Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Evoluzione del turismo invernale: la pratica dello scialpinismo e del fuoripista tra illusioni e preconcetti (di Giorgio Daidola, Professore a contratto di Analisi economico finanziaria per le imprese turistiche presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli studi di Trento.)


Modern skiing, including ski mountaineering, has forgotten its origins, has become a sport detached from the environment. The serious accidents both on the slopes and as a consequence of avalanche phenomena that also involve so-called expert skiers and mountain guides are the consequence. Through a reflection on the great skiers of the past and on the different phases of winter tourism development, the Author proposes a way of experiencing skiing that is less dangerous and more aware

SOMMARIO:

1. La nascita del turismo invernale - 2. Lo scialpinismo ieri e oggi - 3. I grandi sciatori di montagna - 4. Alcuni incidenti da valanghe degli ultimi anni [19] - 5. Il mese delle valanghe e le illusioni di sicurezza - 6. Alcuni suggerimenti - 7. Il futuro dello sci e del turismo invernale - NOTE


1. La nascita del turismo invernale

La nascita del turismo invernale si fa risalire al 1864, quando Johannes Badrutt, un albergatore visionario di Saint Moritz fece ai suoi ospiti inglesi una proposta rivoluzionaria: venire a provare una vacanza in Engadina in pieno inverno. Soddisfatti o rimborsati! Il successo fu strepitoso. Così nacquero, più di 150 anni fa, gli sport invernali. Si svilupparono nell’ordine lo slittino, il pattinaggio, l’hockey, il curling e infine lo sci, sport importato dalla Norvegia che ebbe un successo talmente grande da diventare l’asse portante del neonato turismo invernale. Si trattava di uno sci senza impianti di risalita: le montagne prima si salivano e poi si scendevano con gli sci. Si trattava in embrione di quello che oggi viene chiamato scialpinismo o, meglio, sci di montagna. Anche nelle prime gare di sci di discesa, come il prestigioso Roberts of Kandahar, i concorrenti raggiungevano il punto di partenza a piedi. La prima gara di slalom, un’in­venzione di Arnold Lunn [1] ebbe luogo a Murren nel 1922, l’inaugurazione del primo skilift a Davos nel 1934 e il debutto delle gare di discesa alle Olimpiadi a Garmish-Partenkirchen nel 1936: ebbe così inizio la progressiva separazione fra sci di discesa e scialpinismo [2].


2. Lo scialpinismo ieri e oggi

Ma cosa si intende esattamente per scialpinismo? Si tratta di sci in montagna oppure di sci e montagna? si chiedeva Philippe Traynard, una delle massime espressioni del forte sviluppo dello scialpinismo “classico” negli anni ottanta, nonché Rettore per molti anni del Politecnico di Grenoble [3]. La risposta è ovvia ma non per questo meno importante: scialpinismo significa sci e montagna. Dobbiamo però chiederci se oggi, a distanza di oltre quarant’anni, è ancora così. Dopo la cosiddetta età d’oro dello sci, iniziata nel dopoguerra e durata fino agli anni settanta, in cui le differenze fra sci da discesa e scialpinismo erano molto sfumate, spesso inesistenti, negli anni successivi esse si sono fatte via via più consistenti. Per rendere più sicuro e più accessibile alle masse cittadine lo sci da discesa, si è fatto di tutto, ad iniziare dagli anni ottanta, per eliminare i rischi, le difficoltà, le privazioni che sono proprie della frequentazione della montagna, fino ad annullare i significati più profondi dell’esperienza alpina, sostituendo le emozioni autentiche con le emozioni artificiali proprie dei lunapark bianchi [4]. Lo sci di massa, prodotto tipico del grande sviluppo del turismo invernale, ha oggi per terreno di gioco le levigate piste autostrade di compatta neve artificiale, messe in sicurezza in un modo quasi ossessivo, per evitare ogni responsabilità in caso di incidente: è lo sci in montagna nella sua espressione più completa. Si tratta di uno sci in cui ai rischi tipici della montagna si sono sostituiti altri rischi, derivanti dalla sempre maggior velocità che esso permette, su piste spesso sovraffollate. Paradossalmente l’ossessione della sicurezza ha prodotto uno sci obiettivamente pericoloso, come dimostrano i gravi incidenti sulle piste, che si ripetono ogni inverno. Si tratta insomma di uno sci che può avere ancora un senso dal punto di vista tecnico-agonistico, mentre da quello ludico attrae sempre di meno: di qui il gran numero di sciatori da pista che, per reazione, scoprono lo scialpinismo, lo sci fuori pista, il freeride più o meno estremo. Questi nuovi adepti sono spesso atleticamente e tecnicamente ben preparati ma, considerata la loro provenienza, mancano di esperienza di montagna e di sensibilità alla vera neve. Per una parte di loro questo non [continua ..]


3. I grandi sciatori di montagna

La pubblicazione nel 1890 del libro di Fridtjof Nansen sulla traversata della Groenlandia ha un’importanza fondamentale per lo sviluppo dello scialpinismo sulle Alpi [7]. Nel 1894 Conan Doyle, il padre di Sherlok Holmes, effettua con i fratelli Branger la non banale traversata Davos-Arosa e la descrive in un gustoso articolo sullo Strand Magazine [8]. Si tratta di una delle prime traversate a quote medie destinate a fare storia. Nel 1897 Wilhelm Paulcke effettua con quattro amici la prima traversata del massiccio dell’Oberland Bernese. È la prima traversata di più giorni a quote glaciali e Paulcke, grande ammiratore di Nansen, si rende subito conto del maggior potenziale che hanno gli sci rispetto alle racchette da neve per lo sviluppo del turismo invernale sulle Alpi [9]. Negli anni successivi altri grandi sciatori di montagna sviluppano questo nuovo modo di vivere l’alpinismo invernale: dai padri nobili come Marcel Kurz [10] e Arnold Lunn [11], ai fuoriclasse come Paul Preuss [12] e Ettore Castiglioni [13] per arrivare ai grandi esploratori degli spazi bianchi come Leone Zwinglestein [14] e Piero Ghiglione [15]. Tutti questi scialpinisti utilizzavano un’attrezzatura e una tecnica molto meno performanti di quelle attuali e non erano ovviamente dotati di apparecchiature elettroniche per garantire idonei interventi di soccorso in caso di incidenti causati da valanghe. Allora non esistevano i bollettini e altri sofisticati sistemi per valutare le probabilità di stacco. Questo non significa che fossero incuranti dei rischi di slavine e valanghe, lo erano anzi molto di più degli scialpinisti di oggi, spesso caratterizzati da un rapporto superficiale e poco rispettoso nei confronti del territorio. Ne sono un esempio gli studi che il sopra citato Paulcke, che era anche professore di geologia e Rettore dell’Università di Karlsruhe, pubblicò sui fenomeni valanghivi [16]. Egli aveva capito che le valanghe sono meravigliosi fenomeni naturali che solo l’espe­rienza, l’osservazione attenta e l’intuito possono prevedere. Gli fece eco molti anni dopo, negli anni Ottanta, l’alpinista svizzero André Roch, studioso delle valanghe e membro dell’ICAR (International Commission for Alpine Rescue) dichiarando che in caso di dubbio in merito alla tenuta di un pendio, si sarebbe fidato di più della sua [continua ..]


4. Alcuni incidenti da valanghe degli ultimi anni [19]

Simona Hosquet, guida alpina valdostana di 30 anni e azzurra di fondo perse la vita sotto una valanga il 14 febbraio 2007. Accompagnava due clienti stranieri in una discesa in Valtournanche che presentava un modesto rischio 2 in base al bollettino delle valanghe. Oltre all’Arva era dotata di Airbag nello zaino ma non fece in tempo ad aprirlo. Adriano Trombetta, guida alpina piemontese di 38 anni perse la vita insieme alla maestra di sci Margherita Beria di 24 anni e ad Antonio Lovato di 28 anni nel canalino dello Chaberton in Alta Val di Susa, il 17 febbraio 2017, per il provocato distacco, a metà discesa, di una placca dovuta ad un accumulo causato dal vento. Graeme Porteous, banchiere inglese di 48 anni perse la vita l’8 febbraio 2015 in un classico fuori pista nei meravigliosi boschi di larici di Argentera nelle Alpi Marittime: era accompagnato dalle guide alpine francesi Matthieu Desprat e Bruno Roche, che furono condannati per omicidio colposo, in quanto il bollettino indicava un alto rischio di valanghe che però loro avevano pensato fosse minimo sciando nel bosco. Da notare che Graeme azionò prontamente l’air bag e proprio per questo motivo finì violentemente contro l’albero che ne causò il decesso. Sono questi solo alcuni esempi di incidenti mortali dell’ultimo decennio che hanno interessato professionisti della montagna. Essi si sono verificati tutti in pieno inverno, in febbraio, quando il manto nevoso è particolarmente instabile, soprattutto a causa del vento che crea cornici e placche, con i classici cedimenti che provocano le valanghe a lastroni e, nel caso di molta neve fresca, le pericolosissime valanghe di neve polverosa. Da notare che anche inverni poco nevosi e molto freddi sono tutt’altro che sicuri. Con il metamorfismo costruttivo della poca neve e le basse temperature dell’aria si creano infatti nel manto nevoso sottili strati fragili a scarsa coesione che sovraccaricati possono provocare valanghe: non è quindi vero che quando fa molto freddo, nei canaloni all’ombra, i rischi sono bassi o inesistenti.


5. Il mese delle valanghe e le illusioni di sicurezza

Ogni inverno i quotidiani riportano, soprattutto nel mese di febbraio, mese critico anche secondo le statistiche della CISA-ICAR (Commissione Internazionale Soccorso Alpino – International Commission for Alpine Rescue) un gran numero di incidenti causati da slavine e valanghe sulle Alpi. I commenti che si levano di fronte a tali incidenti vanno dal celebre «valanga assassina» alla necessità di prevenirli attraverso un maggior regolamentazione, ossia attraverso divieti di vario tipo. Ma, a tale riguardo, non va dimenticato che la regolamentazione ha come effetto principale un aumento del piacere della trasgressione, soprattutto da parte dei giovani freerider. Inoltre sarebbe un errore «normare» attività come lo scialpinismo che, come l’alpinismo, sono modi di vivere la montagna per loro natura rischiosi. Pretendere di eliminare il rischio insito in queste attività equivale a snaturarle del tutto. C’è anche chi, andando contro l’evidenza, pensa che i rischi vengano meno grazie all’uso di gadget tecnologici sempre più sofisticati, dagli Arva dell’ultima generazione agli Air bag. Gli esempi riportati dimostrano che questi gadget non limitano il numero di incidenti ma semmai il numero di vittime. Inoltre non viene quasi mai considerato che essi possono essere la causa di molti incidenti per la falsa sensazione di sicurezza che determinano, facendo scattare la trappola psicologica di sentirsi protetti e padroni della situazione. È chiaro che non è così. Sarebbe invece possibile ridurre gli incidenti con una corretta lettura dei bollettini valanghe, bollettini che hanno raggiunto un buon grado di affidabilità. E anche consultando le CLPV, le Carte Localizzazione Probabile Valanghe dell’Aineva: è infatti rarissimo che una valanga cada dove non è mai caduta prima: consultando queste carte è quindi possibile scegliere gli itinerari più sicuri. Si può anche applicare il metodo Munter, basato sul calcolo delle probabilità di incidente: il limite del rischio ragionevole è l’LM2, ossia un tasso di mortalità pari a 1 ogni 50.000 giornate di scialpinismo. Tale tasso viene determinato in base alla pendenza, all’esposizione, al grado di frequentazione, alla presenza di sovraccarichi di neve su di un certo pendio [20]. Tutti questi metodi, insieme ai gadget di cui si [continua ..]


6. Alcuni suggerimenti

Se è vero che la prevenzione degli incidenti da valanghe non può basarsi sulla regolamentazione, sui divieti, sui gadget personali e che i bollettini valanghe e la scala di Munter spesso non vengono presi in considerazione adeguatamente, che cosa dunque si può fare per limitare al minimo gli incidenti? Ecco alcuni suggerimenti personali, derivati dall’esperienza di oltre cinquanta anni di scialpinismo, riflessioni su comportamenti virtuosi degli sciatori del passato e su quelli decisamente meno virtuosi di molti sciatori del presente. 1) Secondo il già citato Arnold Lunn, sciatore alpinista eccelso e al tempo stesso inventore sia dello slalom che del prestigioso Alberg Kandahar, la grande stagione dello sci non è l’inverno ma la primavera, quando la neve è più assestata e trasformata e il rischio di valanghe risulta molto ridotto [22]. In tarda primavera, quando la neve è trasformata in quota, se si parte presto la mattina, dopo una notte fredda e senza nubi, i rischi di valanghe sono praticamente inesistenti, anche sui pendii più ripidi. Le valanghe primaverili sono infatti quelle lente di pesante neve bagnata: molto pericolose ma facilmente evitabili se si concludono le gite prima delle ore calde del pomeriggio, oppure se si rinuncia dopo notti nuvolose, durante le quali la neve non rigela. La maggiore sicurezza del firn primaverile rispetto alla neve invernale viene spiegata non solo da Arnold Lunn, ma anche da Marcel Kurz, nel già citato volume «Alpinismo Invernale», che rimane il Vangelo di ogni vero sciatore di montagna [23]. Si tratta purtroppo di opere sconosciute sia alla maggior parte dei moderni scialpinisti che agli attuali operatori del turismo invernale, che spesso ignorano le differenze fra l’inverno alpino e quello di calendario. 2) La prevenzione degli incidenti da valanga nella pratica dello scialpinismo e del fuori pista cozza spesso contro gli interessi commerciali di produttori di attrezzature che basano il loro business sugli impatti mediatici di folli discese adrenaliniche, promuovendole e sponsorizzandole. La compiaciuta messa in rete di filmati o la pubblicazione di fotografie relative a performance esibizionistiche da far rizzare i capelli, sono delle istigazioni al suicidio sia per chi per vivere è indotto a compierle che per chi le vede. Aziende come, ad esempio, The North Face, sponsor di molti film sulla [continua ..]


7. Il futuro dello sci e del turismo invernale

Lo scialpinismo, il fuoripista, il freeride a tutti i livelli e le gite con le ciaspole rappresenteranno sempre di più degli elementi insostituibili nel quadro dell’offerta turistica delle regioni alpine. Osteggiarli, snaturarli attraverso divieti e campagne denigratorie sarebbe un gravissimo errore. Si tratta piuttosto di riflettere sui suggerimenti di cui sopra e di ritornare a un rapporto più rispettoso e attento fra uomo e territorio, dando spazio nelle decisioni all’in­tuito e all’esperienza. Questo è possibile rimettendosi sulle affascinanti tracce degli sciatori del passato, evitando gli esibizionismi sempre più frequenti e limitando l’over­confidence. Soprattutto occorre evitare gli itinerari adrenalinici in neve polverosa appena caduta. Accontentarsi di itinerari facili e sicuri quando i rischi di valanghe sono moderati non è una pratica di cui vergognarsi. Bisogna saper rinunciare quando si nutrono dei dubbi circa la sicurezza di un pendio. Non bisogna lasciarsi influenzare dalle belle tracce che si notano sempre di più su pendii ripidi e obiettivamente pericolosi: sono in genere lasciate da sciatori tanto bravi quanto incoscienti. Non bisogna insomma mai dimenticare che la valanga assassina dovuta alla sfortuna è l’eccezione alla regola. Gli incidenti da valanghe sono quasi sempre la conseguenza di errori umani. «Sciatore esperto, stai attento, la valanga non sa che tu sei esperto», usava dire il grande alpinista svizzero André Roch.


NOTE