Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Atleti dilettanti, campioni nazionali e cittadinanza europea: quid novi sub sole? (di Stefano Bastianon, Professore associato di Diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Bergamo.)


In this judgment the Court of justice of the European Union was asked to state whether Articles 18, 21 and 165 TFEU are to be interpreted as meaning that a sporting association of a Member State impermissibly discriminates against amateur athletes who do not have the nationality of that Member State by allowing them to participate in national championships but only letting them participate «outside classification» or «without classification» and not letting them participate in the finals of races and contests or excluding them from the award of national titles or from the classification. It is a rather complex issue because for cultural and sporting reasons it has been logically suggested that the conferment of «national champion» titles should be reserved for nationals of the Member State within which the competition takes place. On the other hand, the development of an internal market supported by free movement and citizenship rights has the potential to call into question this traditional feature of the so-called «European model of sport». In its judgment the Court of Justice tries to follows the pathway traced by the Meca Medina and Majcen judgment, but for the Author the outcome is not completely convincing.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il precedente Agostini - 3. La vicenda Biffi - 4. Lo sport e il diritto dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona - 5. Il diritto dell’Unione europea ed il titolo di campione nazionale in ambito sportivo - 6. La sentenza Biffi ed il possibile impatto sul sistema sportivo italiano - 7. Riflessioni di sintesi - NOTE


1. Premessa

Da diversi anni la sede privilegiata per la risoluzione delle controversie relative alla compatibilità di talune regole sportive con il diritto dell’Unione europea sembrava essersi spostata dall’asse Lussemburgo/Bruxelles (rispettivamente sede della Corte di giustizia e della Commissione) a Losanna (sede del TAS). In buona sostanza, infatti, dopo la convulsa vicenda Meca Medina e Majcen [1] del 2006, gli unici due interventi in ambito sportivo da parte delle istituzioni europee sono stati la sentenza della Corte di giustizia nel caso Olympique Lyonnais [2] del 2010 e la decisione della Commissione del 2017 nella vicenda ISU [3]. Davvero un po’ poco, in rapporto all’attivismo giudiziario del TAS in materie quali il fair-play finanziario [4] e le third party ownership [5], rispetto alle quali i profili di possibile incompatibilità con il diritto dell’Unione europea sono stati ampiamente illustrati da una buona parte della dottrina [6], tanto da rendere ancora più anomalo l’assordante silenzio delle istituzioni europee (soprattutto quello della Com­missione [7]). In tale contesto, la recente sentenza della Corte di giustizia nel caso Biffi [8] rappresenta una sicura novità nel panorama giurisprudenziale europeo dell’ultimo decennio; se a ciò si aggiunge i) il fatto che alcune delle questioni affrontate e risolte dalla Corte di giustizia erano già state sollevate in occasione della vicenda dei fratelli Agostini [9], abortita nel 1996 a seguito di un’ordinanza di irricevibilità del rinvio pregiudiziale formulato dal Tribunale di Namur (Belgio) e ii) che, dopo la sentenza Meca Medina e Majcen, la Corte di giustizia non è mai stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto europeo di una regola (un tempo qualificata come) puramente sportiva, non v’è dubbio che l’intervento della Corte di giustizia in esame rappresenta l’occa­sione ideale per ritornare su alcuni aspetti dei rapporti tra il diritto europeo ed il fenomeno sportivo tutt’ora poco esplorati e che sollevano delicate questioni tanto sul piano del diritto sportivo, quanto su quello della politica sportiva.


2. Il precedente Agostini

Come anticipato, le questioni pregiudiziali oggetto della pronuncia Biffi non si presentano del tutto nuove, in quanto già parzialmente analizzate a livello dottrinale in occasione del rinvio pregiudiziale disposto nel 2006 dal giudice belga nell’ambito della vicenda Agostini [10]. In quell’occasione, infatti, il problema della compatibilità con il diritto (allora) comunitario era stato sollevato sia in relazione alla regola, contenuta all’interno del regolamento della Federazione sportiva belga di judo, che vietava ad un atleta (professionista, semi-professionista o dilettante), cittadino di uno Stato membro dell’Unione, di partecipare a una competizione sportiva nazionale o internazionale per il solo motivo che l’interessato non era cittadino dello Stato membro sul cui territorio era organizzata la competizione, sia in relazione alla medesima regola, ma con riferimento ad una competizione sportiva destinata a designare il campione nazionale dello Stato membro interessato. Per quanto riguarda l’assoggettabilità al diritto dell’Unione europea delle attività sportive svolte a livello amatoriale (dilettantistico), la Corte di giustizia, pur non essendosi potuta pronunciare sul punto nella vicenda Agostini, è intervenuta nella di poco successiva sentenza Deliège [11] sottolineando due principi-chiave: a) in base alla giurisprudenza Walrave [12], Donà [13] e Bosman [14], l’attività sportiva in genere è disciplinata dal diritto europeo in quanto sia configurabile come attività economica ai sensi dell’art. 2 TCE (ora nella sostanza art. 3 TUE). Ne consegue, pertanto, che per stabilire se l’attività di un atleta costituisce un’attività economica ciò che conta non è la qualifica, del tutto formale, di professionista o dilettante, bensì il fatto che tale atleta svolga un lavoro subordinato o presti servizi dietro remunerazione: vale a dire, che l’atleta svolga un’attività reale ed effettiva, ossia non così insignificante e marginale da risultare accessoria, in cambio della quale percepisce una retribuzione che va oltre il semplice rimborso delle spese; b) la semplice circostanza che un’associazione o federazione sportiva qualifichi unilateralmente come dilettanti gli atleti che ne fanno parte non è di per sé tale da escludere [continua ..]


3. La vicenda Biffi

La sentenza Biffi presenta diversi aspetti di sicuro rilievo [17]. Da un lato, infatti, consente di riflettere, nello scenario venutosi a creare dopo il Trattato di Lisbona, sui presupposti dell’assoggettabilità al diritto dell’Unione europea dell’attività sportiva priva di rilevanza economica; dall’altro lato, fornisce l’occasione per ritornare sul tema del se, ed eventualmente attraverso quali misure, sia possibile riservare l’assegnazione del titolo di campione nazionale ai soli atleti cittadini dello Stato membro che organizza la relativa competizione. Il sig. Biffi è un cittadino italiano, residente in Germania da oltre quindici anni. Egli pratica a livello amatoriale l’attività sportiva della corsa (su distanze di 60, 100, 200 e 400 metri) nella categoria senior (oltre i 35 anni). Il sig. Biffi è membro della TopFit, un’associazione sportiva avente sede a Berlino regolarmente riconosciuta dalla Federazione di atletica leggera tedesca. Fino al 17 giugno 2016, il regolamento della Federazione tedesca di atletica leggera prevedeva che la partecipazione ai campionati nazionali tedeschi fosse aperta anche ai cittadini dell’Unione non aventi la cittadinanza tedesca se titolari, da almeno un anno, di un diritto di partecipazione a nome di un’as­so­ciazione sportiva tedesca. In seguito, la Federazione ha modificato detto regolamento abrogando la suddetta disposizione e riservando la partecipazione ai campionati nazionali soltanto ai cittadini nazionali. In via del tutto eccezionale, agli atleti stranieri titolari di un diritto di partecipazione, a nome di un’associazione sportiva tedesca o a nome di un’altra federazione nazionale, può essere riconosciuto il diritto di partecipare senza valutazione, previo ottenimento di un’autorizzazione a tal fine prima della data di chiusura delle iscrizioni all’evento sportivo in questione. Sollecitato dal sig. Biffi (escluso dalla partecipazione al campionato tedesco senior indoor nelle discipline 60, 200 e 400 metri ed ammesso alla partecipazione “senza valutazione” al campionato tedesco senior, nelle discipline 100, 200 e 400 metri), il giudice del rinvio ha ritenuto indispensabile interpellare la Corte di giustizia su due questioni di fondo: la prima riguarda la perdurante validità del principio secondo cui l’applicazione del diritto [continua ..]


4. Lo sport e il diritto dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona

La prima questione affrontata dalla Corte di giustizia riguarda la possibilità di invocare il diritto dell’Unione europea, e segnatamente gli artt. 18 e 21 TFUE, alla luce anche dell’art. 165 TFUE, nel contesto dell’esercizio di un’attività sportiva amatoriale e, quindi, priva delle caratteristiche tipiche di un’attività economica. A tale riguardo è interessante notare, per contro, che secondo l’Avvocato generale Tanchev la vicenda del sig. Biffi doveva essere considerata un normale caso relativo al diritto di stabilimento, stante la natura economica dell’attività svolta dal sig. Biffi. Preso atto, infatti, che quest’ultimo in Germania gestiva un’attività nell’ambito della quale forniva servizi come allenatore di atletica e personal trainer e che la possibilità di indicare il titolo di campione nazionale per la Germania poteva rappresentare un’aggiunta preziosa ed importante sul biglietto da visita del sig. Biffi, l’Avvocato Generale ha tratto la conclusione secondo cui il sig. Biffi non poteva essere considerato uno sportivo «dilettante» [18]. Pertanto, in linea con la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia secondo cui, in considerazione degli obiettivi dell’Unione europea, l’attività sportiva è disciplinata dal diritto dell’Unione soltanto in quanto sia configurabile come attività economica, l’Avvocato generale non ha avuto dubbi a ricollegare il caso Biffi a detta giurisprudenza, dato che le attività esercitate dal sig. Biffi erano reali ed effettive e non talmente ridotte da potersi definire puramente marginali o accessorie. Tale ricostruzione giuridica da parte dell’Avvocato generale si presenta decisamente curiosa e singolare, posto che un’attività sportiva chiaramente svolta a livello amatoriale e priva dei tratti caratteristici dell’attività economica viene nondimeno attratta alla sfera di applicazione delle norme di diritto europeo che disciplinano il diritto di stabilimento da parte dei lavoratori autonomi non già attraverso il richiamo alla teoria dei vantaggi sociali e dei diritti-corollari delle libertà riconosciute dai Trattati, bensì per il tramite di una qualifica dell’attività sportiva come attività economica per relationem all’attività principale svolta [continua ..]


5. Il diritto dell’Unione europea ed il titolo di campione nazionale in ambito sportivo

Da un punto di vista generale si può ragionevolmente ritenere che la previsione secondo cui il titolo di campione nazionale possa essere attribuita soltanto ad un atleta cittadino dello Stato membro sul cui territorio è organizzata la competizione sportiva ben può essere giustificata dall’obiettivo di assicurare che il campione nazionale abbia un nesso sufficientemente forte con lo Stato membro in questione pena, altrimenti, la vanificazione dello stesso concetto di campione sportivo nazionale. In altre parole, il campione tedesco di sci non può essere un cittadino francese per gli stessi motivi per cui un cittadino belga non può far parte della nazionale italiana di calcio: in entrambi i casi, infatti, verrebbe meno la stessa idea di campione nazionale e di rappresentativa nazionale. Anche tale linea di pensiero, tuttavia, nasconde profonde insidie. Se il titolo di campione nazionale (di uno sport individuale) deve essere riservato ad un cittadino nazionale, ci si potrebbe interrogare sul se la stessa regola non dovrebbe valere anche con riferimento agli sport di squadra. Altrimenti detto: la squadra di calcio vincitrice del titolo di campione d’Italia deve essere una squadra italiana? La risposta è semplice se si vuole sostenere che il Real Madrid non può partecipare e vincere il campionato italiano di calcio perché tale campionato è riservato alle squadre italiane appartenenti alla LNP (Lega Nazionale professionisti) della FIGC. Ma se ci si interroga su che cosa rende una squadra di calcio italiana piuttosto che spagnola, inglese, polacca o danese, il discorso inevitabilmente si complica. Bisogna guardare, cioè, alla sostanza sportiva (la nazionalità dei giocatori che compongono quella squadra) oppure alla sostanza giuridica (il soggetto proprietario della società sportiva) oppure ancora alla forma (il fatto che la società sportiva sia affiliata alla federazione italiana piuttosto che a quella spagnola)? Solo apparentemente questi esempi si presentano provocatori ed irriverenti: quale è, infatti, il senso di una regola che può escludere una società di calcio (tesserata per una Federazione) straniera dal partecipare ad un campionato nazionale, ma che allo stesso tempo consente che la società vincitrice di tale campionato sia una squadra composta prevalentemente o esclusivamente da cittadini stranieri (come nel caso [continua ..]


6. La sentenza Biffi ed il possibile impatto sul sistema sportivo italiano

Al netto delle varie considerazioni che possono essere svolte in relazione alla vicenda Biffi, è indubbio che la situazione specifica del sig. Biffi si presenta tutt’altro che anomala. In un contesto come quello europeo, nel quale tanto l’istituto della cittadinanza europea quanto quello della libera circolazione hanno inevitabilmente favorito lo spostamento di cittadini europei dallo Stato di origine verso altri Stati membri, soprattutto in ambito sportivo, risulta tutt’altro che insolito registrare la presenza negli ordinamenti sportivi dei singoli Stati membri di atleti stranieri. In tale contesto, la sentenza Biffi impone due distinte considerazioni. La prima riguarda specificamente la portata del principio di diritto statuito dalla Corte di giustizia che, come illustrato, ha ritenuto in contrasto con gli artt. 18, 21 e 165 TFUE la normativa di una Federazione sportiva nazionale che i) esclude totalmente gli atleti stranieri dalla partecipazione alle manifestazioni in cui si assegna il titolo di campione nazionale, oppure che ii), pur consentendo la partecipazione di atleti stranieri, preclude loro il conseguimento del titolo di campione nazionale, a meno che tale normativa possa essere giustificata sulla base di considerazioni oggettive e proporzionate. Da un punto di vista pratico, pertanto, risulta che l’onere di fornire la prova di ta­li «considerazioni oggettive e proporzionate» in grado di giustificare una simile disciplina grava interamente sulla Federazione sportiva che le invoca e che in assenza di tale prova, la disciplina deve ritenersi in contrasto con il diritto europeo. La seconda, per contro, riguarda il possibile impatto che tale pronuncia può avere sui vari sistemi sportivi nazionali e, in particolare, su quello italiano. Clausole come quelle oggetto di scrutinio da parte della Corte di giustizia nella vicenda Biffi, infatti, si presentano alquanto diffuse. Come rilevato dallo stesso Avvocato generale Tanchev, ancorché in relazione soltanto alla disciplina dell’atletica leggera, gli ordinamenti spor­tivi di Francia, Belgio, Spagna e Danimarca escludono che un atleta straniero possa conseguire il titolo di campione nazionale. Inoltre, anche l’assegnazione di un record nazionale ad atleti stranieri risulta preclusa in Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Slovenia e Svezia, mentre Danimarca, Francia, Spagna e Slovenia precludono agli atleti stranieri [continua ..]


7. Riflessioni di sintesi

La sentenza Biffi esemplifica chiaramente la rilevante complessità del fenomeno sportivo allorché si cerchi di inquadrarlo negli schemi dogmatici tipici del diritto del­l’Unione europea. Non v’è dubbio, inoltre, che dopo la sentenza Meca Medina e Majcen tale complessità si manifesti in modo ancor più dirompente, giacché l’effetto ultimo di tale pronuncia, come illustrato in altra sede [40], è stato quello di estromettere dall’ordinamento giuridico europeo il concetto di regole puramente sportive e, quindi, la stessa idea di specificità dello sport. Prima di Meca Medina e Majcen, infatti, nessuno si era mai domandato se l’esclusione totale dei cittadini stranieri dalla composizione delle squadre nazionali dei singoli Stati membri fosse proporzionata all’obiettivo perseguito, argomentando, ad esempio, che se la nazionale di calcio italiana fosse composta per 10/11 da cittadini italiani e soltanto per 1/11 da un cittadino straniero, ciò non inficierebbe il carattere “nazionale” della rappresentativa in questione. Analogamente, se la competizione è finalizzata ad individuare il campione nazionale di una data disciplina sportiva, sembrerebbe logico ritenere che tutti coloro che vi partecipano debbano essere cittadini nazionali con esclusione totale degli stranieri, senza doversi interrogare se una partecipazione dei cittadini stranieri senza l’assegnazione dell’eventuale titolo possa essere considerata una misura più proporzionata rispetto all’esclusione totale. Sono le caratteristiche specifiche dello sport, e la finalità perseguita dalla regola in questione, infatti, a suggerire una tale soluzione logica, prima ancora che giuridica. Per contro, una volta negata qualsiasi rilevanza alla nozione di regole puramente sportive, tutto diventa possibile sino al punto di prevedere, nel nome di un’acritica trasposizione del principio di proporzionalità (che, però, mal si adatta al fenomeno sportivo), soluzioni certamente praticabili, ma che sembrano andare contro lo spirito stesso dello sport. Il carattere controintuitivo delle soluzioni prospettate nella sentenza Biffi, d’altra parte, emerge in tutta la sua drammaticità se solo si considera che, anche con riferimento alle regole (un tempo c.d.) puramente sportive, la Corte di giustizia, da sempre, aveva sottolineato, a [continua ..]


NOTE