei principi ai quali all’inizio si è fatto cenno, in ordine ai rapporti tra ordinamento statale e ordinamento settoriale.


5.1. La competenza del Collegio di Garanzia dello Sport

Argomento assolutamente pregevole – e che merita essere segnalato per primo – è quello concernente la verifica della competenza del Collegio di Garanzia dello Sport, prescritta con la modifica apportata allo Statuto CONI tramite l’inserimento dell’art. 12 bis.

Come noto, tale norma dispone che è «istituito presso il CONI in posizione di autonomia e indipendenza, il Collegio di Garanzia dello Sport, organo di ultimo grado della giustizia sportiva, cui è demandata la cognizione delle controversie decise in via definitiva in ambito federale, ad esclusione di quelle in materia di doping e di quelle che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni tecnico-sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino a 10.000 euro».

Nello stesso senso si esprime l’art. 54 del Codice di Giustizia Sportiva che riporta testualmente l’espressione dell’art. 12 bis dello Statuto.

Ebbene, proprio in avvio della attività del Collegio di Garanzia si è posto il problema dell’effettivo significato della indicazione della norma con la quale si specifica che al Collegio di Garanzia era precluso di occuparsi di vertenze di scarsa importanza. L’indicazione della norma sollecitava una interpretazione logica, coerente e correlata al sistema che supporta l’ordinamento sportivo.

Gli artt. 12 bis, comma 1, dello Statuto CONI e 54, comma 1, del CGS CONI dettano due diversi criteri per individuare e delimitare la cognizione del Collegio di Garanzia: uno per materia, in virtù del quale sono escluse le controversie in materia di doping; l’altro che si potrebbe definire per valore, essendo legato alla misura delle san­zioni irrogate in sede endofederale, misura che non deve essere inferiore alla soglia minima di novanta giorni, per le sanzioni tecnico sportive, e di 10.000 euro, per quelle pecuniarie.

La ratio delle norme è stata enunciata con molta chiarezza dalle Sezioni Unite del Collegio di Garanzia nella decisione n. 6 del 10 febbraio 2016, successivamente ribadita con altre decisioni sino alla recentissima n. 2/2018. Con tali decisioni si è affermato che «La ratio complessiva della riforma (…) è, sul punto, quella di evitare che l’organo di “legittimità della giustizia sportiva si occupi di controversie c.d. “bagatellari”, cioè relative – in riferimento ai procedimenti disciplinari – a fatti di lievissima entità, per i quali è sufficiente la definizione della giustizia endofederale. La “ratio legis” è, ad avviso del Collegio, quella di consentire il giudizio di legittimità del Collegio di Garanzia allorché la “controversia”, cui l’art. 12 bis Statuto CONI si riferisce, abbia il connotato della gravità (…)».

Le disposizioni sopra citate quindi hanno inteso stabilire un filtro di accesso al supremo Organo della Giustizia Sportiva, investendolo del controllo delle decisioni assunte dagli organi di giustizia endofederali, solo quando queste riguardino controversie che abbiano il connotato della gravità. In sostanza, secondo la logica del Codice, la cognizione del Collegio di Garanzia dello Sport sussiste ogniqualvolta la controversia da esaminare e decidere presenti il carattere della gravità; mentre è esclusa per le controversie di modesta rilevanza. E si tratta di una logica pienamente condivisibile, poiché evita che il massimo organo della giustizia sportiva debba farsi carico di controversie di scarsa rilevanza, concentrandosi invece su quelle che presentino un connotato di particolare rilevanza. Il criterio di selezione riposa dunque non tanto sulla misura delle sanzioni effettivamente irrogate in sede federale, quanto sulla gravità delle controversie, la quale dipende dalla gravità delle condotte censurate e, conseguentemente, dalla misura delle sanzioni previste per quelle violazioni.

Se la ratio delle norme in esame è quella di evitare che le controversie «bagatellari» siano devolute alla cognizione del Collegio di Garanzia, escludere l’ammissibilità del ricorso anche nei casi in cui siano state ravvisate condotte gravemente censurabili, astrattamente idonee a motivare sanzioni ben superiori alla soglia minima prevista dagli artt. 12 bis e 54 citt., significherebbe sostenere tout court la non ricorribilità di qualunque decisione di assoluzione, indipendentemente dai dati contestati ed indipendentemente dal fatto che vi sia stata o meno un’indagine sulla configurabilità delle violazioni ravvisate e sulla gravità di esse. Una siffatta preclusione condurrebbe a esiti aberranti considerato che si potrebbero sottrarre alla cognizione del Collegio di Garanzia senza alcuna giustificazione logica, controversie aventi ad oggetto anche fatti oggettivamente gravi e idonei a suscitare una sanzione notevolmente superiore a quella minima stabilita dagli artt. 12 bis dello Statuto e 54 del Codice.

Questo è un principio assolutamente da condividere e non desta perplessità di sorta. Unico dato di rilievo è costituito dal fatto che l’applicazione della norma nel senso ora specificato sottende, da parte del Collegio di Garanzia, ad una valutazione che è connessa al merito della controversia.

Trattasi verosimilmente di una ipotesi (segnalata dalla dottrina più avveduta) secondo la quale «nessun principio può essere applicato in termini assoluti, ignorando gli altri, ma la loro moltiplicazione riflette le tante attese che circondano il difficile compito di tenere insieme le garanzie e la considerazione di tutti gli interessi in gioco …» [26].

Concludendo, la giurisprudenza intervenuta si è attestata sulla seguente posizione: la ratio e lo spirito che hanno sollecitato il legislatore sportivo nella adozione delle norme in commento, sono senz’altro nel senso appena specificato e cioè di configurare il Collegio di Garanzia come giudice di legittimità al quale sono precluse controversie di modesta consistenza; ma il Collegio recupera per intero la sua competenza, nel caso in cui nascosta dal paravento della modesta sanzione, sia configurabile una questione grave e di massima rilevanza per l’ordinamento.


5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva

Altro problema, certamente collegato a vicende inerenti alla Giustizia Sportiva, ma originato dalla prosecuzione del contenzioso dinanzi al Giudice Amministrativo, ha per oggetto la possibilità di un risarcimento del danno a vantaggio di chi abbia subito una sanzione da parte del giudice endoassociativo, successivamente dichiarata illegittima.

L’arresto in questione, sent. n. 1163/2017 del Tar Lazio, ha inteso rispondere alla seguente, ben nota, sollecitazione: se la sanzione adottata illegittimamente dai giudici sportivi può essere idonea ad originare una causa di risarcimento danno, subito dal­l’operatore, nei confronti dei giudici sportivi.

Il quesito in realtà non sembra mal posto, ed invero i) può configurarsi, nell’agire della Giustizia Sportiva, un’attività provvedimentale che si sostanzia in una irrogazione di una sanzione amministrativa; ii) la legge n. 280/2003 impone di rivolgersi al Giudice Amministrativo nella ipotesi di conclusione del procedimento contenzioso dinanzi ai giudici sportivi (art. 119 c.p.a.); iii) si può certamente ipotizzare che la sanzione abbia prodotto un pregiudizio in chi l’abbia subita.

Occorre, dunque, focalizzarsi sulla incidenza del nuovo «Sistema di Giustizia Sportiva» nella annosa questione della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna.

Stante la sistematicità e la solidità, auspicata dal legislatore sportivo del 2013, dell’odierno sistema di giustizia sportiva, deve, tuttavia, registrarsi un elemento di criticità: la pericolosa e preoccupante ingerenza esterna del Giudice Amministrativo sul­l’operato del sistema giustiziale dello sport.

Infatti, se è vero che una delle finalità della legge n. 280/2003 è stata quella di rendere la giustizia sportiva quanto più credibile agli occhi della giustizia statale, nella evidente speranza che l’attenzione del Tar e del Consiglio di Stato potesse gradualmente affievolirsi, dopo quattro anni di vigenza del Codice della Giustizia Sportiva e dell’istaurazione del Collegio di Garanzia si assiste, invece, a orientamenti giurisprudenziali perplessi.

Le più recenti pronunce della giustizia amministrativa e, in particolare, la recente sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017, mostrano, infatti, come da un lato la giustizia amministrativa sia ancora restia a lasciar sfumare il proprio potere di sindacare le decisioni della giustizia sportiva e, dall’altro lato, come l’uso di tale potere è potenzialmente dannoso per l’intero comparto ordinamentale dello sport, giacché in grado – mediante la liquidazione di somme a titolo di risarcimento del danno – di mettere in difficoltà economiche la maggior parte delle Federazioni sportive, minandone l’esistenza stessa. E ancora, si vedrà come siffatto controllo giudiziale sembrerebbe sovraesporre gli organi di giustizia endofederali ad una responsabilità professionale irragionevole.

Evidente è, pertanto, come quella tra gli organi di giustizia sportiva e i giudici amministrativi sia allo stato lungi da potersi definire una felice convivenza.

È noto che la vexata quaestio della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna rinvenga il suo fondamento nell’art. 2, lett. b) della legge n. 280/2003, con cui si devolvono alla «giurisdizione» esclusiva degli organi di giustizia sportiva «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive» [27].

È chiaro, dunque, che il legislatore – operando una distinzione tra le fattispecie di norme regolamentari, organizzative e disciplinari, con le relative sanzioni al fine di assicurare il corretto svolgimento delle attività sportive – abbia preso le mosse dall’as­sunto per cui tali questioni non potessero incidere su posizioni rilevanti per l’ordina­mento giuridico statale.

Ed è altrettanto noto come siffatta impostazione abbia riscontrato nel corso del tempo non poche critiche, basti solamente pensare alla copiosa giurisprudenza amministrativa che, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 49/2011, rivendicò, a più riprese, uno spazio decisionale esclusivo sulle predette questioni, ammettendo che «le sanzioni disciplinari per loro natura assumono rilevanza anche al di fuori dell’or­dinamento sportivo, ove solo si considerino non soltanto i riflessi sul piano economico ma anche e soprattutto il giudizio di disvalore che da detta sanzione discende sulla personalità del soggetto in questioni su tutti i rapporti sociali» (ex multis, Tar Lazio, sez. III ter, ord. 22 agosto 2006, n. 4666).

La successiva decisione della Corte costituzionale, investita della questione, è ben nota.

Il bilanciamento dei contrapposti interessi – da una parte il valore dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, dall’altra parte il diritto di azione e difesa in giudizio – venne rinvenuto nel riconoscere che «quando il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere» [28].

Tale possibilità di risarcimento del danno a tutela di una lesione di una situazione sostanziale giuridicamente protetta, veniva assunta quale forma di tutela per equivalente diversa da quella generalmente attribuita al Giudice Amministrativo, e l’impos­sibilità di esperire ricorso per annullamento non violava certamente l’art. 24 della Costituzione giacché, secondo la Consulta, tale giudizio «difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affer­mato intendimento di tutelare l’ordinamento sportivo».

L’importante precisazione che il Giudice amministrativo poteva quindi «conoscere, nonostante la riserva a favore della Giustizia Sportiva, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale ed indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione», apriva alla possibilità di richiedergli, avverso le sanzioni di tipo disciplinare comminate dagli organi di giustizia sportiva, non già la caducazione dell’atto, ma una particolare forma di tutela risarcitoria per equivalente, sempre «a patto» che ci si trovi in situazioni per cui una posizione sostanziale assuma i connotati di diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo e che la domanda risarcitoria sia seguita all’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva.

Proprio il rispetto di tale «pregiudiziale sportiva», che costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, tale da far dichiarare il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo, come chiarito dal Tar Lazio con sent. 10 marzo 2017, n. 3370, si distingue in due ipotesi.

La prima si verifica a seguito dell’annullamento da parte dell’organo di giustizia esofederale della sanzione comminata dalla Federazione: qui il Giudice Amministrativo potrà conoscere soltanto dei danni in medio tempore prodotti nonostante l’annulla­mento, verificando non la legittimità ma l’an e il quantum del danno provocato, condan­nando eventualmente la sola Federazione (come accaduto nella sent. n. 1163/2017). La seconda si verifica se la sanzione viene confermata dagli organi di giustizia sportiva: in tal caso il Giudice Amministrativo dovrà andare preliminarmente, in via incidentale, a verificarne la legittimità, per scendere, in seconda battuta, a decidere compiutamente sulla domanda risarcitoria.

Venendo, dunque, alla sentenza del Tar Lazio, sez. I ter, 23 gennaio 2017, n. 1163 essa trae origine dall’impugnazione, da parte di un atleta elettore, dell’esito della Assemblea elettiva della Federazione Ginnastica d’Italia.

Il tesserato, infatti, adiva, dapprima, il Consiglio Direttivo Federale, che dichiarava il ricorso inammissibile, e poi l’allora Alta Corte di Giustizia che, invece, accoglieva il ricorso nella parte in cui aveva richiesto la ripetizione della sola votazione in cui avrebbe dovuto esprimere la sua posizione di grande elettore per l’elezione dei rappresentanti della categoria di atleti.

Il ricorrente proponeva allora ricorso al Tar Lazio al fine di ottenere l’annullamento di tale pronuncia nella sola parte in cui non aveva accolto la sua richiesta principale, ovvero l’annullamento in toto dell’Assemblea elettiva.

Parallelamente, a pochi giorni dal deposito del suddetto ricorso, la Procura federale gli notificava un avviso concernente l’avvio del procedimento disciplinare a causa del ricorso proposto al Tar, contestandogli l’assunzione di una condotta contraria alla lealtà sportiva nonché violativa della clausola compromissoria. Questi, condannato in primo grado dalla giustizia federale alla sospensione per 12 mesi, confermata anche in appello, iniziava a scontare la sanzione. Tale sospensione, veniva, tuttavia, integralmente e retroattivamente annullata dall’allora TNAS.

In esecuzione della summenzionata decisione dell’Alta Corte di Giustizia, la Federazione indiceva un’Assemblea straordinaria per la ripetizione delle operazioni di voto con esclusivo riferimento ai rappresentanti della categoria atleti. Ciononostante, le relative delibere venivano nuovamente impugnate dal Tesserato di fronte all’Alta Corte di Giustizia che provvedeva al rigetto del ricorso. Avverso tale decisione l’atleta elettore proponeva un secondo ricorso al Tar per chiederne l’annullamento. Veniva, dunque, avviato un secondo procedimento disciplinare, per l’asserita reiterata violazione dei principi di lealtà sportiva e della clausola compromissoria. Il secondo procedimento disciplinare sportivo si concludeva, dopo i gradi di giustizia endofederali (mesi 8 di sospensione), con la decisione del Collegio di Garanzia dello Sport, con cui si riduceva la sanzione a quattro mesi, escludendo la recidiva, in considerazione dell’interve­nuto annullamento della prima sanzione disciplinare.

È opportuno sottolineare come la sentenza del Tar oggetto di analisi, scaturisce dal ricorso presentato dalla Associazione sportiva cui appartiene il tesserato nei confronti del CONI e della Federazione, al fine di ottenere, in coerenza con la sopra analizzata sent. n. 49/2011 della Corte costituzionale, il risarcimento dei danni subiti dalla stessa a causa della sanzione disciplinare irrogata al proprio tesserato dalla Commissione di Giustizia di primo grado della FGI, poi confermata in secondo grado e, infine, annullata integralmente dal lodo del Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport presso il CONI.

In particolare, le poste risarcitorie presenti nel ricorso erano afferenti, a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subito.

Quanto al merito della decisione, il Tar ha esaminato la richiesta risarcitoria mediante l’analisi della disciplina generale della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente attribuzione della responsabilità secondo il criterio della colpa.

Il Collegio, anzitutto, non ha ritenuto applicabile, nel caso di specie, la disciplina speciale prevista per le magistrature dalla legge n. 117/1988 e la conseguente limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave nell’esercizio delle funzioni. A detta del Tar, infatti, le disposizioni della suddetta legge possono trovare applicazione esclusivamente agli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria (art. 1).

Tali disposizioni, che delineano un particolare regime di responsabilità per l’e­ser­cizio dell’attività giurisdizionale del «magistrato», sono state ritenute, dunque, non suscettibili di applicazione analogica ai giudici dell’ordinamento giuridico sportivo.

Il Collegio è così sceso nell’analisi del genus dei provvedimenti disciplinari federali. Questi costituiscono esplicazione di un’attività amministrativa (così come le decisioni rese dal Collegio di Garanzia), che si concretizza in una funzione giustiziale da cui scaturiscono provvedimenti amministrativi; ciò in ragione, essenzialmente, della natura di interesse legittimo della posizione giuridica azionata e della non compromettibilità in arbitri di tali posizioni giuridiche soggettive [29].

Afferma il TAR, a tal proposito, come la qualificazione della posizione azionata in termini di interesse legittimo sia costante nella giurisprudenza, rimarcando la natura mista delle Federazioni Sportive Nazionali. Tale assunto comporta che gli atti endo-giustiziali emanati dalle Federazioni siano esplicazione dei poteri pubblici derivanti dalla loro azione quali «organi» del CONI. Pertanto, la loro natura è quella di atti amministrativi, soggetti alla giurisdizione del Giudice Amministrativo allorché incidano su posizioni di interesse legittimo.

La natura di atti amministrativi delle decisioni degli organi di giustizia sportiva sarebbe, pertanto, rinvenibile nella circostanza per la quale questi si configurano come «l’epilogo di procedimenti amministrativi (seppure in forma giustiziale), e non già giurisdizionali, sì che non possono ritenersi presidiate dalle garanzie del processo». In particolare, alla giustizia sportiva si applicherebbero, oltre che le regole sue proprie, previste dalla normativa federale, per analogia, anche «quelle dell’istruttoria procedimentale, ove vengono acquisiti fatti semplici e complessi, che possono anche investire la sfera giuridica di soggetti terzi» (ex multis, Tar Lazio, Roma, n. 4391/2016, n. 5280/2007).

Per affermare la responsabilità aquiliana della Federazione, il Tar ha, dunque, affermato che, «nella normalità dei casi», la riscontrata illegittimità dell’atto rappresenta l’indice della colpa dell’Amministrazione – «indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l’illegittimità in cui l’apparato amministrativo sia incorso, spettando alla P.A. provare l’assenza di colpa, attraverso la dimostrazione, in ipotesi, della sussistenza di cause di giustificazione legalmente tipizzate». Il Giudice di prime cure ha, pertanto, affermato che «il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729, c.c., induce a ritenere che l’ille­gittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell’Amministrazione; e in virtù di tale configurazione, qualora si annulli un provvedimento illegittimo, grava su di essa l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile».

Il Collegio giudicante ha, dunque, ravvisato nell’agire della Amministrazione (nel caso di specie la sola Federazione atteso l’annullamento della sanzione da parte del TNAS) quella negligenza e imperizia tale da configurare la responsabilità degli organi di giustizia nell’emanazione della decisione; nonché ha ritenuto ricorrere i presupposti del danno ingiusto e del nesso di conseguenzialità, provvedendo a liquidare il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita del main sponsor; non accogliendo, tuttavia, le altre due domande afferenti ai danni patiti per la retrocessione alla serie inferiore e per il danno di immagine.

Concludendo, quindi, la fattispecie esaminata dal Tar, già esaminata e commentata da uno dei massimi conoscitori della materia [30], è certamente configurabile come un’ipotesi di risarcimento del danno per violazione di interesse legittimo.

Occorre però verificare se sussista qualche elemento ostativo alla configurazione della fattispecie ora indicata.

Anzitutto l’arresto in analisi sembrerebbe operare una – quantomeno dubbia – inversione dell’onere della prova in sfavore dell’amministrazione convenuta, in contrasto con i consolidati principi in materia di configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati nell’esercizio dell’attività amministrativa, circa la necessaria allegazione e la dimostrazione della sussistenza di tutti gli elementi prescritti dall’art. 2043 c.c.

È necessario, pertanto, interrogarsi sul significato di «colpa» e come viene configurata dal Giudice Amministrativo.

Dalla piana lettura della sentenza in commento emerge chiaramente che il provvedimento di giustizia sportiva viene considerato alla stregua di un provvedimento amministrativo. Il sol fatto di essere dichiarato illegittimo – risarcibile e non annullato – genererebbe automaticamente una responsabilità in capo agli organi di giustizia endo ed esofederali.

La configurazione della cosiddetta colpa in re ipsa in capo ai giudicanti dello sport può avere delle serie ripercussioni, rischiando di considerare l’attività degli organi di giustizia non solo neanche lontanamente come giurisdizionale, ma neppure ascrivibile ad un’attività giustiziale in senso ampio.

A ciò si aggiunga che un atto amministrativo propriamente detto è un atto scaturente da una fase procedimentale di per sé stessa ripetibile; diversamente, l’attività da cui sfocia un provvedimento disciplinare sportivo – dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale di formazione della prova – è un’attività sicuramente irripetibile.

Ma vi è di più. Il Tar, con la sentenza qui analizzata, nell’escludere la natura giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva [31], esclude tuttavia anche la possibilità di estendere analogicamente la disciplina dell’art. 2 legge n. 117/1988 (rubricato «Responsabilità per dolo o colpa grave»).

Tale normativa limita la responsabilità dei magistrati alle sole ipotesi di dolo e colpa grave, al fine di garantire il corretto esercizio della specifica funzione di dirimere controversie attraverso l’accertamento di fatti e l’interpretazione di norme [32].

Le deroghe alla responsabilità dei magistrati hanno, come noto, delle particolari ragioni.

Innanzitutto, nella necessità di tutelare l’autonomia e indipendenza dei soggetti che esercitano la funzione giurisdizionale, al fine di garantire l’imparzialità e l’equidistan­za nell’applicazione delle leggi e nell’incisione dei diritti [33].

In secondo luogo, l’applicazione del summenzionato regime speciale è giustificato dalla peculiarità della funzione di dirimere controversie tra due soggetti in conflitto, all’esito del quale uno risulterà soccombente [34].

Terzo, la limitazione della responsabilità per l’attività di valutazione dei fatti e delle prove e di interpretazione delle leggi, trova giustificazione nella complessità dell’at­tività di valutare fatti e interpretare norme.

L’errore rilevante, al fine di poter affermare la responsabilità dei magistrati è, pertanto, l’errore inescusabile.

Orbene, stante la natura non giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva, potrebbero comunque rinvenirsi per questi ultimi i medesimi caratteri e le medesime peculiarità che giustificano siffatto regime speciale della responsabilità, sebbene esercitino una funzione giustiziale. Infatti, si tratta di attività di soluzione di posizioni in conflitto che si estrinseca in un’attività umana di valutazione di fatti, raccolta di elementi e interpretazione e sussunzione della fattispecie concreta alla fattispecie astratta di norme, che impone una posizione di indipendenza e imparzialità rispetto alle diverse parti.

Tra l’altro, l’analogia di funzioni rispetto alla magistratura è resa ancor più rilevante dalla riserva effettuata dal richiamato art. 2 della legge n. 280/2003. In tale prospettiva, infatti, gli organi della giustizia sportiva, non riconducibili nell’alveo della «magistratura», svolgono funzioni quantomeno analoghe, in quanto unici soggetti cui l’ordinamento statale riconosce la funzione di dirimere le controversie.

Vieppiù. La non appartenenza dei componenti degli organi di giustizia alla magistratura potrebbe non essere argomento rilevante, atteso che il regime derogatorio si applica anche a «coloro che, pur non appartenendo ad una delle magistrature, esercitano tuttavia le stesse funzioni di chi ne faccia parte, come i giudici onorari ed i procuratori onorari gli esperti designati a comporre i collegi delle sezioni specializzate agrarie, del tribunale dei minori, delle commissioni tributarie, i giudici popolari delle corti d’assise» [35].

Concludendo, dunque, il regime speciale della responsabilità dei magistrati non si fonda su un semplice aspetto istituzionale, bensì sulle caratteristiche peculiari dell’atti­vità svolta da soggetti, posti in posizione di terzietà ed indipendenza, finalizzata a dirimere conflitti, a valutare fatti e interpretare norme.

Con i dovuti paragoni, l’attività umana svolta dalla «magistratura dello sport» è per molti aspetti simile all’opera svolta dal magistrato ordinario.

Pertanto, si potrebbe propendere per una soluzione che veda la possibilità di configurarsi legittimamente un risarcimento, solo quando, una volta accertato preliminarmente incidenter tantum l’illegittimità del provvedimento disciplinare, vi sia la prova della colpa grave ovvero del dolo, non essendo sufficiente la mera colpa per configurare responsabilità civile, abbandonando così la «strada» della colpa in re ipsa.

Vi è un ulteriore elemento da sottolineare sempre con riferimento alla sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017.

Come precedentemente analizzato, la legge n. 280/2003, all’art. 2, pone le c.d. questioni tecniche e disciplinari nell’alveo esclusivo della giustizia sportiva. Per le questioni disciplinari, come visto, una lettura costituzionalmente orientata della norma ha portato a considerarle giuridicamente rilevanti per l’ordinamento statale, allorché incidano su posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo. In quest’ultimo caso, dunque, è accordata una tutela esclusivamente risarcitoria per i danni subiti dalle sanzioni disciplinari illegittimamente irrogate, domandabile dinanzi al Giudice Amministrativo (sent. 49/2011 della Corte cost.), una volta «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (ciò in coerenza con l’art. 3 della citata legge).

Nel caso di specie, ad agire per il risarcimento – per i danni patiti a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subìto – era stata la società di appartenenza, e non già il tesserato. Quest’ultimo, quale vero soggetto colpito dalla sanzione disciplinare dichiarata illegittima, potrebbe essere inteso quale unico portatore di un interesse legittimo, rilevante per l’ordinamento statale, al risarcimento del danno per equivalente, in coerenza con quanto statuito dalla Consulta.

Il Tar Lazio, nella fattispecie, ha deciso su un’azione risarcitoria intrapresa dalla società sportiva cui era legato il tesserato effettivamente sanzionato, unico effettivo titolare dell’azione risarcitoria. Di conseguenza, potrebbe paventarsi un difetto di legittimazione attiva della società, non essendo, al riguardo, sufficiente postulare un nesso causale tra vicende incombenti su fattispecie e soggetti diversi.

Ciò posto, dunque, potrebbe ammettersi che il Tar abbia errato non solo nel non affermare la carenza di legittimazione attiva della associazione sportiva in luogo dell’atleta, ma anche nel ritenere che i danni da risarcire fossero quelli patiti dalla società e non quelli subiti dal tesserato, come postula, invece, il combinato disposto della legge n. 280/2003 con la sent. n. 49/2011 della Consulta [36].

Come si è anticipato, per ora, è rilevabile un solo precedente in ordine alla fattispecie ipotizzata; non resta che attendere per verificare se gli ulteriori sviluppi saranno idonei a superare le perplessità manifestate.


5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva

Altro problema, certamente collegato a vicende inerenti alla Giustizia Sportiva, ma originato dalla prosecuzione del contenzioso dinanzi al Giudice Amministrativo, ha per oggetto la possibilità di un risarcimento del danno a vantaggio di chi abbia subito una sanzione da parte del giudice endoassociativo, successivamente dichiarata illegittima.

L’arresto in questione, sent. n. 1163/2017 del Tar Lazio, ha inteso rispondere alla seguente, ben nota, sollecitazione: se la sanzione adottata illegittimamente dai giudici sportivi può essere idonea ad originare una causa di risarcimento danno, subito dal­l’operatore, nei confronti dei giudici sportivi.

Il quesito in realtà non sembra mal posto, ed invero i) può configurarsi, nell’agire della Giustizia Sportiva, un’attività provvedimentale che si sostanzia in una irrogazione di una sanzione amministrativa; ii) la legge n. 280/2003 impone di rivolgersi al Giudice Amministrativo nella ipotesi di conclusione del procedimento contenzioso dinanzi ai giudici sportivi (art. 119 c.p.a.); iii) si può certamente ipotizzare che la sanzione abbia prodotto un pregiudizio in chi l’abbia subita.

Occorre, dunque, focalizzarsi sulla incidenza del nuovo «Sistema di Giustizia Sportiva» nella annosa questione della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna.

Stante la sistematicità e la solidità, auspicata dal legislatore sportivo del 2013, dell’odierno sistema di giustizia sportiva, deve, tuttavia, registrarsi un elemento di criticità: la pericolosa e preoccupante ingerenza esterna del Giudice Amministrativo sul­l’operato del sistema giustiziale dello sport.

Infatti, se è vero che una delle finalità della legge n. 280/2003 è stata quella di rendere la giustizia sportiva quanto più credibile agli occhi della giustizia statale, nella evidente speranza che l’attenzione del Tar e del Consiglio di Stato potesse gradualmente affievolirsi, dopo quattro anni di vigenza del Codice della Giustizia Sportiva e dell’istaurazione del Collegio di Garanzia si assiste, invece, a orientamenti giurisprudenziali perplessi.

Le più recenti pronunce della giustizia amministrativa e, in particolare, la recente sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017, mostrano, infatti, come da un lato la giustizia amministrativa sia ancora restia a lasciar sfumare il proprio potere di sindacare le decisioni della giustizia sportiva e, dall’altro lato, come l’uso di tale potere è potenzialmente dannoso per l’intero comparto ordinamentale dello sport, giacché in grado – mediante la liquidazione di somme a titolo di risarcimento del danno – di mettere in difficoltà economiche la maggior parte delle Federazioni sportive, minandone l’esistenza stessa. E ancora, si vedrà come siffatto controllo giudiziale sembrerebbe sovraesporre gli organi di giustizia endofederali ad una responsabilità professionale irragionevole.

Evidente è, pertanto, come quella tra gli organi di giustizia sportiva e i giudici amministrativi sia allo stato lungi da potersi definire una felice convivenza.

È noto che la vexata quaestio della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna rinvenga il suo fondamento nell’art. 2, lett. b) della legge n. 280/2003, con cui si devolvono alla «giurisdizione» esclusiva degli organi di giustizia sportiva «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive» [27].

È chiaro, dunque, che il legislatore – operando una distinzione tra le fattispecie di norme regolamentari, organizzative e disciplinari, con le relative sanzioni al fine di assicurare il corretto svolgimento delle attività sportive – abbia preso le mosse dall’as­sunto per cui tali questioni non potessero incidere su posizioni rilevanti per l’ordina­mento giuridico statale.

Ed è altrettanto noto come siffatta impostazione abbia riscontrato nel corso del tempo non poche critiche, basti solamente pensare alla copiosa giurisprudenza amministrativa che, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 49/2011, rivendicò, a più riprese, uno spazio decisionale esclusivo sulle predette questioni, ammettendo che «le sanzioni disciplinari per loro natura assumono rilevanza anche al di fuori dell’or­dinamento sportivo, ove solo si considerino non soltanto i riflessi sul piano economico ma anche e soprattutto il giudizio di disvalore che da detta sanzione discende sulla personalità del soggetto in questioni su tutti i rapporti sociali» (ex multis, Tar Lazio, sez. III ter, ord. 22 agosto 2006, n. 4666).

La successiva decisione della Corte costituzionale, investita della questione, è ben nota.

Il bilanciamento dei contrapposti interessi – da una parte il valore dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, dall’altra parte il diritto di azione e difesa in giudizio – venne rinvenuto nel riconoscere che «quando il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere» [28].

Tale possibilità di risarcimento del danno a tutela di una lesione di una situazione sostanziale giuridicamente protetta, veniva assunta quale forma di tutela per equivalente diversa da quella generalmente attribuita al Giudice Amministrativo, e l’impos­sibilità di esperire ricorso per annullamento non violava certamente l’art. 24 della Costituzione giacché, secondo la Consulta, tale giudizio «difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affer­mato intendimento di tutelare l’ordinamento sportivo».

L’importante precisazione che il Giudice amministrativo poteva quindi «conoscere, nonostante la riserva a favore della Giustizia Sportiva, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale ed indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione», apriva alla possibilità di richiedergli, avverso le sanzioni di tipo disciplinare comminate dagli organi di giustizia sportiva, non già la caducazione dell’atto, ma una particolare forma di tutela risarcitoria per equivalente, sempre «a patto» che ci si trovi in situazioni per cui una posizione sostanziale assuma i connotati di diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo e che la domanda risarcitoria sia seguita all’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva.

Proprio il rispetto di tale «pregiudiziale sportiva», che costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, tale da far dichiarare il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo, come chiarito dal Tar Lazio con sent. 10 marzo 2017, n. 3370, si distingue in due ipotesi.

La prima si verifica a seguito dell’annullamento da parte dell’organo di giustizia esofederale della sanzione comminata dalla Federazione: qui il Giudice Amministrativo potrà conoscere soltanto dei danni in medio tempore prodotti nonostante l’annulla­mento, verificando non la legittimità ma l’an e il quantum del danno provocato, condan­nando eventualmente la sola Federazione (come accaduto nella sent. n. 1163/2017). La seconda si verifica se la sanzione viene confermata dagli organi di giustizia sportiva: in tal caso il Giudice Amministrativo dovrà andare preliminarmente, in via incidentale, a verificarne la legittimità, per scendere, in seconda battuta, a decidere compiutamente sulla domanda risarcitoria.

Venendo, dunque, alla sentenza del Tar Lazio, sez. I ter, 23 gennaio 2017, n. 1163 essa trae origine dall’impugnazione, da parte di un atleta elettore, dell’esito della Assemblea elettiva della Federazione Ginnastica d’Italia.

Il tesserato, infatti, adiva, dapprima, il Consiglio Direttivo Federale, che dichiarava il ricorso inammissibile, e poi l’allora Alta Corte di Giustizia che, invece, accoglieva il ricorso nella parte in cui aveva richiesto la ripetizione della sola votazione in cui avrebbe dovuto esprimere la sua posizione di grande elettore per l’elezione dei rappresentanti della categoria di atleti.

Il ricorrente proponeva allora ricorso al Tar Lazio al fine di ottenere l’annullamento di tale pronuncia nella sola parte in cui non aveva accolto la sua richiesta principale, ovvero l’annullamento in toto dell’Assemblea elettiva.

Parallelamente, a pochi giorni dal deposito del suddetto ricorso, la Procura federale gli notificava un avviso concernente l’avvio del procedimento disciplinare a causa del ricorso proposto al Tar, contestandogli l’assunzione di una condotta contraria alla lealtà sportiva nonché violativa della clausola compromissoria. Questi, condannato in primo grado dalla giustizia federale alla sospensione per 12 mesi, confermata anche in appello, iniziava a scontare la sanzione. Tale sospensione, veniva, tuttavia, integralmente e retroattivamente annullata dall’allora TNAS.

In esecuzione della summenzionata decisione dell’Alta Corte di Giustizia, la Federazione indiceva un’Assemblea straordinaria per la ripetizione delle operazioni di voto con esclusivo riferimento ai rappresentanti della categoria atleti. Ciononostante, le relative delibere venivano nuovamente impugnate dal Tesserato di fronte all’Alta Corte di Giustizia che provvedeva al rigetto del ricorso. Avverso tale decisione l’atleta elettore proponeva un secondo ricorso al Tar per chiederne l’annullamento. Veniva, dunque, avviato un secondo procedimento disciplinare, per l’asserita reiterata violazione dei principi di lealtà sportiva e della clausola compromissoria. Il secondo procedimento disciplinare sportivo si concludeva, dopo i gradi di giustizia endofederali (mesi 8 di sospensione), con la decisione del Collegio di Garanzia dello Sport, con cui si riduceva la sanzione a quattro mesi, escludendo la recidiva, in considerazione dell’interve­nuto annullamento della prima sanzione disciplinare.

È opportuno sottolineare come la sentenza del Tar oggetto di analisi, scaturisce dal ricorso presentato dalla Associazione sportiva cui appartiene il tesserato nei confronti del CONI e della Federazione, al fine di ottenere, in coerenza con la sopra analizzata sent. n. 49/2011 della Corte costituzionale, il risarcimento dei danni subiti dalla stessa a causa della sanzione disciplinare irrogata al proprio tesserato dalla Commissione di Giustizia di primo grado della FGI, poi confermata in secondo grado e, infine, annullata integralmente dal lodo del Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport presso il CONI.

In particolare, le poste risarcitorie presenti nel ricorso erano afferenti, a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subito.

Quanto al merito della decisione, il Tar ha esaminato la richiesta risarcitoria mediante l’analisi della disciplina generale della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente attribuzione della responsabilità secondo il criterio della colpa.

Il Collegio, anzitutto, non ha ritenuto applicabile, nel caso di specie, la disciplina speciale prevista per le magistrature dalla legge n. 117/1988 e la conseguente limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave nell’esercizio delle funzioni. A detta del Tar, infatti, le disposizioni della suddetta legge possono trovare applicazione esclusivamente agli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria (art. 1).

Tali disposizioni, che delineano un particolare regime di responsabilità per l’e­ser­cizio dell’attività giurisdizionale del «magistrato», sono state ritenute, dunque, non suscettibili di applicazione analogica ai giudici dell’ordinamento giuridico sportivo.

Il Collegio è così sceso nell’analisi del genus dei provvedimenti disciplinari federali. Questi costituiscono esplicazione di un’attività amministrativa (così come le decisioni rese dal Collegio di Garanzia), che si concretizza in una funzione giustiziale da cui scaturiscono provvedimenti amministrativi; ciò in ragione, essenzialmente, della natura di interesse legittimo della posizione giuridica azionata e della non compromettibilità in arbitri di tali posizioni giuridiche soggettive [29].

Afferma il TAR, a tal proposito, come la qualificazione della posizione azionata in termini di interesse legittimo sia costante nella giurisprudenza, rimarcando la natura mista delle Federazioni Sportive Nazionali. Tale assunto comporta che gli atti endo-giustiziali emanati dalle Federazioni siano esplicazione dei poteri pubblici derivanti dalla loro azione quali «organi» del CONI. Pertanto, la loro natura è quella di atti amministrativi, soggetti alla giurisdizione del Giudice Amministrativo allorché incidano su posizioni di interesse legittimo.

La natura di atti amministrativi delle decisioni degli organi di giustizia sportiva sarebbe, pertanto, rinvenibile nella circostanza per la quale questi si configurano come «l’epilogo di procedimenti amministrativi (seppure in forma giustiziale), e non già giurisdizionali, sì che non possono ritenersi presidiate dalle garanzie del processo». In particolare, alla giustizia sportiva si applicherebbero, oltre che le regole sue proprie, previste dalla normativa federale, per analogia, anche «quelle dell’istruttoria procedimentale, ove vengono acquisiti fatti semplici e complessi, che possono anche investire la sfera giuridica di soggetti terzi» (ex multis, Tar Lazio, Roma, n. 4391/2016, n. 5280/2007).

Per affermare la responsabilità aquiliana della Federazione, il Tar ha, dunque, affermato che, «nella normalità dei casi», la riscontrata illegittimità dell’atto rappresenta l’indice della colpa dell’Amministrazione – «indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l’illegittimità in cui l’apparato amministrativo sia incorso, spettando alla P.A. provare l’assenza di colpa, attraverso la dimostrazione, in ipotesi, della sussistenza di cause di giustificazione legalmente tipizzate». Il Giudice di prime cure ha, pertanto, affermato che «il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729, c.c., induce a ritenere che l’ille­gittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell’Amministrazione; e in virtù di tale configurazione, qualora si annulli un provvedimento illegittimo, grava su di essa l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile».

Il Collegio giudicante ha, dunque, ravvisato nell’agire della Amministrazione (nel caso di specie la sola Federazione atteso l’annullamento della sanzione da parte del TNAS) quella negligenza e imperizia tale da configurare la responsabilità degli organi di giustizia nell’emanazione della decisione; nonché ha ritenuto ricorrere i presupposti del danno ingiusto e del nesso di conseguenzialità, provvedendo a liquidare il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita del main sponsor; non accogliendo, tuttavia, le altre due domande afferenti ai danni patiti per la retrocessione alla serie inferiore e per il danno di immagine.

Concludendo, quindi, la fattispecie esaminata dal Tar, già esaminata e commentata da uno dei massimi conoscitori della materia [30], è certamente configurabile come un’ipotesi di risarcimento del danno per violazione di interesse legittimo.

Occorre però verificare se sussista qualche elemento ostativo alla configurazione della fattispecie ora indicata.

Anzitutto l’arresto in analisi sembrerebbe operare una – quantomeno dubbia – inversione dell’onere della prova in sfavore dell’amministrazione convenuta, in contrasto con i consolidati principi in materia di configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati nell’esercizio dell’attività amministrativa, circa la necessaria allegazione e la dimostrazione della sussistenza di tutti gli elementi prescritti dall’art. 2043 c.c.

È necessario, pertanto, interrogarsi sul significato di «colpa» e come viene configurata dal Giudice Amministrativo.

Dalla piana lettura della sentenza in commento emerge chiaramente che il provvedimento di giustizia sportiva viene considerato alla stregua di un provvedimento amministrativo. Il sol fatto di essere dichiarato illegittimo – risarcibile e non annullato – genererebbe automaticamente una responsabilità in capo agli organi di giustizia endo ed esofederali.

La configurazione della cosiddetta colpa in re ipsa in capo ai giudicanti dello sport può avere delle serie ripercussioni, rischiando di considerare l’attività degli organi di giustizia non solo neanche lontanamente come giurisdizionale, ma neppure ascrivibile ad un’attività giustiziale in senso ampio.

A ciò si aggiunga che un atto amministrativo propriamente detto è un atto scaturente da una fase procedimentale di per sé stessa ripetibile; diversamente, l’attività da cui sfocia un provvedimento disciplinare sportivo – dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale di formazione della prova – è un’attività sicuramente irripetibile.

Ma vi è di più. Il Tar, con la sentenza qui analizzata, nell’escludere la natura giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva [31], esclude tuttavia anche la possibilità di estendere analogicamente la disciplina dell’art. 2 legge n. 117/1988 (rubricato «Responsabilità per dolo o colpa grave»).

Tale normativa limita la responsabilità dei magistrati alle sole ipotesi di dolo e colpa grave, al fine di garantire il corretto esercizio della specifica funzione di dirimere controversie attraverso l’accertamento di fatti e l’interpretazione di norme [32].

Le deroghe alla responsabilità dei magistrati hanno, come noto, delle particolari ragioni.

Innanzitutto, nella necessità di tutelare l’autonomia e indipendenza dei soggetti che esercitano la funzione giurisdizionale, al fine di garantire l’imparzialità e l’equidistan­za nell’applicazione delle leggi e nell’incisione dei diritti [33].

In secondo luogo, l’applicazione del summenzionato regime speciale è giustificato dalla peculiarità della funzione di dirimere controversie tra due soggetti in conflitto, all’esito del quale uno risulterà soccombente [34].

Terzo, la limitazione della responsabilità per l’attività di valutazione dei fatti e delle prove e di interpretazione delle leggi, trova giustificazione nella complessità dell’at­tività di valutare fatti e interpretare norme.

L’errore rilevante, al fine di poter affermare la responsabilità dei magistrati è, pertanto, l’errore inescusabile.

Orbene, stante la natura non giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva, potrebbero comunque rinvenirsi per questi ultimi i medesimi caratteri e le medesime peculiarità che giustificano siffatto regime speciale della responsabilità, sebbene esercitino una funzione giustiziale. Infatti, si tratta di attività di soluzione di posizioni in conflitto che si estrinseca in un’attività umana di valutazione di fatti, raccolta di elementi e interpretazione e sussunzione della fattispecie concreta alla fattispecie astratta di norme, che impone una posizione di indipendenza e imparzialità rispetto alle diverse parti.

Tra l’altro, l’analogia di funzioni rispetto alla magistratura è resa ancor più rilevante dalla riserva effettuata dal richiamato art. 2 della legge n. 280/2003. In tale prospettiva, infatti, gli organi della giustizia sportiva, non riconducibili nell’alveo della «magistratura», svolgono funzioni quantomeno analoghe, in quanto unici soggetti cui l’ordinamento statale riconosce la funzione di dirimere le controversie.

Vieppiù. La non appartenenza dei componenti degli organi di giustizia alla magistratura potrebbe non essere argomento rilevante, atteso che il regime derogatorio si applica anche a «coloro che, pur non appartenendo ad una delle magistrature, esercitano tuttavia le stesse funzioni di chi ne faccia parte, come i giudici onorari ed i procuratori onorari gli esperti designati a comporre i collegi delle sezioni specializzate agrarie, del tribunale dei minori, delle commissioni tributarie, i giudici popolari delle corti d’assise» [35].

Concludendo, dunque, il regime speciale della responsabilità dei magistrati non si fonda su un semplice aspetto istituzionale, bensì sulle caratteristiche peculiari dell’atti­vità svolta da soggetti, posti in posizione di terzietà ed indipendenza, finalizzata a dirimere conflitti, a valutare fatti e interpretare norme.

Con i dovuti paragoni, l’attività umana svolta dalla «magistratura dello sport» è per molti aspetti simile all’opera svolta dal magistrato ordinario.

Pertanto, si potrebbe propendere per una soluzione che veda la possibilità di configurarsi legittimamente un risarcimento, solo quando, una volta accertato preliminarmente incidenter tantum l’illegittimità del provvedimento disciplinare, vi sia la prova della colpa grave ovvero del dolo, non essendo sufficiente la mera colpa per configurare responsabilità civile, abbandonando così la «strada» della colpa in re ipsa.

Vi è un ulteriore elemento da sottolineare sempre con riferimento alla sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017.

Come precedentemente analizzato, la legge n. 280/2003, all’art. 2, pone le c.d. questioni tecniche e disciplinari nell’alveo esclusivo della giustizia sportiva. Per le questioni disciplinari, come visto, una lettura costituzionalmente orientata della norma ha portato a considerarle giuridicamente rilevanti per l’ordinamento statale, allorché incidano su posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo. In quest’ultimo caso, dunque, è accordata una tutela esclusivamente risarcitoria per i danni subiti dalle sanzioni disciplinari illegittimamente irrogate, domandabile dinanzi al Giudice Amministrativo (sent. 49/2011 della Corte cost.), una volta «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (ciò in coerenza con l’art. 3 della citata legge).

Nel caso di specie, ad agire per il risarcimento – per i danni patiti a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subìto – era stata la società di appartenenza, e non già il tesserato. Quest’ultimo, quale vero soggetto colpito dalla sanzione disciplinare dichiarata illegittima, potrebbe essere inteso quale unico portatore di un interesse legittimo, rilevante per l’ordinamento statale, al risarcimento del danno per equivalente, in coerenza con quanto statuito dalla Consulta.

Il Tar Lazio, nella fattispecie, ha deciso su un’azione risarcitoria intrapresa dalla società sportiva cui era legato il tesserato effettivamente sanzionato, unico effettivo titolare dell’azione risarcitoria. Di conseguenza, potrebbe paventarsi un difetto di legittimazione attiva della società, non essendo, al riguardo, sufficiente postulare un nesso causale tra vicende incombenti su fattispecie e soggetti diversi.

Ciò posto, dunque, potrebbe ammettersi che il Tar abbia errato non solo nel non affermare la carenza di legittimazione attiva della associazione sportiva in luogo dell’atleta, ma anche nel ritenere che i danni da risarcire fossero quelli patiti dalla società e non quelli subiti dal tesserato, come postula, invece, il combinato disposto della legge n. 280/2003 con la sent. n. 49/2011 della Consulta [36].

Come si è anticipato, per ora, è rilevabile un solo precedente in ordine alla fattispecie ipotizzata; non resta che attendere per verificare se gli ulteriori sviluppi saranno idonei a superare le perplessità manifestate.


5.2. Il risarcimento del danno da illegittima sanzione disciplinare sportiva

Altro problema, certamente collegato a vicende inerenti alla Giustizia Sportiva, ma originato dalla prosecuzione del contenzioso dinanzi al Giudice Amministrativo, ha per oggetto la possibilità di un risarcimento del danno a vantaggio di chi abbia subito una sanzione da parte del giudice endoassociativo, successivamente dichiarata illegittima.

L’arresto in questione, sent. n. 1163/2017 del Tar Lazio, ha inteso rispondere alla seguente, ben nota, sollecitazione: se la sanzione adottata illegittimamente dai giudici sportivi può essere idonea ad originare una causa di risarcimento danno, subito dal­l’operatore, nei confronti dei giudici sportivi.

Il quesito in realtà non sembra mal posto, ed invero i) può configurarsi, nell’agire della Giustizia Sportiva, un’attività provvedimentale che si sostanzia in una irrogazione di una sanzione amministrativa; ii) la legge n. 280/2003 impone di rivolgersi al Giudice Amministrativo nella ipotesi di conclusione del procedimento contenzioso dinanzi ai giudici sportivi (art. 119 c.p.a.); iii) si può certamente ipotizzare che la sanzione abbia prodotto un pregiudizio in chi l’abbia subita.

Occorre, dunque, focalizzarsi sulla incidenza del nuovo «Sistema di Giustizia Sportiva» nella annosa questione della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna.

Stante la sistematicità e la solidità, auspicata dal legislatore sportivo del 2013, dell’odierno sistema di giustizia sportiva, deve, tuttavia, registrarsi un elemento di criticità: la pericolosa e preoccupante ingerenza esterna del Giudice Amministrativo sul­l’operato del sistema giustiziale dello sport.

Infatti, se è vero che una delle finalità della legge n. 280/2003 è stata quella di rendere la giustizia sportiva quanto più credibile agli occhi della giustizia statale, nella evidente speranza che l’attenzione del Tar e del Consiglio di Stato potesse gradualmente affievolirsi, dopo quattro anni di vigenza del Codice della Giustizia Sportiva e dell’istaurazione del Collegio di Garanzia si assiste, invece, a orientamenti giurisprudenziali perplessi.

Le più recenti pronunce della giustizia amministrativa e, in particolare, la recente sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017, mostrano, infatti, come da un lato la giustizia amministrativa sia ancora restia a lasciar sfumare il proprio potere di sindacare le decisioni della giustizia sportiva e, dall’altro lato, come l’uso di tale potere è potenzialmente dannoso per l’intero comparto ordinamentale dello sport, giacché in grado – mediante la liquidazione di somme a titolo di risarcimento del danno – di mettere in difficoltà economiche la maggior parte delle Federazioni sportive, minandone l’esistenza stessa. E ancora, si vedrà come siffatto controllo giudiziale sembrerebbe sovraesporre gli organi di giustizia endofederali ad una responsabilità professionale irragionevole.

Evidente è, pertanto, come quella tra gli organi di giustizia sportiva e i giudici amministrativi sia allo stato lungi da potersi definire una felice convivenza.

È noto che la vexata quaestio della tutela risarcitoria domandabile al Giudice Amministrativo per le c.d. sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia interna rinvenga il suo fondamento nell’art. 2, lett. b) della legge n. 280/2003, con cui si devolvono alla «giurisdizione» esclusiva degli organi di giustizia sportiva «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive» [27].

È chiaro, dunque, che il legislatore – operando una distinzione tra le fattispecie di norme regolamentari, organizzative e disciplinari, con le relative sanzioni al fine di assicurare il corretto svolgimento delle attività sportive – abbia preso le mosse dall’as­sunto per cui tali questioni non potessero incidere su posizioni rilevanti per l’ordina­mento giuridico statale.

Ed è altrettanto noto come siffatta impostazione abbia riscontrato nel corso del tempo non poche critiche, basti solamente pensare alla copiosa giurisprudenza amministrativa che, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 49/2011, rivendicò, a più riprese, uno spazio decisionale esclusivo sulle predette questioni, ammettendo che «le sanzioni disciplinari per loro natura assumono rilevanza anche al di fuori dell’or­dinamento sportivo, ove solo si considerino non soltanto i riflessi sul piano economico ma anche e soprattutto il giudizio di disvalore che da detta sanzione discende sulla personalità del soggetto in questioni su tutti i rapporti sociali» (ex multis, Tar Lazio, sez. III ter, ord. 22 agosto 2006, n. 4666).

La successiva decisione della Corte costituzionale, investita della questione, è ben nota.

Il bilanciamento dei contrapposti interessi – da una parte il valore dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, dall’altra parte il diritto di azione e difesa in giudizio – venne rinvenuto nel riconoscere che «quando il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere» [28].

Tale possibilità di risarcimento del danno a tutela di una lesione di una situazione sostanziale giuridicamente protetta, veniva assunta quale forma di tutela per equivalente diversa da quella generalmente attribuita al Giudice Amministrativo, e l’impos­sibilità di esperire ricorso per annullamento non violava certamente l’art. 24 della Costituzione giacché, secondo la Consulta, tale giudizio «difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affer­mato intendimento di tutelare l’ordinamento sportivo».

L’importante precisazione che il Giudice amministrativo poteva quindi «conoscere, nonostante la riserva a favore della Giustizia Sportiva, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale ed indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione», apriva alla possibilità di richiedergli, avverso le sanzioni di tipo disciplinare comminate dagli organi di giustizia sportiva, non già la caducazione dell’atto, ma una particolare forma di tutela risarcitoria per equivalente, sempre «a patto» che ci si trovi in situazioni per cui una posizione sostanziale assuma i connotati di diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo e che la domanda risarcitoria sia seguita all’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva.

Proprio il rispetto di tale «pregiudiziale sportiva», che costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, tale da far dichiarare il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo, come chiarito dal Tar Lazio con sent. 10 marzo 2017, n. 3370, si distingue in due ipotesi.

La prima si verifica a seguito dell’annullamento da parte dell’organo di giustizia esofederale della sanzione comminata dalla Federazione: qui il Giudice Amministrativo potrà conoscere soltanto dei danni in medio tempore prodotti nonostante l’annulla­mento, verificando non la legittimità ma l’an e il quantum del danno provocato, condan­nando eventualmente la sola Federazione (come accaduto nella sent. n. 1163/2017). La seconda si verifica se la sanzione viene confermata dagli organi di giustizia sportiva: in tal caso il Giudice Amministrativo dovrà andare preliminarmente, in via incidentale, a verificarne la legittimità, per scendere, in seconda battuta, a decidere compiutamente sulla domanda risarcitoria.

Venendo, dunque, alla sentenza del Tar Lazio, sez. I ter, 23 gennaio 2017, n. 1163 essa trae origine dall’impugnazione, da parte di un atleta elettore, dell’esito della Assemblea elettiva della Federazione Ginnastica d’Italia.

Il tesserato, infatti, adiva, dapprima, il Consiglio Direttivo Federale, che dichiarava il ricorso inammissibile, e poi l’allora Alta Corte di Giustizia che, invece, accoglieva il ricorso nella parte in cui aveva richiesto la ripetizione della sola votazione in cui avrebbe dovuto esprimere la sua posizione di grande elettore per l’elezione dei rappresentanti della categoria di atleti.

Il ricorrente proponeva allora ricorso al Tar Lazio al fine di ottenere l’annullamento di tale pronuncia nella sola parte in cui non aveva accolto la sua richiesta principale, ovvero l’annullamento in toto dell’Assemblea elettiva.

Parallelamente, a pochi giorni dal deposito del suddetto ricorso, la Procura federale gli notificava un avviso concernente l’avvio del procedimento disciplinare a causa del ricorso proposto al Tar, contestandogli l’assunzione di una condotta contraria alla lealtà sportiva nonché violativa della clausola compromissoria. Questi, condannato in primo grado dalla giustizia federale alla sospensione per 12 mesi, confermata anche in appello, iniziava a scontare la sanzione. Tale sospensione, veniva, tuttavia, integralmente e retroattivamente annullata dall’allora TNAS.

In esecuzione della summenzionata decisione dell’Alta Corte di Giustizia, la Federazione indiceva un’Assemblea straordinaria per la ripetizione delle operazioni di voto con esclusivo riferimento ai rappresentanti della categoria atleti. Ciononostante, le relative delibere venivano nuovamente impugnate dal Tesserato di fronte all’Alta Corte di Giustizia che provvedeva al rigetto del ricorso. Avverso tale decisione l’atleta elettore proponeva un secondo ricorso al Tar per chiederne l’annullamento. Veniva, dunque, avviato un secondo procedimento disciplinare, per l’asserita reiterata violazione dei principi di lealtà sportiva e della clausola compromissoria. Il secondo procedimento disciplinare sportivo si concludeva, dopo i gradi di giustizia endofederali (mesi 8 di sospensione), con la decisione del Collegio di Garanzia dello Sport, con cui si riduceva la sanzione a quattro mesi, escludendo la recidiva, in considerazione dell’interve­nuto annullamento della prima sanzione disciplinare.

È opportuno sottolineare come la sentenza del Tar oggetto di analisi, scaturisce dal ricorso presentato dalla Associazione sportiva cui appartiene il tesserato nei confronti del CONI e della Federazione, al fine di ottenere, in coerenza con la sopra analizzata sent. n. 49/2011 della Corte costituzionale, il risarcimento dei danni subiti dalla stessa a causa della sanzione disciplinare irrogata al proprio tesserato dalla Commissione di Giustizia di primo grado della FGI, poi confermata in secondo grado e, infine, annullata integralmente dal lodo del Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport presso il CONI.

In particolare, le poste risarcitorie presenti nel ricorso erano afferenti, a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subito.

Quanto al merito della decisione, il Tar ha esaminato la richiesta risarcitoria mediante l’analisi della disciplina generale della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente attribuzione della responsabilità secondo il criterio della colpa.

Il Collegio, anzitutto, non ha ritenuto applicabile, nel caso di specie, la disciplina speciale prevista per le magistrature dalla legge n. 117/1988 e la conseguente limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave nell’esercizio delle funzioni. A detta del Tar, infatti, le disposizioni della suddetta legge possono trovare applicazione esclusivamente agli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria (art. 1).

Tali disposizioni, che delineano un particolare regime di responsabilità per l’e­ser­cizio dell’attività giurisdizionale del «magistrato», sono state ritenute, dunque, non suscettibili di applicazione analogica ai giudici dell’ordinamento giuridico sportivo.

Il Collegio è così sceso nell’analisi del genus dei provvedimenti disciplinari federali. Questi costituiscono esplicazione di un’attività amministrativa (così come le decisioni rese dal Collegio di Garanzia), che si concretizza in una funzione giustiziale da cui scaturiscono provvedimenti amministrativi; ciò in ragione, essenzialmente, della natura di interesse legittimo della posizione giuridica azionata e della non compromettibilità in arbitri di tali posizioni giuridiche soggettive [29].

Afferma il TAR, a tal proposito, come la qualificazione della posizione azionata in termini di interesse legittimo sia costante nella giurisprudenza, rimarcando la natura mista delle Federazioni Sportive Nazionali. Tale assunto comporta che gli atti endo-giustiziali emanati dalle Federazioni siano esplicazione dei poteri pubblici derivanti dalla loro azione quali «organi» del CONI. Pertanto, la loro natura è quella di atti amministrativi, soggetti alla giurisdizione del Giudice Amministrativo allorché incidano su posizioni di interesse legittimo.

La natura di atti amministrativi delle decisioni degli organi di giustizia sportiva sarebbe, pertanto, rinvenibile nella circostanza per la quale questi si configurano come «l’epilogo di procedimenti amministrativi (seppure in forma giustiziale), e non già giurisdizionali, sì che non possono ritenersi presidiate dalle garanzie del processo». In particolare, alla giustizia sportiva si applicherebbero, oltre che le regole sue proprie, previste dalla normativa federale, per analogia, anche «quelle dell’istruttoria procedimentale, ove vengono acquisiti fatti semplici e complessi, che possono anche investire la sfera giuridica di soggetti terzi» (ex multis, Tar Lazio, Roma, n. 4391/2016, n. 5280/2007).

Per affermare la responsabilità aquiliana della Federazione, il Tar ha, dunque, affermato che, «nella normalità dei casi», la riscontrata illegittimità dell’atto rappresenta l’indice della colpa dell’Amministrazione – «indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l’illegittimità in cui l’apparato amministrativo sia incorso, spettando alla P.A. provare l’assenza di colpa, attraverso la dimostrazione, in ipotesi, della sussistenza di cause di giustificazione legalmente tipizzate». Il Giudice di prime cure ha, pertanto, affermato che «il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729, c.c., induce a ritenere che l’ille­gittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell’Amministrazione; e in virtù di tale configurazione, qualora si annulli un provvedimento illegittimo, grava su di essa l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile».

Il Collegio giudicante ha, dunque, ravvisato nell’agire della Amministrazione (nel caso di specie la sola Federazione atteso l’annullamento della sanzione da parte del TNAS) quella negligenza e imperizia tale da configurare la responsabilità degli organi di giustizia nell’emanazione della decisione; nonché ha ritenuto ricorrere i presupposti del danno ingiusto e del nesso di conseguenzialità, provvedendo a liquidare il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita del main sponsor; non accogliendo, tuttavia, le altre due domande afferenti ai danni patiti per la retrocessione alla serie inferiore e per il danno di immagine.

Concludendo, quindi, la fattispecie esaminata dal Tar, già esaminata e commentata da uno dei massimi conoscitori della materia [30], è certamente configurabile come un’ipotesi di risarcimento del danno per violazione di interesse legittimo.

Occorre però verificare se sussista qualche elemento ostativo alla configurazione della fattispecie ora indicata.

Anzitutto l’arresto in analisi sembrerebbe operare una – quantomeno dubbia – inversione dell’onere della prova in sfavore dell’amministrazione convenuta, in contrasto con i consolidati principi in materia di configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati nell’esercizio dell’attività amministrativa, circa la necessaria allegazione e la dimostrazione della sussistenza di tutti gli elementi prescritti dall’art. 2043 c.c.

È necessario, pertanto, interrogarsi sul significato di «colpa» e come viene configurata dal Giudice Amministrativo.

Dalla piana lettura della sentenza in commento emerge chiaramente che il provvedimento di giustizia sportiva viene considerato alla stregua di un provvedimento amministrativo. Il sol fatto di essere dichiarato illegittimo – risarcibile e non annullato – genererebbe automaticamente una responsabilità in capo agli organi di giustizia endo ed esofederali.

La configurazione della cosiddetta colpa in re ipsa in capo ai giudicanti dello sport può avere delle serie ripercussioni, rischiando di considerare l’attività degli organi di giustizia non solo neanche lontanamente come giurisdizionale, ma neppure ascrivibile ad un’attività giustiziale in senso ampio.

A ciò si aggiunga che un atto amministrativo propriamente detto è un atto scaturente da una fase procedimentale di per sé stessa ripetibile; diversamente, l’attività da cui sfocia un provvedimento disciplinare sportivo – dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale di formazione della prova – è un’attività sicuramente irripetibile.

Ma vi è di più. Il Tar, con la sentenza qui analizzata, nell’escludere la natura giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva [31], esclude tuttavia anche la possibilità di estendere analogicamente la disciplina dell’art. 2 legge n. 117/1988 (rubricato «Responsabilità per dolo o colpa grave»).

Tale normativa limita la responsabilità dei magistrati alle sole ipotesi di dolo e colpa grave, al fine di garantire il corretto esercizio della specifica funzione di dirimere controversie attraverso l’accertamento di fatti e l’interpretazione di norme [32].

Le deroghe alla responsabilità dei magistrati hanno, come noto, delle particolari ragioni.

Innanzitutto, nella necessità di tutelare l’autonomia e indipendenza dei soggetti che esercitano la funzione giurisdizionale, al fine di garantire l’imparzialità e l’equidistan­za nell’applicazione delle leggi e nell’incisione dei diritti [33].

In secondo luogo, l’applicazione del summenzionato regime speciale è giustificato dalla peculiarità della funzione di dirimere controversie tra due soggetti in conflitto, all’esito del quale uno risulterà soccombente [34].

Terzo, la limitazione della responsabilità per l’attività di valutazione dei fatti e delle prove e di interpretazione delle leggi, trova giustificazione nella complessità dell’at­tività di valutare fatti e interpretare norme.

L’errore rilevante, al fine di poter affermare la responsabilità dei magistrati è, pertanto, l’errore inescusabile.

Orbene, stante la natura non giurisdizionale degli organismi di giustizia sportiva, potrebbero comunque rinvenirsi per questi ultimi i medesimi caratteri e le medesime peculiarità che giustificano siffatto regime speciale della responsabilità, sebbene esercitino una funzione giustiziale. Infatti, si tratta di attività di soluzione di posizioni in conflitto che si estrinseca in un’attività umana di valutazione di fatti, raccolta di elementi e interpretazione e sussunzione della fattispecie concreta alla fattispecie astratta di norme, che impone una posizione di indipendenza e imparzialità rispetto alle diverse parti.

Tra l’altro, l’analogia di funzioni rispetto alla magistratura è resa ancor più rilevante dalla riserva effettuata dal richiamato art. 2 della legge n. 280/2003. In tale prospettiva, infatti, gli organi della giustizia sportiva, non riconducibili nell’alveo della «magistratura», svolgono funzioni quantomeno analoghe, in quanto unici soggetti cui l’ordinamento statale riconosce la funzione di dirimere le controversie.

Vieppiù. La non appartenenza dei componenti degli organi di giustizia alla magistratura potrebbe non essere argomento rilevante, atteso che il regime derogatorio si applica anche a «coloro che, pur non appartenendo ad una delle magistrature, esercitano tuttavia le stesse funzioni di chi ne faccia parte, come i giudici onorari ed i procuratori onorari gli esperti designati a comporre i collegi delle sezioni specializzate agrarie, del tribunale dei minori, delle commissioni tributarie, i giudici popolari delle corti d’assise» [35].

Concludendo, dunque, il regime speciale della responsabilità dei magistrati non si fonda su un semplice aspetto istituzionale, bensì sulle caratteristiche peculiari dell’atti­vità svolta da soggetti, posti in posizione di terzietà ed indipendenza, finalizzata a dirimere conflitti, a valutare fatti e interpretare norme.

Con i dovuti paragoni, l’attività umana svolta dalla «magistratura dello sport» è per molti aspetti simile all’opera svolta dal magistrato ordinario.

Pertanto, si potrebbe propendere per una soluzione che veda la possibilità di configurarsi legittimamente un risarcimento, solo quando, una volta accertato preliminarmente incidenter tantum l’illegittimità del provvedimento disciplinare, vi sia la prova della colpa grave ovvero del dolo, non essendo sufficiente la mera colpa per configurare responsabilità civile, abbandonando così la «strada» della colpa in re ipsa.

Vi è un ulteriore elemento da sottolineare sempre con riferimento alla sentenza della sez. I ter del Tar Lazio n. 1163/2017.

Come precedentemente analizzato, la legge n. 280/2003, all’art. 2, pone le c.d. questioni tecniche e disciplinari nell’alveo esclusivo della giustizia sportiva. Per le questioni disciplinari, come visto, una lettura costituzionalmente orientata della norma ha portato a considerarle giuridicamente rilevanti per l’ordinamento statale, allorché incidano su posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo. In quest’ultimo caso, dunque, è accordata una tutela esclusivamente risarcitoria per i danni subiti dalle sanzioni disciplinari illegittimamente irrogate, domandabile dinanzi al Giudice Amministrativo (sent. 49/2011 della Corte cost.), una volta «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (ciò in coerenza con l’art. 3 della citata legge).

Nel caso di specie, ad agire per il risarcimento – per i danni patiti a causa della indisponibilità dell’atleta, alla perdita del main sponsor, alla retrocessione nella serie inferiore, nonché al danno di immagine subìto – era stata la società di appartenenza, e non già il tesserato. Quest’ultimo, quale vero soggetto colpito dalla sanzione disciplinare dichiarata illegittima, potrebbe essere inteso quale unico portatore di un interesse legittimo, rilevante per l’ordinamento statale, al risarcimento del danno per equivalente, in coerenza con quanto statuito dalla Consulta.

Il Tar Lazio, nella fattispecie, ha deciso su un’azione risarcitoria intrapresa dalla società sportiva cui era legato il tesserato effettivamente sanzionato, unico effettivo titolare dell’azione risarcitoria. Di conseguenza, potrebbe paventarsi un difetto di legittimazione attiva della società, non essendo, al riguardo, sufficiente postulare un nesso causale tra vicende incombenti su fattispecie e soggetti diversi.

Ciò posto, dunque, potrebbe ammettersi che il Tar abbia errato non solo nel non affermare la carenza di legittimazione attiva della associazione sportiva in luogo dell’atleta, ma anche nel ritenere che i danni da risarcire fossero quelli patiti dalla società e non quelli subiti dal tesserato, come postula, invece, il combinato disposto della legge n. 280/2003 con la sent. n. 49/2011 della Consulta [36].

Come si è anticipato, per ora, è rilevabile un solo precedente in ordine alla fattispecie ipotizzata; non resta che attendere per verificare se gli ulteriori sviluppi saranno idonei a superare le perplessità manifestate.


5.3. L’«accesso sportivo»

Ulteriore arresto, stavolta proprio del Collegio di Garanzia dello Sport degno di nota, è la Decisione delle Sezioni Unite n. 74/2017.

La questione sottoposta al giudizio di legittimità del Collegio ha tratto origine dall’impugnazione, da parte di tre Società calcistiche di Lega Pro, di un provvedimento di diniego di accesso agli atti emanato della stessa Lega.

In particolare, al termine della stagione sportiva 2016/2017, le predette società hanno manifestato l’interesse alla verifica del rispetto degli adempimenti richiesti dalla FIGC riguardo le garanzie fideiussorie prestate dalle altre compagini partecipanti ai tre gironi del Campionato, avanzando, dunque, istanza di accesso agli atti alla FIGC e alla Lega Pro, che comprovassero tale regolarità.

Mentre la Federazione ha declinato la propria competenza, non essendo in possesso della documentazione, la Lega Pro ha, invece, rappresentato alle istanti che «la Lega Italiana Calcio Professionistico, in quanto associazione giuridica privata non riconosciuta, non è sottoposta alla normativa che prevede e disciplina l’accesso agli atti, in quanto applicabile ai soli enti pubblici».

Le suddette società hanno, pertanto, presentato ricorso al Collegio di Garanzia per ottenere l’annullamento dei provvedimenti di diniego rispettivamente emessi dalla Lega Pro e per ottenere dal Collegio un immediato ordine di accesso agli atti. A tal fine, hanno rappresentato un interesse concreto e attuale all’ostensione della documentazione richiesta, dolendosi della circostanza di non poter eventualmente esercitare una difesa efficace contro eventuali illeciti disciplinari commessi dalle rivali rimaste insolventi o ritardatarie nella presentazione della fideiussione [37].

Orbene, nel caso de quo si è reso necessario coordinare l’indiscutibile esigenza di trasparenza e di partecipazione del privato, con la qualificazione giuridica delle Federazioni e, più in particolare delle Leghe, come soggetti di diritto privato, per i quali, invero, sembrerebbe quanto meno problematico richiamare i principi della legge n. 241/1990.

In altri termini, si è tentato di fornire un contemperamento tra i principi di trasparenza dell’attività amministrativa ed i principi che governano l’ordinamento sportivo, tra cui lealtà, correttezza e probità.

Il quesito di diritto che il Collegio si è posto è stato, pertanto, quello di comprendere se, nell’autonomia dell’ordinamento sportivo, i principi che governano quest’ultimo possano indurre a ritenere che «il silenzio serbato dagli organi sportivi nei confronti degli associati, titolari di una situazione giuridicamente tutelata dall’ordinamento settoriale e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, possa essere violativo del legittimo diritto a conoscere atti e documenti per potersi difendere nelle sedi proprie».

Per rispondere a tale quesito, i giudici di legittimità dello sport hanno preso le mosse dalla ricerca della giusta interpretazione del sistema di rapporti che intercorrono tra l’ordinamento giuridico sportivo e l’ordinamento generale.

Punto di partenza di indagine è, sicuramente, la rinnovata considerazione per cui l’ordinamento giuridico sportivo rappresenta uno degli ordinamenti giuridici autonomi più significativi che vengono in «contatto» con l’ordinamento giuridico statale. A ciò si aggiunga e si tenga a mente come la settorialità dell’ordinamento sportivo disveli d’al­tro canto una sua non autosufficienza, in quanto portimpreatore di interessi esclusivamente settoriali.

Orbene, è ormai risalente [38] il dibattito circa l’esistenza di una pluralità di micro ordinamenti autonomi dotati di legittimità ed operanti in seno allo Stato. Come accennato, si tratta di ordinamenti giuridici settoriali, che rivendicano spazi di sottrazione al sindacato di qualsivoglia potere ad essi estraneo [39] ed il cui studio ha fondato la conosciuta teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici (c.d. Istituzionalistica o Ordinamentale) elaborata da Santi Romano.

Come noto [40], è possibile ravvisare l’esistenza di altri ordinamenti rispetto a quello statale al ricorrere congiuntamente di tre elementi, per così dire, costitutivi: la soggettività, la normazione e l’organizzazione [41]; in altri termini, devono sussistere, una soggettività che è diversa da quella stabilita dall’ordinamento statale e una normazione prodotta, almeno in parte, non dallo Stato ma da una diversa comunità o collettività dotata di una propria organizzazione [42].

La collocazione dell’ordinamento giuridico sportivo in quest’ottica risulta agevole data la ricorrenza dei suddetti fenomeni [43]: una pluralità di soggetti quali persone fisiche o enti associativi che concorrono alla pratica sportiva (tra cui affiliati ed atleti tesserati); una normazione sportiva atta a regolamentare pratiche sportive (quale complesso delle norme gerarchicamente ordinato volto alla regolamentazione di ogni fatto ritenuto rilevante all’interno dell’ordinamento); un’organizzazione rappresentata da apparati addetti al governo e alla cura dello sport e dotati di funzioni normative, amministrative e giudiziali, facente capo al CONI ed alle Federazioni sportive nazionali [44]. In questa prospettiva, riprendendo concetti già in precedenza affrontati, deve ribadirsi come le Federazioni siano soggette, sia ad una disciplina speciale, sia ai poteri di indirizzo e controllo del CONI, i quali, a loro volta, hanno una duplice matrice: si tratta, da una parte, di poteri esercitati dal CONI in quanto ente pubblico nei confronti di soggetti privati in ordine alla «valenza pubblicistica di specifici aspetti delle loro attività» [45], accompagnato dal godimento di un regime privilegiato accordato dal­l’or­dinamento statale; dall’altra, si tratta di prerogative esercitate dal CONI quale organo di vertice dell’organizzazione sportiva [46].

Tale prospettiva ha, altresì, ispirato il legislatore del 2003, di cui si è detto precedentemente, il quale, preso atto degli effetti distorsivi derivanti dalla mancata regolamentazione del riparto di competenze giurisdizionali dei due ordinamenti, è intervenuto ammettendo come l’ordinamento giuridico sportivo italiano sia «articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale» [47], riconoscendone così completa autonomia in maniera espressa in «un’area di competenza propria dei sistemi sportivi, impenetrabile da parte dello Stato» [48].

Così discorrendo, l’ordinamento giuridico sportivo rappresenta, dunque, una tipica ipotesi di ordinamento settoriale, attesa la sua matrice internazionalistica e la avvertita necessità di assicurare risoluzione alla specifica conflittualità nascente all’interno. Siffatta autonomia, come emerso supra, è ad ogni modo temperata dall’eventuale rilevanza di situazioni soggettive all’interno dell’apparato amministrativo statale, anche contestualmente allo svolgimento dell’attività sportiva [49].

Il Collegio di Garanzia, nella Decisione in commento, ha avuto il pregio di analizzare, nel quadro del problema della pluralità degli ordinamenti giuridici, la soggezione di ciascun individuo alle regole di uno od anche di più ordinamenti.

Gli ordinamenti settoriali, segnatamente quello sportivo, si pongono in un rapporto di necessario riconoscimento, di asimmetria e di non autosufficienza rispetto agli ordinamenti esprimenti interessi generali, pur rimanendo autonomi sotto il profilo funzionale. Tale mancanza di autosufficienza comporta la legittima possibilità per lo Stato (o altro ente pubblico territoriale) di conoscere e giudicare gli effetti connessi ad atti provenienti da un ordinamento esprimente interessi settoriali allorché contrastanti con i suoi principi fondamentali.

Su tale scorta, è configurabile l’ordinamento giuridico sportivo: «ordinamento espri­mente interessi settoriali e connotato dal carattere dell’autonomia, ma non del­l’autosufficienza, dunque, necessariamente in rapporto di collegamento con il corrispondente ordinamento giuridico esprimente interessi generali (o con i corrispondenti ordinamenti giuridici esprimenti interessi generali)».

Tale assunto ha una diretta conseguenza: i comportamenti dei soggetti facenti parte dell’ordinamento sportivo vanno senz’altro valutati contestualmente, in correlazione, sia alle norme dell’ordinamento statale, sia alle norme dell’ordinamento settoriale (con l’ulteriore specificità che l’osservanza delle norme dell’ordinamento statale non esclude che non si siano violate le norme dell’ordinamento settoriale, con la necessità di valutare il comportamento del soggetto anche alla luce dell’ordinamento di settore).

Dunque, qualora le norme dell’ordinamento statale stabiliscano norme e principi, in un certo qual modo, espressione anche dei principi che permeano l’ordinamento settoriale, quest’ultimo è chiamato a recepirli e ad adattarli al proprio diritto positivo, attesa anche la propria non autosufficienza e il suddetto rapporto di collegamento con l’or­dinamento statale esprimente interessi generali.

Tale possibilità di trasposizione di norme e principi generali in seno all’ordina­mento giuridico, ha spinto le Sezioni Unite ad indagare sulle norme e sui principi posti dal legislatore nazionale in tema di diritto di accesso, allo scopo di favorire forme di controllo sul perseguimento dei fini istituzionali delle amministrazioni e di promuovere la partecipazione di queste al dialogo con il pubblico.

Di là dall’analisi dell’istituto dell’accesso agli atti, di cui agli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, il Collegio si è soffermato sulla recente disciplina del d.lgs. n. 97/2016, recante «Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».

Il d.lgs. 97/2016 ha apportato notevoli mutamenti alla disciplina sulla trasparenza e sull’accesso agli atti. Tale nuova tipologia di accesso c.d. «generalizzato», delineato dal novellato art. 5, comma 2 del decreto trasparenza (d.lgs. n. 33/2013), si esplica in un diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, ed avente ad oggetto tutti i dati, i documenti e le informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è stabilito un obbligo di pubblicazione. È previsto, infatti che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, secondo quanto previsto dall’art. 5-bis».

Il principio di trasparenza dell’attività amministrativa è stato, pertanto, rimodulato nel senso di garantire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico (art. 5, comma 2 del decreto trasparenza). Infatti, il novellato art. 1, comma 1, ridefinisce la trasparenza come possibilità di un completo accesso ai dati ed ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, non più solo finalizzata a «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sul­l’utilizzo delle risorse pubbliche», ma soprattutto, come strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di impulso alla partecipazione degli stessi all’attività amministrativa.

Il diritto di accesso civico generalizzato si configura, dunque, come un diritto a titolarità diffusa, potendo essere attivato «da chiunque» e non essendo sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, e quindi indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridiche soggettive. A ciò si aggiunga che l’istanza «non richiede motivazione».

La nuova disciplina (art. 1, comma 2) eleva, dunque, il concetto di trasparenza quale condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali. La trasparenza, infatti, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino, volta altresì alla prevenzione e al contrasto anticipato della corruzione.

La trasparenza diviene, quindi, principio cardine e fondamentale dell’organiz­za­zione delle pubbliche amministrazioni e dei loro rapporti con i cittadini [50].

Siffatta impostazione comporta, pertanto, un ribaltamento di prospettiva: dall’atti­vazione del diritto di accesso civico solo strumentalmente all’adempimento degli obblighi di pubblicazione, alla libertà di accedere ai dati e ai documenti. In altri termini, il diritto all’informazione diviene ancor più generalizzato, in cui la trasparenza è regola generale, mentre la riservatezza e il segreto solo delle eccezioni, ciò in coerenza ed in analogia con gli ordinamenti in cui vige il c.d. Freedom of Information Act (FOIA).

Tale canone interpretativo, a cui è pervenuto il legislatore italiano, risulta altresì coerente con quanto stabilito dall’Unione Europea, che ha posto (cfr. art. 15 TFUE e capo V della Carta dei diritti fondamentali) il diritto di accesso quale principio generale di trasparenza dell’azione dell’Unione, nonché quale strumento di controllo democratico sull’operato dell’amministrazione europea, volto a promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, poiché espressione della libertà di informazione garantita dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In sostanza, con il Freedom of Information Act, l’ordinamento italiano riconosce e tutela la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni quale diritto fondamentale. Il leitmotiv della normativa è evidentemente la tutela dell’interesse conoscitivo di tutti i soggetti della società civile. Ciò ha come corollario che, in assenza di ostacoli riconducibili ai limiti legali, l’amministrazione è obbligata a dare prevalenza al diritto di chiunque di conoscere e di accedere alle informazioni possedute dalla stessa, in virtù del più alto principio di trasparenza [51].

Ebbene, giudici di legittimità dello sport, partendo dalla suddetta indagine circa i rapporti che intercorrono tra l’ordinamento nazionale e quello sportivo, ed ispezionando il principio della trasparenza – fondamentale nell’esercizio della funzione amministrativa e manifestazione del principio di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost. – hanno ritenuto tale principio «trasferibile» agli organi amministrativi dello sport e mutuabile nella normazione sportiva.

In altri termini, il Collegio ha ritenuto che la trasparenza, a seguito della suddetta evoluzione normativa e del mutamento degli interessi settoriali, «possa essere enucleata e posta accanto ai principi generali attinenti alle modalità di svolgimento del rapporto tra CONI, Federazioni e Leghe nei confronti dei tesserati ed affiliati, insieme ai principi di lealtà, probità e correttezza».

Nel coacervo di interessi e situazioni giuridiche soggettive che vengono in rilievo in seno all’ordinamento sportivo, infatti, è impensabile, a giudizio del Collegio, che la governance dello sport italiano, soprattutto in ambito federale, non si conformi ai principi di economicità, efficacia e pubblicità, in quanto principi immanenti del sistema sportivo stesso.

L’agire delle Federazioni e delle Leghe, dovrebbe, pertanto, essere ripensata nel­l’ot­tica di garantirne pubblicità e trasparenza, consentendone la conoscibilità ed il controllo, e garantendo agli interessati l’accesso alle informazioni relative ai «procedimenti» in corso, con il dovere, altresì, di comunicare agli stessi tutte le informazioni richieste.

Invero, un accesso funzionale e generalizzato all’attività sportiva consentirebbe al­l’associato che abbia un interesse diretto, concreto e attuale di interloquire con gli apparati di governo dello sport, a tutela del proprio interesse, prima che sia adottata la decisione finale.

Seppur in un obiter dictum, ciò a conferma della sua nuova prospettiva di formante giurisprudenziale, il Collegio di Garanzia dello Sport ha elaborato, dunque, una innovativa nozione che potremmo definire di «accesso sportivo», sollecitando al contempo il legislatore sportivo affinché disponga un adeguamento delle regole dell’ordinamento sportivo ai principi generali di libertà e diritto di accesso di ciascun soggetto alle informazioni possedute dagli organismi competenti, nell’ambito in cui essi esprimono funzioni non meramente negozial-privatistiche [52].

Ebbene, può di certo ammettersi come la decisione delle Sezioni Unite n. 74/2017 del Collegio di Garanzia, come altre susseguitesi nel corso del tempo dalla sua istaurazione, sia un arresto tanto paradigmatico, come si discorreva in precedenza, del nuovo ruolo assegnato all’organo di giustizia esofederale, quale espressione del nuovo formante giurisprudenziale (rectius, giustiziale) dell’ordinamento giuridico sportivo, quanto manifestazione della funzione nomofilattica assolta dal Collegio stesso, quale organo unificatore e coordinatore dell’interpretazione ed applicazione delle norme sportive, al fine di garantire una omogenea evoluzione della giurisprudenza sportiva.


5.4. Il «silenzio sportivo» e il procedimento cautelare

In conclusione, deve darsi atto di un ulteriore istituto ritenuto dalla giurisprudenza applicabile nell’ordinamento sportivo, nonché dell’accoglimento dei principi del procedimento cautelare in seno all’apparato giustiziale sportivo.

Ci si riferisce, in primis, alla disciplina del «silenzio».

In questa prospettiva soccorrono le considerazioni illustrate precedentemente, allorquando si è segnalato che l’ordinamento sportivo giustifica la sua esistenza, in virtù dell’ordinamento (autosufficiente) statale. In questo rapporto di intimo collegamento devono necessariamente ritenersi applicabili – anche se non previsti dall’ordinamento settoriale –, tutti gli istituti previsti dall’ordinamento che consentono l’esistenza e la applicazione dell’ordinamento subordinato.

Può, infatti, paventarsi la possibilità che, di fronte all’istanza di un soggetto portatore di un interesse rilevante per l’ordinamento federale, la Federazione stessa ovvero una Lega, non diano corso al «procedimento», oppure che, pur dandovi corso, non lo portino a compimento, con il risultato, in ambo i casi, che il provvedimento non venga adottato.

È dunque ipotizzabile che il legislatore sportivo, in linea con i principi dell’istituto dettati a livello legislativo nazionale, possa intervenire prevedendo un «silenzio sportivo» significativo, facendo scaturire dall’inerzia delle amministrazioni dello sport gli effetti giuridici di accoglimento o di diniego dell’istanza.

Potrebbe, pertanto, immaginarsi una disciplina legislativa settoriale che preveda, non solo il soggetto cui attribuire il potere sostituivo in caso di inerzia (sulla falsa riga di quanto previsto sul piano sostanziale dall’art. 2, comma 9 bis della legge n. 241/1990, come modificato dal d.l. n. 83/2012), ma anche una disciplina processuale che vada a pronunciarsi giudizialmente sulla fondatezza della istanza, eventualmente condannando Federazioni e Leghe alla conclusione del «procedimento» con un provvedimento espresso (sulla falsa riga di quanto previsto dall’art. 31 c.p.a.) [53].

Infine, sussistono nella giurisprudenza del Collegio taluni provvedimenti volti alla configurazione più idonea della disciplina normativa in tema di procedimento cautelare.

In realtà non può esistere alcun ordinamento che sia deputato alla tutela del soggetto, senza che sia anche previsto un provvedimento di urgenza che garantisca quella tutela in maniera effettiva, fornendo strumenti di intervento idonei, che facciano in modo che non si vanifichi quella tutela, a causa della tempestiva adozione del provvedimento finale.

In particolare, l’art. 57, comma 2 del Codice (come novellato dalla deliberazione n. 1538 del Consiglio Nazionale del CONI del 9 novembre 2015 e approvata con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 16 dicembre 2015) attribuisce al Presidente del Collegio di Garanzia dello Sport, talune funzioni in merito all’organizza­zione ed al funzionamento dell’organo. In particolare, questi è preposto alla designazione, all’inizio di ciascuna stagione sportiva, del numero dei collegi per ogni Sezione giudicante nonché della relativa composizione, nominandovi un Presidente; ha cura di assegnare ciascuna controversia alla Sezione di competenza o, in caso di sovraccarico, ad altra sezione, ovvero alle Sezioni Unite ed, infine, ha facoltà di adottare, nei casi di necessità e urgenza, provvedimenti cautelari, anche senza audizione delle parti.

Il modello cui è necessario far riferimento è quello del codice del processo amministrativo, i cui principi (art. 56 c.p.a.) permeano l’azione del Presidente del Collegio che interviene d’urgenza, prima che la questione sia sottoposta all’esame del collegio giudicante [54].

Il Presidente del Collegio di Garanzia sarà tenuto, pertanto, a valutare una situazione di estrema gravità ed urgenza tale da non consentire la dilazione fino alla data fissata per la discussione, poiché nel frattempo potrebbe consolidarsi una situazione irreversibile in danno del ricorrente. Quest’ultimo dunque, sarà tenuto, nell’invocare la tutela Presidenziale, a specificare il tipo di pregiudizio a cui si esporrebbe in caso di rigetto della stessa.

Il periculum su cui è chiamato a giudicare il Presidente del Collegio è, pertanto attinente alla eccezionalità della fattispecie e all’utilità garantita al ricorrente, al fine di renderlo immune dai pregiudizi derivanti dal differimento temporale dell’esame del ricorso. Quanto alla valutazione del fumus boni iuris, la valutazione si attaglia a quegli elementi, specificati dall’istante, che, ad un sommario esame, indurrebbero, ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso.

È evidente, dunque, che i principi sottesi al procedimento cautelare previsti dal legislatore nazionale, come quelli in precedenza analizzati sull’accesso agli atti e sul silenzio della pubblica amministrazione, hanno fatto il proprio ingresso nell’ordina­mento settoriale dello sport mediante quella necessaria opera di recepimento ed adattamento di cui si è tentato di dare atto precedentemente, in quanto considerabili principi immanenti anche dell’ordinamento giuridico sportivo.


NOTE

[1] SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1966. La teoria istituzionalistica del Romano ebbe eco anche in Francia (con Maurice Hauriou), in Germania (con Max Weber) e negli USA (con Thorstein Veblen). Le considerazioni che si andranno a ribadire hanno avuto una anticipazione in M. SANINO, Diritto Sportivo, Padova, 2002 e M. SANINO, F. VERDE, Il diritto sportivo, 4a ed., Padova, 2015.

[2] La stessa definizione dà conto dell’orientamento della dottrina classica (Kelsen, Santi Romano) tendente ad identificare l’ordinamento giuridico con il diritto in senso oggettivo. Sull’argomento v. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1991, pp. 4-11.

[3] In definitiva, si può osservare che due sono gli orientamenti dottrinali che, nell’ambito della teoria generale del diritto, si contrappongono fra loro: la concezione ordinamentale monistica e quella pluralista. Il monismo tende ad assimilare ogni sub-ordinamento all’ordinamento generale dello Stato. In altre parole, non ritiene possibile configurare un ordinamento giuridico ulteriore rispetto a quello statale, in quanto solo lo Stato avrebbe la funzione di organizzare la collettività. La concezione pluralistica sostiene, viceversa, che il diritto risieda nelle singole istituzioni sociali e, conseguentemente, ammette l’operatività di norme giuridiche all’interno di ogni gruppo sociale organizzato. In realtà, la questione teorica del diritto sportivo non è mai stata risolta in maniera soddisfacente dalla dottrina, anche perché entrambe le scuole di pensiero sopra indicate non offrono una soluzione del tutto esauriente. I sostenitori del monismo contestano alla concezione pluralista del diritto che la regola sportiva non può in alcun caso essere applicata in assenza di un intervento del diritto statale, e adducono a sostegno di simile impostazione la circostanza per la quale lo sportivo può sempre adire l’Autorità giurisdizionale dello Stato per far valere le proprie ragioni. D’altra parte, i sostenitori del pluralismo evidenziano che non si può negare l’esistenza di un diritto sportivo e di un’organizzazione sportiva che, al pari di quella statale, è dotata di poteri normativi e giudiziari finalizzati alla regolamentazione dell’attività sportiva. La teoria pluralista afferma, pertanto, l’esistenza, accanto all’ordinamento giuridico statale, di quello sportivo. La stessa teoria osserva che il rapporto tra ordinamento statale e ordinamento sportivo è retto dal principio tendenziale del mutuo non disconoscimento; principio che si è andato rafforzando nella prospettiva dell’autonomia dell’orga­nizza­zione sportiva, indispensabile per far fronte a problematiche sempre più complesse cui corrispon­dono, per interazione simultanea, normazioni tecniche assai articolate. La problematica in esame è ampia­mente trattata da L. DI NELLA, Le federazioni sportive nazionali dopo la riforma, in Riv. dir. sport., 2000.

[4] CESARINI SFORZAIl diritto dei privati, in Rivista Italiana di scienze giuridiche; F. MODUGNOPluralità degli ordinamenti giuridici, Milano, 1985; R. PEREZDisciplina statale e disciplina sportiva nel­l’ordinamento dello Sport, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, I, Milano, 1988, p. 507.

[5] Un resoconto completo della dottrina e della giurisprudenza può rinvenirsi negli ultimi lavori sul punto apparsi in questi ultimi anni: P. SANDULLI, M.S. FERRAZZA, Il giusto processo amministrativo, Milano, 2015 e M. SANINO, Giustizia Sportiva, Padova, 2017. Utili indicazioni si possono reperire in: L. SANTORO, G. LIOTTA, Lezioni di diritto sportivo, 3a ed., Milano, 2016 e F. CARDARELLI, Il nuovo sistema della Giustizia sportiva, in Libro dell’anno del diritto. Enc. giur. Treccani, Roma, 2015, p. 728.

[6] Spunti davvero interessanti possono rinvenirsi negli Atti di un convegno svoltosi il 30 ottobre 2013 presso l’Università degli Studi di Firenze: la Giustizia Sportiva nel calcio. A. DE SILVESTRI, La Giustizia disciplinare sportiva dopo la sentenza della consulta tra ulteriori contraddizioni di sistema e spunti ricostruttivi; P. GUALTIERI, Procedimento disciplinare sportivo e giusto processo: linee guida di una riforma adeguatrice; G. MORBIDELLI, Giustizia disciplinare sportiva ed effettività della tutela; P. SANDULLI, Acquisizione e valutazione della prova nel processo sportivo: profili problematici, in Rass. dir. economia sport, 2014, p. 195.

[7] Gli atti del Convegno sono stati pubblicati in Atti del 3° Convegno Nazionale 27-28-20 marzo 2008, Grand Hotel Quisisana – Capri, Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, Napoli, 2009.

[8] In argomento può consultarsi anche: G. NAPOLITANO, Contro lo spettro del suo pubblicismo: sul carattere privatistico delle leghe sportive e delle procedure di commercializzazione dei diritti audiovisivi, in questa Rivista, 2016, p. 100.

[9] Recentemente, il CONI, dando seguito all’opera nomofilattica del Collegio nonché alle istanze rap­pre­sentate nel recente passato dal Presidente del Collegio di Garanzia e dal Procuratore Generale dello Sport, ha intrapreso un’ulteriore importante operazione di politica sportiva: la nomina di una com­mis­sione ad hoc per la predisposizione di un codice di diritto sostanziale dello sport. Questo, presu­mi­bilmente, comporterà la normazione di fattispecie di illecito comuni, con medesimi limiti edittali di pena, per tutte le Federazioni, dotando il complesso regolamentare sostanziale della medesima uniformità e coerenza del Codice della Giustizia Sportiva.

[10] La «base ideologica» da cui è necessario prendere le mosse, evidenziata dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 49/2011, è quella per cui il mondo dello sport rappresenta uno degli ordinamenti autonomi più significativi che vengono a contatto con l’ordinamento statuale. Ordinamento, questo, che trova «ampia tutela» negli artt. 2 e 18 della Costituzione e che è sintesi della tensione che proviene a livello extrastatuale, visto che rappresenta «l’articolazione italiana di un più ampio ordinamento autonomo avente dimensione internazionale». Siffatta base ideologica è stata affermata a gran voce dal Presidente del Collegio di Garanzia Franco Frattini che, in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudi­ziario 2017, discorrendo sul ruolo del Collegio ha ammesso che il caposaldo del lavoro di quest’ultimo sia «costituito dall’autonomia della giustizia sportiva da quella ordinaria, corollario dell’autonomia dello sport riconosciuta con continuità in Italia da governi di struttura e colore politico assai diversi, e con­fermata al più alto livello dalla giurisprudenza anche costituzionale».

[11] Il sofisticato sistema di giustizia odierno, atto a dirimere controversie tra atleti, associazioni e Federazioni sportive, pone in essere istituti volti alla limitazione delle ingerenze delle giurisdizioni ordinarie e delle interferenze tra ordinamento statale e diritto sportivo, predisponendo organismi interni di tutela giudiziale (espressione di una forma di c.d. giustizia associativa) che assicurano un «giusto processo di legge» in conformità con i principi costituzionali e quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In tal senso, B. AGOSTINIS, La riforma della giustizia sportiva: un flash in attesa dei regolamenti attuativi, in Giustiziasportiva.it, 2013, n. 3, p. 17, che delinea un sistema di giustizia sportiva «connotato da autodichia, ovvero il potere di risoluzione domestica delle liti» e che si caratterizza «per una giustizia prevalentemente endofederale, finalizzata ad emettere decisioni in tempi rapidi, in linea con le esigenze di celerità imposte dalla sequenza delle partite di campionato, delle gare, dei tornei e delle competizioni sportive in genere».

[12] Così il Presidente del CONI Giovanni Malagò in sede di presentazione della riforma (Comunicato ufficiale 30 maggio 2014, in www.coni.it).

[13] Ai sensi dell’art. 7, lett. h-bis) il sistema di giustizia sportiva deve prevedere l’obbligo dei tesserati di rivolgersi agli organi di giustizia federale per la risoluzione delle controversie inerenti all’attività sportiva; lo stesso deve rispettare «i principi del contraddittorio tra le parti, del diritto di difesa, della terzietà e imparzialità degli organi giudicanti, della ragionevole durata, della motivazione e della impugnabilità delle decisioni». Il sistema di giustizia sportiva deve, altresì, avere come obbiettivo quello di razionalizzare «i rapporti tra procedimenti di giustizia sportiva di competenza del CONI con quelli delle singole Federazioni».

[14] Sul tema G. NAPOLITANO, L’adeguamento del regime giuridico del CONI e delle federazioni spor­tive, in Giorn. dir. amm., 2004, n. 4, p. 353 ss.; ID., voce Sport, in Dizionario di. diritto pubblico, diretto da S. Cassese, VI, Milano, 2006, p. 5678 ss.

[15] Comunicato Ufficiale del Consiglio Nazionale del CONI del 19 dicembre 2013 (in www.coni.it).

[16] I «Principi fondamentali degli Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate», come da ultima approvazione con deliberazione del Consiglio Nazionale n. 1523 del 28 ottobre 2014 recano, in proposito, le disposizioni di cui agli artt. 1, «Principio Comunitario» per cui «gli Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate devono prevedere espressamente il rapporto federativo esistente con il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, quale organo rappresentativo della comunità sportiva nazionale»; e 2 «Principio di legalità» per cui «gli statuti delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate: a) devono recepire i principi enunciati negli artt. 5, comma 2 lett. b), 15 e 16 del D.Lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, senza prevedere alcuna limitazione al principio di democrazia interna, in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale, in particolare per quanto riguarda le procedure e le regole di voto delle assemblee elettive; b) devono essere redatti conformemente alle norme contenute nello Statuto del C.O.N.I., con particolare riguardo agli articoli 20, 21, 22, 23, 24, 25 e 36 bis; c) devono indicare l’organismo internazionale (C.I.O., Federazione Internazionale) al quale aderiscono; d) devono espressamente prevedere l’adesione incondizionata alle Norme Sportive Antidoping del C.O.N.I. Gli statuti delle Associazioni Benemerite riconosciute dal C.O.N.I. ai sensi dell’art. 5, comma 2 lett. b) e lett. c), del D. Lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, devono uniformare i propri contenuti a quelli dello Statuto del C.O.N.I., con particolare riguardo all’art. 30 ed ai Principi Fondamentali emanati dal C.O.N.I. stesso». All’articolo 15 dei medesimi «Principi» si regola il «Principio di giustizia sportiva», a norma del quale «le Federazioni Sportive Nazionali e le Discipline Sportive Associate devono adeguare i propri statuti e regolamenti ai Principi di Giustizia Sportiva emanati dal Consiglio Nazionale del CONI».

[17] L. FERRARA, F. ORSO, Il codice di giustizia del Coni tra omogeneizzazione procedurale e autonomia federale, in Riv. dir. sport., 2015, fasc. 1.

[18] Sull’esercizio della potestà regolamentare da parte delle Federazioni Sportive Nazionali: C. ALVISI, Autonomia privata e autodisciplina sportiva, il Coni e la regolamentazione dello sport, Milano, 2000, p. 322 ss.

[19] M. SANINO, Giustizia sportiva, Padova, 2016.

[20] G. LIOTTA, L. SANTORO, Lezioni di diritto sportivoAddenda di aggiornamento, Milano, 2014.

[21] Ancora sull’autonomia delle Federazioni Sportive Nazionali: R. CAPRIOLI, Il significato dell’auto­no­mia nel sistema delle fonti del diritto sportivo nazionale, in N. giur. civ. comm., 2007, II, p. 284 ss.; M. BASILE, L’autonomia delle federazioni sportive, in L. BUSCAGLIA, R. ROMBOLI, Sport e ordinamenti giuridici, Pisa, 2009, p. 13 ss.

[22] L. FERRARA, F. ORSO, Il codice di giustizia, cit.

[23] Sul rafforzamento dei poteri di controllo del CONI, posto a «presidio fondamentale di interessi pubblici e collettivi» e sul rischio che una carenza di predisposizione di regole chiare e precise in merito ai parametri e alle procedure di controllo potrebbe comportare, G. NAPOLITANO, L’adeguamento del regime giuridico del CONI e delle federazioni sportive, in Giorn. dir. amm., 2004, n. 4, p. 353 ss.; l’au­tore già dieci anni prima della riforma manifestò la necessità di intervenire in modo organico sui molti problemi attraverso l’adozione di un vero e proprio «Codice di diritto sportivo» al fine di giungere ad un periodo di stabilità normativa.

[24] M. SANINO, F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 462.

[25] La necessità di certezza interpretativa e di effettività di tutela era già stata invocata da C. FRANCHINI, Gli effetti delle decisioni dei giudici sportivi, Torino, 2004, in cui l’autore compie una disamina sulle conseguenze che, a livello di diritto civile, penale, amministrativo e diritto del lavoro, hanno avuto le decisioni dei giudici sportivi fino a quel momento emanate; nonché da I. PIAZZA, Ordinamento sportivo e tutela degli associati: i limiti e le prospettive del nuovo equilibrio individuato dalla Corte Costituzionale, in Giur. it., 2012, p. 187 ss. e da L. DI NELLA, Costituzionalità della “giustizia sportiva” e principio della specificità dello Sport, in Rass. dir. econ. sport, 2012, p. 45 ss.

[26] L. TORCHIA, La dinamica del diritto amministrativo, Bologna, 2017, p.11.

[27] Sul punto, tra i tanti, E. LUBRANO, La giurisdizione amministrativa in materia sportiva dopo la legge n. 280/2003, in P. MORO, A. DE SILVESTRI, E. CROCETTI BERNARDI, E. LUBRANO, La giustizia sportivaanalisi critica della legge n. 280/2003, Forlì, 2004; A. BONOMI, Giustizia sportiva e giustizia statale. Qualche riflessione sulla legittimità costituzionale della legge 17 ottobre 2013, n.280, in Riv. dir. cost., 2004, p. 171 ss.; G. ARIETTA, Prime considerazioni sulla l. 280 del 2003, in Rass. dir. ed econ. sport, 2006, p. 5 ss.; P. SANDULLI, Giustizia sportiva e giurisdizione statale, in Foro amm. TAR, 2008, fasc. 7/8; G. VERDE, Sul difficile rapporto tra ordinamento statale e ordinamento sportivo in Feno­meno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° convegno nazionale, Atti SISDIC 3, Napoli, 2009, p. 679; G. MANFREDI, Ordinamento statale e ordinamento sportivo. Tra pluralismo giuridico e diritto globale in Dir. amm., 2012, n. 3, p. 304; A. STALTERI, Il Consiglio di Stato e la pregiudiziale sportiva, in Resp. civ. e prev., 2013, fasc. 5, p. 1584.

[28] Corte cost., sent. 11 febbraio 2011, n. 49, in Giur. cost., 2011, n. 1, p. 644; in Giust. civ., 2011, n. 5, p. 1145, con nota di G. MANFREDI, Gruppi sportivi e tutela endoassociativa, e di A.A. DI TODATO, La tutela effettiva degli interessi tra giurisdizione sportiva e statale: la strana “fuga” della Corte da piano sostanziale a quello per equivalente. Sull’argomento, tra i tanti: A. DE SILVESTRI, La Corte Costituzionale “azzoppa” il diritto d’azione dei tesserati e delle affiliate in Giustiziasportiva.it, 2011, n. 1; E. LUBRANO, La Corte Costituzionale n. 49/2011: nascita della giurisdizione meramente risarcitoria o fine della giurisdizione amministrativa in materia disciplinare sportiva, in Riv. econ. sport, 2011, vol. VII, fasc. 1, p. 92 ss.; G.F. SCOCA, I mezzi di tutela giurisdizionale sono soggetti alla discrezionalità del legislatore, in Corr. giur., 2011, n. 11, p. 1543 ss.; F. BLANDO, Finale di partita. La Corte Costituzionale “salva” l’au­to­nomia dell’ordinamento sportivo italiano, in questa Rivista, 2011; F. BLANDO, Sanzioni sportive, sindacato giurisdizionale, responsabilità risarcitoria, in Danno e resp., 2011, n. 10, p. 919 ss.; A.E. BASI­LICO, L’autonomia dell’ordinamento sportivo e il diritto ad agire in giudizio: una tutela “dimezzata”, in Giorn. dir. amm., 2011, n. 7, p. 739.

[29] Cons. Stato, sentt. n. 5025/2004 e n. 527/2006.

[30] P. SANDULLI, Osservazioni sui limiti della giustizia sportiva rispetto alla giurisdizione statale, in Riv. dir. sport., 2017, fasc. 1, p. 128 ss.

[31] P. SANDULLI, op. ult. cit.

[32] La giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nel ritenere che «la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» (ex multis, Corte cost., sent. n. 26/1987).

[33] Secondo la Corte costituzionale il principio di indipendenza è «volto a garantire l’imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere; a tal fine la legge deve garantire l’assenza, in ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l’obbiettività della decisione; la disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest’ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza» (Corte cost., sent. n. 18/1989).

[34] «A differenza di altre attività professionali, quale ad esempio quella del medico o dell’ingegnere, l’at­tività del magistrato è caratterizzata dal fatto che egli causa comunque un danno ogniqualvolta pren­de una decisione. Il danno può essere causato alla parte soccombente la quale non veda riconosciuti i propri interessi, a torto o a ragione; in altri casi essere causato ad uno o più terzi individuati, i quali siano colpiti in qualche modo dagli effetti della sentenza; in altri casi ancora, il danno può essere causato alla collettività (ad esempio, nelle materie riguardanti gli interessi diffusi). Il giudice, allora, potrebbe essere indotto, dal timore della responsabilità, a prendere la decisione che causa un danno alla parte che è nella condizione meno favorevole ad agire in giudizio per il risarcimento dei danni ovvero ad assumere una decisione che sia formalmente coerente con i precedenti orientamenti giurisprudenziali – dunque idonea a porlo al riparo da eventuali azioni risarcitorie – ma sostanzialmente non risponda alla domanda di giustizia della concreta vicenda esaminata» (Delibera del CSM del 28 giugno 2011).

[35] Cass., sez. III, 8 maggio 2008 n. 11229.

[36] P. SANDULLI, op. ult. cit., p. 137, sottolinea che «affermata la carenza di legittimazione attiva in luogo dell’“atleta elettore”, anche in base al principio contenuto nell’art. 81 del codice di rito civile, che limita la sostituzione processuale ai soli casi espressamente previsti dalla legge, tra i quali non è contemplabile quello in esame, non andava operata alcuna ricerca del soggetto su cui incombeva il risarcimento del danno, a causa del lamentato difetto di legittimazione attiva».

[37] Il Collegio di Garanzia ha, comunque, preliminarmente, dichiarato i ricorsi – riuniti per connessione oggettiva – inammissibili, considerando che la fattispecie in esame, che ha per oggetto il diniego da parte della Lega Italiana Calcio Professionistico all’istanza di accesso agli atti presentata dalle società ricor­renti, non si sottragga alla regola del necessario presupposto circa la portata cognitiva del Collegio di Garanzia, limitata, come noto, a motivi di legittimità. Infatti, la tutela richiesta dalle società ricorrenti, come quella in materia di accesso in generale, ha una precipua finalità istruttoria che si attaglia ad un giudizio di merito sull’accertamento del diritto delle ricorrenti/istanti ad ottenere la ostensione dei docu­menti richiesti, nonché sulla legittimità o meno del diniego. Siffatta forma di sindacato, ai sensi dell’ar­t. 54 del Codice della Giustizia Sportiva, sfugge alla cognizione del Collegio di Garanzia dello Sport. Il Collegio ha, infatti, ribadito come la dizione «avverso tutte le decisioni non altrimenti impu­gnabili nel­l’ambito dell’ordinamento federale» deve continuare ad essere intesa come la possibilità di impugnare i provvedimenti decisionali degli organi di giustizia federali che, alla luce dell’attuale struttu­razione della Giustizia Sportiva, non potrebbero esser contestati in altra maniera (Collegio di Garanzia, Terza Sezione, decisione n. 22/2017), senza che si possa dotare il Collegio di una competenza residuale per le impu­gnazioni per le quali non è previsto un diverso organo.

[38] Cfr. W. CESARINI SFORZA, Il diritto dei privati, in Riv. it. scien. giur., 1929; Cass., sez. III, 11 febbraio 1978, n. 625: «Il fenomeno sportivo […], visto indipendentemente dal suo inserimento nell’ordi­namento giuridico statale […], si presenta come organizzazione a base plurisoggettiva per il conseguimento di un interesse generale. […] È dunque un ordinamento giuridico».

[39] M.R. SPASIANO, Sezione seconda: La giustizia sportiva, in G.F. SCOCA, Giustizia amministrativa, 6a ed., Torino, 2014, p. 559.

[40] S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1945.

[41] Sulla definizione dei tre elementi costitutivi, M.S. GIANNINI, in Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici, in questa Rivista, 1949, descrive la plurisoggettività come «esistenza di un congruo numero di soggetti, persone fisiche o enti legati dall’osservanza di un corpo comune di norme, alle quali essi attribuiscono valore vincolante» e la organizzazione come «complesso collegato di persone, servizi personali e reali che ha carattere permanente e duraturo ed esercita sui soggetti dell’ordinamento un potere (autorità) che limita, in nome dell’interesse del gruppo, le libertà di ciascun soggetto».

[42] Il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici è principio immanente del nostro ordinamento, espressione del pluralismo riconosciuto a livello costituzionale e generale, basti pensare ai riferimenti alle c.d. «formazioni sociali» (art. 2 Cost.), al diritto di associazione (art. 18) e a tutte quelle forme associazionistiche previste e tutelate dall’ordinamento (ad esempio quella sindacale ex art. 39).

[43] Sul paradigma pluralista nello studio del diritto sportivo, L. DI NELLA, La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e il fenomeno sportivo, in questa Rivista, 1998, p. 5 ss.; G. MANFREDI, Pluralità degli ordinamenti e tutela giurisdizionale. I rapporti tra giustizia statale e giustizia sportiva, Torino, 2007, p. 259 ss.; W. CESARINI SFORZA, Teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto sportivo, in Foro it., 1933; S. CASSESE, Sulla natura giuridica delle federazioni sportive e sull’applicazione ad esse della disciplina del “parastato”, in questa Rivista, 1979, n. 3, pp. 117-123.

[44] M. SANINO, F. VERDE, Il diritto sportivo, cit.

[45] G. NAPOLITANO, La nuova disciplina dell’organizzazione sportiva italiana: prime considerazioni sul decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, di “riordino del CONI”, in questa Rivista, 1999, p. 623.

[46] G. NAPOLITANO, Il “riassetto” del Coni, in La riforma del Coni. Aspetti giuridici e gestionali, Milano, 2004, p. 11 ss.

[47] Il CIO ha una configurazione peculiare in confronto ad altri enti internazionali, occupando una posizione a sé stante, non essendo né un ente intergovernativo, né oggetto di regolamentazioni internazionali. Ciò ha comportato un problema circa la sua qualificazione giuridica: si è ormai concordi nel ritenere che costituisca una organizzazione priva di soggettività internazionale di diritto pubblico data la impossibilità per questo di emanare regole di diretta applicabilità nei singoli ordinamenti giuridici sportivi, ma soltanto norme di natura convenzionale la cui efficacia si fonda sulla volontà dei destinatari di darne piena esecutività. La sua principale attività normativa concerne l’organizzazione delle Olimpiadi, la difesa del c.d. «olimpismo» e la vigilanza sul rispetto delle regole fondamentali sancite nella Carta Olimpica, sottostando nell’esplicazione di queste finalità istituzionali alle norme di diritto internazionale (ciò a riprova della natura singolare della sua attività). In argomento, M. SANINO, Olimpiadi, in Nuoviss. dig. it., X, Torino, 1995; R. SAPIENZA, Sullo status internazionale del comitato internazionale olimpico, in questa Rivista, 1997, p. 407 ss.; R. DE STEFANI, Olimpiadi e Comitato Olimpico Internazionale, in questa Rivista, 1972; G. LIOTTA, L. SANTORO, Lezioni di diritto sportivo, 2a ed., Milano, 2013, p. 38.

[48] F. MODUGNO, Giustizia e sport: problemi generali, in questa Rivista, 1993.

[49] È imprescindibile fare riferimento ai fondamentali parametri dettati dalle stesse Sezioni Unite del Collegio di Garanzia con la decisione n. 74/2017, ripresi in parte motiva nella decisione in commento. «… nel quadro del problema della pluralità degli ordinamenti giuridici va valutata la soggezione (…) di ciascun individuo alle regole di uno od anche di più (…). La pluralità possibile degli ordinamenti giu­ridici risulta, perciò, dalla concepibilità di più di un tipo di ordinamento (oltre quello statale). I vari tipi di ordinamenti, ossia le species del genus, risultano dalle differenze distinguibili in ciascuno degli aspetti essenziali del genus. Così sono possibili altri ordinamenti, rispetto a quello statale, ogni volta che la soggettività è diversa da quella stabilita dall’ordinamento statale (cittadinanza, riconoscimento della personalità a tutti gli esseri umani che si trovino nell’ambito dell’ordinamento statale, riconoscimento della personalità ad alcuni ben determinati gruppi di uomini – associazioni o corporazioni – o di entità unitariamente considerate e destinate – fondazioni o istituzioni – riconoscimento di altre forme non personificate di soggettività), ogni volta che la normazione non è, almeno in parte, di provenienza statale, ma è prodotta da un’altra collettività o comunità, e dunque ogni volta che l’organizzazione è distinta, almeno in parte, da quella propriamente statale. La pluralità di ordinamenti è possibile proprio in quanto siano concepibili ordinamenti sociali, con una propria predeterminazione dei soggetti, con una propria (almeno parziale) produzione normativa, con una propria (almeno parziale) organizzazione (autorità). Sarà sufficiente rilevare come sia oggi comune la divisione degli ordinamenti giuridici in due categorie: a) ordinamenti giuridici esprimenti interessi generali (fra i quali, soprattutto, gli enti pubblici territoriali, e fra questi, innanzitutto, lo Stato); b) ordinamenti giuridici esprimenti interessi settoriali (come, ad esempio, le associazioni). Il rapporto tra le due categorie di ordinamenti deve essere risolto in termini di non autosufficienza degli ordinamenti settoriali, se pur autonomi sotto il profilo funzionale; e la detta mancanza di autosufficienza deve esprimersi, quanto meno nella conseguenza che gli effetti connessi ad atti provenienti da un ordinamento esprimente interessi settoriali e determinanti conseguenze contra­stanti con i principi fondamentali dello Stato (o di altro ente pubblico territoriale) possono legittima­mente essere conosciuti e giudicati da quest’ultimo. Deve, quindi, aderirsi alla ricostruzione secondo cui tra gli ordinamenti giuridici esprimenti interessi settoriali e gli ordinamenti giuridici esprimenti interessi generali, che a quelli corrispondono, si instaura un rapporto asimmetrico, in quanto i secondi hanno giuridica ragion d’essere soltanto ove riconosciuti dai secondi.

Sotto un profilo di assoluta generalità, è, dunque, configurabile l’ordinamento giuridico sportivo: ordinamento esprimente interessi settoriali e connotato dal carattere dell’autonomia, ma non dell’auto­sufficienza, dunque, necessariamente in rapporto di collegamento con il corrispondente ordinamento giuridico esprimente interessi collettivi (o con i corrispondenti ordinamenti giuridici esprimenti interessi generali).

[50] Cfr. ANAC: «Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co 2 del d.lgs. 33/2013» (www.anticorruzione.it). Per una prima analisi del d.lgs. n. 97/2016 v. M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 2016, p. 593 ss.

[51] È importante, brevemente, notare come l’accesso generalizzato debba essere tenuto distinto dalla disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi di cui agli artt. 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. La finalità dell’accesso c.d. documentale ex legge n. 241/1990 è differente da quella sottesa all’accesso generalizzato. La legge n. 241/1990, infatti, conferisce ai soggetti interessati la possibilità di esercitare al meglio le loro facoltà, di tipo partecipativo, oppositivo o difensivo, a tutela delle posizioni giuridiche qualificate di cui sono titolari, escludendo, dunque, la possibilità di utilizzare il diritto di accesso al fine di sottoporre l’amministrazione ad un controllo generalizzato. Tale ultimo assunto evidenzia la differenza con l’analizzato accesso generalizzato, posto, come detto, al precipuo scopo di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico». Vieppiù. Risulta altresì imprescindibile, diversamente dall’accesso generalizzato, dal punto di vista soggettivo, ai fini dell’istanza di accesso ex legge  n. 241/1990, la dimostrazione per il richiedente della titolarità di un «interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al docu­mento al quale è chiesto l’accesso» L’accesso agli atti ex legge  n. 241/1990 continua, dunque, a sussi­stere parallelamente all’accesso civico generalizzato operando sulla base di norme e presupposti diversi. La tutela accordata dalla legge  n. 241/1990 può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti, mentre l’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, assicura una estesa conoscibilità di dati, documenti e informazioni.

[52] In tal senso, il Collegio, nella decisione in commento, ha altresì affermato che andrebbe coerente­mente ripensata anche la disciplina di giustizia sportiva in tema di doglianze avverso il diniego di accesso agli atti: «tale particolare giudizio, al pari di quanto accade dinnanzi ai Tribunali Amministra­tivi, potreb­be essere istaurato dinnanzi ai Tribunali federali, dotandoli di competenza specifica in merito all’accer­tamento del diritto di un tesserato o affiliato ad ottenere dei documenti richiesti avverso il diniego di ostensione documentale, attesa la loro cognizione estesa al merito delle controversie che si ingenerano nell’ambito dell’ordinamento sportivo, ciò anche in considerazione della incompetenza del Collegio di Garanzia per le suesposte ragioni».

[53] Sulla disciplina del silenzio significativo v. M.C. CAVALLARO, Brevi riflessioni sulla natura del silenzio significativo, nota a Tar Lazio, Latina, sez. I, 27 maggio 2009, n. 509, in Foro amm., 2009, p. 3196 ss.; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1970; E. STICCHI DAMIANI, Il giudice del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in Riv. giur. amb., 2010, p. 1 ss.; L. VIOLA, Le azioni avverso il silenzio della pubblica amministrazione nel nuovo codice del processo amministrativo, in Foro amm. TAR, 2010, p. 3393 ss.

[54] In argomento, tra i tanti, A. SCALCIONE, La tutela cautelare monocratica nel processo amministrativo, in Foro amm. TAR, 2006, 5, p. 1932 ss.; M.A. SANDULLI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in G. PELLEGRINO (a cura di), Verso il codice del processo amministrativo, Roma, 2010.