Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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“Febbre da cavallo”. Quel che resta delle scommesse sportive ex art. 1934 c.c. (di Maria Pia Pignalosa, Professore associato di Diritto privato nell'Università degli Studi di Roma “Foro Italico”)


Il tema di indagine concerne la riflessione sulle scommesse che caratterizzano il mondo dell’ip­pica, comparto complesso che merita di essere ripensato alla luce dell’evoluzione sociale e normativa che si è compiuta nell’ultimo decennio. L’attenzione è focalizzata sui giochi e le scommesse regolati dagli artt. 1934 e 1935 c.c., con l’obiettivo di verificare cosa resti, e se resti ancora qualcosa, delle scommesse sportive, così come erano state pensate dal legislatore del 1942 (e prima ancora nelle legislazioni che hanno ispirato il nostro codice) e quanta incidenza abbia avuto l’inarrestabile ascesa delle scommesse autorizzate nel trasformare l’istituto in esame.

“Horse fever”. What remains of sports betting under art. 1934 c.c.

The theme of the survey concerns the reflection on the bets that characterize the world of horse racing, a complex sector that deserves to be rethought in the light of the social and regulatory evolution that has taken place in the last decade. The focus is on the games and betting regulated by the arts. 1934 and 1935 c.c., with the aim of verifying what remains, and if something remains, of sports betting, as had been thought by the legislator of 1942 (and before that in the legislations that inspired our code) and how much has had the unstoppable rise of authorized bets in transforming the institution in question.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. I giochi e le scommesse tra diritto e morale - 3. Il gioco e la scommessa nel codice del 1942 - 4. L’evoluzione normativa dei giochi e delle scommesse: la crisi del primato della legge - 5. Il gioco e la scommessa. Il c.d. nodo definitorio - 6. Gioco, gara, gioco interessato e scommessa: l’ordine del gioco - 7. Frode sportiva e scommessa - 8. Fenomeno sportivo e fonti private - 9. Dalla tutela ex post alla tutela ex ante: la tacita abrogazione dell’art. 1934, comma 2, c.c. - NOTE


1. Introduzione

La scelta del tema di indagine è ispirata da una passione del nostro Onorato: i cavalli da corsa (tant’è che da ultimo aveva avviato un allevamento di trottatori) e il mondo variopinto dell’ippica che vi gira intorno; sì che una riflessione sulle scommesse che caratterizzano questo ambiente è, già di per sé, un omaggio a lui.

E il tema si rivela quanto mai stimolante in quanto si tratta di un istituto complesso, troppe volte trascurato dagli interpreti, che merita invece di essere ripensato alla luce dell’evoluzione sociale e normativa che si è compiuta nell’ultimo decennio. Una evoluzione che, come si proverà ad illustrare, ci consegna un istituto molto diverso da quello regolato dal codice del 1942, ponendoci dinanzi ad un primo interrogativo: cosa resta delle regole prescritte dall’art. 1934 c.c.? E prima ancora: cosa resta della patetica figura del giocatore c.d. passionale, vittima della pulsione del gioco, che ha occupato tante pagine della letteratura? È forse giunto il tempo di ripensare lo scommettitore comune come un soggetto anch’esso razionale?

È noto che il tema dei giochi e delle scommesse è quanto mai sfuggente per l’in­terprete. Questa inafferrabilità discende dalla complessità [1] del fenomeno, una complessità che concerne molteplici aspetti e si articola su più livelli. Anzitutto il nodo definitorio [2] o, se si vuole, concettuale; un aspetto sul quale si è fin troppo indugiato; tuttavia, in questa sede si tornerà in quanto si tratta di un aspetto strumentale e propedeutico alla nostra indagine. È noto poi come la complessità sia stata alimentata anche e soprattutto dalla commistione dei profili giuridici con quelli sociologici, psicologici e persino morali, nonché dalla circostanza per la quale il tema è stato vittima di una certa diffidenza da parte degli studiosi del diritto, e specialmente del diritto privato. Secondo una risalente e diffusa opinione, che ha condizionato a lungo lo studio del tema in esame, il diritto non dovrebbe interessarsi al gioco, in quanto si tratterebbe di un’attività esercitata per diletto, svago o distrazione e quindi caratterizzata dalla inutilità economica [3].

La complessità del tema coinvolge anche il profilo delle fonti, che non si esaurisce nella scarna e laconica disciplina contenuta nel codice civile (artt. 1933-1935 c.c.) e in quello penale (artt. 718-723 c.p.), ma si articola in una abbondante e disordinata legislazione speciale e in una assai ricca normativa regolatoria che ne rende assai difficoltosa la ricostruzione, potendosi a ragione parlare, usando il lessico della postmodernità novecentesca [4], di una disciplina multilivello, per la quale si auspica già da tempo la raccolta in un testo unico [5]; anche nell’intento di alleviare ‒ per riprendere le parole di Irti ‒ «la stanchezza di obbedire a regole mutevoli e oscure» e sempre più frantumate e dissipate «in rami speciali e periferici» del diritto [6].

La complessità è data anche e soprattutto dal fenomeno stesso che stiamo indagando, dall’enorme numero di giochi offerti dal mercato, ma prima ancora dalla circostanza che, in mancanza di una definizione legislativa, si pone anzitutto la necessità di definire, sia pur a livello stipulativo, il gioco e la scommessa. Non può revocarsi in dubbio che non esista un concetto giuridico di gioco da contrapporre ad uno di scommessa; piuttosto sembrerebbe che, nella scelta di non definire gli istituti, il legislatore li abbia intesi nel loro uso corrente [7]. Ma la polisemia del termine gioco, la contaminazione che lo stesso termine ha assunto nel linguaggio comune [8], e le molteplici sfaccettature che lo stesso può assumere, rendono lo sforzo definitorio [9] ancor più complesso. Per comprendere la poliedricità del fenomeno basta già riflettere sulla circostanza che il termine gioco vanta una notevole ricchezza semantica, capace di evocare una pluralità di tipi insuscettibili di essere ridotti ad unità [10]. A ragione si è osservato come questa complessità del gioco, se, da un lato, interessa il giurista, per altri aspetti lo lascia indifferente [11]. L’interprete dovrebbe, infatti, svolgere lo studio sul terreno del diritto positivo, senza indulgere in considerazioni sociologiche [12], filosofiche o morali [13], cercando di lasciare sullo sfondo le suggestioni sollecitate da altre scienze [14]. Si tratta dunque di un fenomeno plurale e questa pluralità è al tempo stesso la cifra e la chiave di lettura dalla quale occorre muovere per essere fedeli al dato positivo e alla realtà del fenomeno che stiamo indagando. Questa pluralità si riflette nella nota tripartizione consegnataci dalla tradizione che è solita distinguere, all’interno della categoria, i c.d. giochi proibiti, i giochi tollerati e i giochi autorizzati, anche denominati giochi pubblici o giochi organizzati. Si tratta di una tripartizione pacifica e consolidata che, tuttavia, necessita di una precisazione concettuale. Per il diritto civile non vi sono giochi vietati e giochi non vietati. L’unica distinzione ammissibile, in virtù degli artt. 1933 ss. c.c., è tra debito munito di azione e debito non munito di azione [15]. E, d’altra parte, anche dalla lettura del codice penale e del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza non si evince alcuna disciplina che vieti il gioco d’azzardo in quanto tale. Piuttosto, ciò che emerge dalla legislazione penale è il divieto per i privati di organizzare il gioco d’azzardo e di favorirne la diffusione in un luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 718 c.p.), nell’intento di tutelare la sicurezza e l’ordine pubblico in presenza di attività che si prestano a favorire l’habitat ad attività criminali [16].

Da tempo si è rilevato [17] come le figure tradizionali delle scommesse e dei giochi tra privati, l’obbligazione naturale e l’effetto della soluti retentio ‒ che costituiscono i temi intorno ai quali la dottrina ha a lungo e appassionatamente dibattuto ‒ hanno perduto molto della loro centralità, stante l’inarrestabile ascesa ed espansione delle scommesse e dei giochi autorizzati, che relegano le scommesse e i giochi tra privati a ipotesi del tutto marginali. Anche più di recente si è osservato come la gran parte degli studi dedicati all’argomento muovano dalla fattispecie delle scommesse e dei giochi meramente tollerati e, in quanto tali, non muniti di azione, assegnando il ruolo di regola cardine dell’intera materia alla denegatio actionis dettata dall’art. 1933 c.c., che sarebbe pensata come regola generale rispetto alla quale si configurerebbero come mere eccezioni le ben più numerose ipotesi di scommesse e giochi tutelati [18]. Una prospettiva, questa, che risente delle influenze della tradizione romanistica che si è tramandata nelle codificazioni successive. Nell’intento di comprendere quanto sia radicata la diffidenza verso la materia in esame, e quanto i pregiudizi morali [19] abbiano inciso sulla disciplina del gioco, nei primi paragrafi di questa ricerca, sia pur in estrema sintesi, ripercorreremo, in una prospettiva storico-comparativa, le diverse scelte compiute in materia nelle varie epoche storiche, muovendo dal diritto romano e risalendo alle codificazioni successive; e ciò nell’intento di cogliere, in una prospettiva diacronica, alcuni aspetti dell’istituto e alcuni corsi e ricorsi legislativi nella convinzione della bontà di un metodo di analisi che non si fermi ad osservare il presente.

La complessità e i molteplici aspetti suscettibili di essere indagati impongono la scelta di un angolo selettivo di analisi. In questa ricerca l’attenzione sarà focalizzata sui giochi e le scommesse regolati dagli artt. 1934 e 1935 c.c., con l’obiettivo di verificare: cosa resti, e se resti ancora qualcosa, delle scommesse sportive, così come erano state pensate dal legislatore del 1942 (e prima ancora nelle legislazioni che hanno ispirato il nostro codice) e quanta incidenza abbia avuto l’inarrestabile ascesa delle scommesse autorizzate nel trasformare l’istituto in esame; anticipando sin d’ora che l’impressione che si ricava è quella di una scommessa sportiva fagocitata dalle logiche e dalle regole delle scommesse autorizzate.


2. I giochi e le scommesse tra diritto e morale

Come si è anticipato, la disciplina dei giochi e delle scommesse è storicamente influenzata da una profonda diffidenza verso il fenomeno ludico, pensato come un fatto naturale, prima ancora che giuridico, capace di vulnerare il soggetto dall’azione e dal fare socialmente ed economicamente utile e in quanto tale idoneo a infrangere l’ideale dell’homo faber fortunae suae [20].

L’atteggiamento di diffidenza, se non di riprovazione, è stato alimentato anche dall’influenza di fattori extragiuridici, come i giudizi di moralità che hanno a lungo condizionato gli interpreti e, prima ancora, il legislatore nel regolare i giochi d’az­zardo. Più in generale, può osservarsi che l’atteggiamento del legislatore sia stato connotato in alcune epoche storiche dalla ricerca di soluzioni di compromesso, consentendo solo alcune limitate forme di gioco, in altre da oscillazioni tra misure fortemente restrittive e previsioni più marcatamente liberali.

Per comprendere quanto sia radicato il pregiudizio verso i giochi basti ricordare che già il diritto romano puniva sia civilmente sia penalmente i giocatori d’azzardo, condannandoli, in un primo tempo, in quadruplum, successivamente al simplum della vincita ottenuta. Ad essere leciti, in quanto socialmente utili, erano i soli giochi che richiedevano abilità fisiche nonché le scommesse legate alle gare agonistiche [21].

Quanto alle scommesse sembrerebbe, secondo la ricostruzione di un controverso passo di Marciano [22], che non fosse riconosciuta in generale l’esigibilità delle vincite frutto di scommesse ma, in forza delle leggi «Titia et Publicia et Cornelia», era accordata azione solo per quelle aventi ad oggetto i giochi del c.d. quintertium, purché la scommessa avesse la forma della sponsio [23].

Dall’esame dei frammenti [24] che ci giungono dalla tradizione, l’impressione che gli interpreti ricavano è che il diritto romano abbia avuto cura di salvaguardare il prestigio indiscusso di alcuni giochi praticati virtutis causa, e dunque reputati socialmente utili, ma abbia principalmente cercato soluzioni di natura penale e pubblica per scongiurare il diffondersi di pratiche reputate turpi [25].

L’incidenza di fattori extragiuridici in un contesto permeato dal cristianesimo emerge con evidenza dalla evoluzione della disciplina del gioco e della scommessa nel periodo del Medioevo. Sotto l’influenza della teologia cattolica, che sosteneva l’im­moralità dei giochi e delle scommesse, i giuristi del basso medioevo adottarono un atteggiamento sempre più rigoroso e repressivo. Invero, se durante l’alto medioevo i debiti di gioco erano considerati presso gli antichi germani sempre pienamente azionabili, nel basso medioevo le autorità comunali promossero azioni coercitive nei confronti delle attività d’azzardo, che erano consentite solo entro determinati spazi autorizzati, come le pubbliche piazze, e in occasione delle feste patronali nonché delle feste religiose [26]. Interessa osservare che in questo contesto storico fu scardinata la dicotomia pecunia/virtus che informava il diritto romano a favore della tripartizione: giochi di abilità, giochi di fortuna e giochi misti e, al contempo, si assegnò rilevanza al contesto nel quale si svolgevano i giochi che erano consentiti purché esercitati in luoghi autorizzati.

Occorre attendere il 1700 per superare la generalizzata ostilità nei confronti dei giochi e delle scommesse, nonché i condizionamenti morali che a lungo ne hanno informato la disciplina. Grazie alle opere dei noti giuristi francesi Jean Barbeyrac e Robert Joseph Pothier si promuove un rinnovamento culturale che troverà nel Code civil del 1804 il suo riconoscimento sistematico. Nel 1709, Barbeyrac pubblicò il suo Traité du jeu [27] nel quale il gioco è considerato un vero e proprio contratto, e in quanto tale richiedeva il rispetto dei requisiti di liberté, egalité, fidelité. Al giurista francese deve riconoscersi il merito di aver affrancato il gioco dagli atavici pregiudizi morali, potendo intendersi il gioco, a suo giudizio, come una sana e necessaria attività ricreativa.

Dal canto suo, anche Pothier adotta un approccio tecnico e poco incline a raccogliere dibattiti etici e morali e, sin dall’esordio della sua opera, chiarisce che i contratti di gioco e scommessa, al pari di quelli di assicurazione, sono contratti aleatori che il giurista considera una categoria autonoma, insieme a quelli sinallagmatici e a quelli onerosi [28]. L’autore inquadra le pratiche ludiche all’interno del contesto dei contratti aleatori, subordinandone la validità alla capacità di disporre della somma puntata, alla manifestazione di un consenso non viziato, nonché all’uguaglianza delle prestazioni e alla lealtà [29].

Com’è noto, le idee dei giuristi francesi trovarono un riconoscimento positivo nel codice napoleonico, nel quale fu affermata la loro natura contrattuale. Il codice dedicò ai contratti in esame tre articoli, il primo dei quali, l’art. 1965, sanciva la regola per la quale la legge non accorda alcuna azione per i debiti di gioco e di scommessa, prevedendo, tuttavia, all’art. 1966 una serie di giochi per i quali era invece consentito al vincitore di agire contro il perdente, riconoscendo al giudice solo il potere di respingere la domanda quando l’ammontare della posta fosse eccessivo [30].

Il Codice civile italiano del 1865, ampiamente ispirato al codice francese, ribadisce la regola sancita dall’art. 1802 che prevede che la legge non accorda azione per il pagamento di un debito di gioco o di scommessa. Dalla regola sono eccettuati, ai sensi dell’art. 1803, i giochi che contribuiscono all’esercizio del corpo come quelli che addestrano al maneggio delle armi, alle corse e altri di tal natura. E, infine, ai sensi del­l’art. 1804, si nega il potere di ripetere quanto volontariamente pagato purché non vi sia stata frode o dolo da parte del vincitore e il perdente non sia minore, interdetto o inabilitato. Nel codice del ’65 non trova ancora spazio la disciplina del lotto e delle lotterie autorizzate dallo Stato; occorre attendere il 1895, quando il legislatore sancì espressamente, in favore del lotto pubblico, la deroga agli artt. 1802-1804, accogliendo le istanze di quanti ne evidenziavano i notevoli interessi economici legati alla competizione [31].

Ai fini della nostra indagine è quanto mai interessante, in una prospettiva storico comparativa, l’esperienza tedesca in quanto nella Germania del 1900 si scelse una logica diversa da quella francese e italiana e, per quanto più direttamente ci occupa [32], si ruppe il legame tra tutela dei giochi che richiedono impegno fisico e interessi della società, assegnando un ruolo centrale all’autorizzazione [33]. Si riconobbe così piena tutela giuridica alle lotterie e alle estrazioni purché autorizzate dallo Stato [34].


3. Il gioco e la scommessa nel codice del 1942

Il codice del ’42, nel regolare il fenomeno in esame, sembra adottare una soluzione di compromesso. Se, da un lato, accoglie le scelte della tradizione romanistica, assegnando piena tutela ai giochi e alle scommesse praticati virtutis causae (ex art. 1934 c.c.), dall’altro, sembra raccogliere anche il precedente tedesco, ricorrendo all’autoriz­zazione che funge da filtro per il controllo del fenomeno, al quale riconosce piena tutela purché autorizzato dallo Stato (ex art. 1935 c.c.). E nella realtà del ’42 la lotteria era l’unico gioco pubblico di larga fruizione.

Nella impostazione produttivistica che informa il codice del ’42, i giochi e le scommesse sono ancora pensati dal legislatore come inutili sia per lo sviluppo dell’e­conomia sia per il progresso materiale della società. A dominare le scelte politiche è ancora l’idea tralatizia secondo la quale i giochi e le scommesse avrebbero una rilevanza sociale ed economica contenuta, costituendo un fenomeno eccentrico rispetto alle ordinarie regole di circolazione della ricchezza, espressivo di interessi che non superano il confine di una questione privata e, in quanto tali, insuscettibili di proiettarsi nel mercato e, a fronte dei quali, non è parso opportuno attivare il costoso ingranaggio coercitivo, assegnando così il ruolo di regola all’art. 1933 c.c. [35].

Tuttavia, la realtà economica e sociale, e la conseguente evoluzione normativa, testimoniano una vastissima diffusione delle scommesse e dei giochi autorizzati dotati di piena tutela, che suggerisce e impone di ripensare [36] il rapporto tra regola ed eccezione per come è stato concepito nel Codice civile [37] e, conseguentemente, impostato dagli interpreti. L’art. 1933 c.c. si rivela una disposizione deputata ad operare per manifestazioni marginali di gioco e scommessa non riconducibili alle categorie tutelate dall’ordinamento e per le quali, stante la dimensione privata e occasionale del fenomeno, il legislatore ha scelto di mantenersi neutrale [38], non accordando azione per il pagamento, limitandosi a riconoscere la irripetibilità di quanto spontaneamente pagato dopo l’esito di un gioco o di una scommessa, purché non vi sia stata frode [39] e il perdente non sia incapace.

Quando, invece, il gioco e la scommessa diventano attività socialmente utili, sia pur in modo indiretto (art. 1935 c.c.), ovvero concorrono all’incremento e allo sviluppo di attività già di per sé socialmente utili (art. 1934 c.c.) [40] cessa l’applicabilità del­l’art. 1933 c.c. e il credito che sorge è munito di azione [41].

Rispetto all’art. 1803 c.c. abrogato, il vigente art. 1934 c.c. apporta una significativa modifica, riconoscendo al giudice, a fronte di una «posta eccessiva», non solo il potere di rigettare la domanda, ma anche di ridurre la posta. Si tratta di una disposizione singolare che può comprendersi ove si rifletta sulla circostanza che l’oggetto sportivo, sebbene apporti alla fattispecie una maggiore meritevolezza che ne giustifica l’azionabilità in giudizio, ciononostante, si tratterebbe in ogni caso di una meritevolezza sub iudice, destinata ad arretrare ogni qualvolta il movente lucrativo prevalga su quello ludico [42].

Sull’art. 1934 c.c. e sulla sua attuale applicabilità ritorneremo più avanti, ma ciò che è utile evidenziare in questa sede è la circostanza che si tratta di una disposizione che manifesta chiaramente la volontà di preservare l’indole ricreativa del fenomeno senza che la stessa sia pregiudicata e sciupata dal fine di lucro, con inevitabili ricadute sulla tutela del risparmio. Un difficile equilibrio che nel contesto socioeconomico del ’42 era affidato dall’art. 1934 c.c. al potere del giudice attraverso un controllo c.d. “ex post”; un equilibrio che in quel contesto era indubbiamente facilitato dalla occasionalità dei contratti in esame. La serialità del gioco e le sue implicazioni sulla salute e sul risparmio non si erano ancora imposte all’attenzione degli interpreti. La stessa lotteria, per le modalità in cui si svolgeva, per la sua occasionalità, non imponeva la necessità di interrogarsi sulle potenzialità dannose dell’attività di gioco.

Concentrando l’attenzione sui giochi e sulle scommesse autorizzate, occorre allora rilevare come la complessità, alla quale ci si è richiamati sin dalle prime pagine di questo lavoro, deve essere qui indagata anche sotto una diversa e ulteriore prospettiva, analizzando proprio la pluralità di interessi che sono progressivamente emersi nel corso del tempo, e le diverse scelte compiute dal legislatore nel tentare un loro bilanciamento nel corso delle diverse stagioni legislative [43].


4. L’evoluzione normativa dei giochi e delle scommesse: la crisi del primato della legge

Nel tentare di descrivere l’evoluzione della disciplina normativa dei giochi pubblici, la dottrina ha ben individuato quattro periodi, ciascuno dei quali si caratterizza per il perseguimento di differenti politiche pubbliche.

Il primo periodo, che possiamo datare dall’unificazione italiana fino al 1992, si caratterizza per un regime di divieto e di limitazione del gioco d’azzardo, che era proibito salve le ipotesi espressamente consentite e rigorosamente riservate allo Stato che poteva, eventualmente, darle in concessione. Lo scopo dell’azione di polizia non era di moralizzare con l’uso di mezzi repressivi, quanto di colpire gli atti in grado di ledere un diritto degli altri consociati: l’ordine pubblico.

Il secondo periodo, che si è soliti collocare nel decennio 1992-2003, è caratterizzato dalla politica di fiscalizzazione dei giochi, sfruttati come leva fiscale per aumentare le entrate e ridurre il debito pubblico. In questa prospettiva furono introdotte, accanto alle lotterie tradizionali, legate a pochi e specifici eventi, le lotterie istantanee con le quali si velocizzò il ritmo di gioco; al contempo, furono inseriti nel mercato nuovi giochi, con la necessità di esternalizzare i punti di raccolta. Queste novità comportarono un notevole incremento della spesa destinata al gioco e, conseguentemente, delle entrate erariali.

Il terzo periodo, dal 2003 al 2009, è stato efficacemente descritto come il periodo dell’aziendalizzazione, nel quale si avvia, non solo il processo di unificazione delle competenze in materia in capo all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, ma si tenta di razionalizzare e ottimizzare il gettito erariale derivante dal settore dei giochi. Si apre il mercato dei giochi e delle scommesse a distanza, si disciplina la rete telematica degli apparecchi e terminali da intrattenimento e, infine, si consente al­l’AAMS di indire nuove lotterie ad estrazione istantanea, di adottare ulteriori modalità di gioco del lotto, al fine di assicurare maggiori entrate a seguito del terremoto che aveva colpito l’Abruzzo.

L’aumentare incessante di nuovi giochi ha comportato inevitabilmente l’affermarsi di una diversa stagione legislativa, un quarto periodo, che inizia nel 2009 e si caratterizza per una serie di interventi legislativi connotati da una progressiva attenzione ai problemi connessi al gioco, sebbene accompagnata, in un primo momento, dall’espan­sione dei giochi. A partire dal cosiddetto decreto Balduzzi del 2012 [44], inizia una progressiva azione di contrasto al “disturbo da gioco d’azzardo”, la pubblicità viene in un primo momento limitata, per essere successivamente vietata con il cosiddetto decreto dignità del 2018 [45], con il quale il divieto si estende a qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa ai giochi o scommesse con vincite in denaro (ad eccezione delle lotterie nazionali a estrazione differita e delle manifestazioni di sorte a carattere puramente locale o ricreativo/culturale, nonché dei loghi sul gioco sicuro dell’A­genzia delle Dogane e dei Monopoli), attribuendo all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il potere di irrogare sanzioni amministrative previste per la violazione del divieto [46].

È, dunque, lo stesso legislatore che, dopo aver favorito il gioco, ha poi invitato a giocare responsabilmente per contenere e prevenire i pericolosi effetti sulla tutela del risparmio e della salute pubblica. Sul significato e le implicazioni della formula «gioco responsabile» occorre segnalare che si tratta di una locuzione alla quale il legislatore ha fatto ampiamente ricorso, sostituendo la precedente formula «gioco sicuro», che deve essere indagata sia dal lato del concessionario sia da quello del giocatore.

L’art. 24, comma 17, lett. f), della legge 7 luglio 2009, n. 88, prevede che la sottoscrizione della domanda di concessione implica l’assunzione, da parte del richiedente, dell’obbligo «di promozione di comportamenti responsabili di gioco e di vigilanza sulla loro adozione da parte dei giocatori, nonché di misure a tutela del consumatore previste dal codice del consumo; e del diverso obbligo (lett. e) di adozione ovvero messa a disposizione di strumenti ed accorgimenti per l’autolimitazione ovvero per l’autoesclusione dal gioco».

Stando al tenore delle disposizioni richiamate sembra emergere che la formula «gioco responsabile» si lascerebbe declinare nella duplice prospettiva del concessionario e del giocatore, imputandosi al primo un ruolo proattivo e preventivo di tutela; al giocatore, invece, confidando nella sua capacità di autodeterminarsi in modo razionale, si offre il potere di autoescludersi dal gioco o autolimitarsi attraverso meccanismi che gli impediscono, per sua esplicita richiesta, e per un tempo più o meno lungo, rispettivamente di partecipare alle attività di gioco o di impiegare una somma superiore a quella precedentemente determinata.

A decorrere poi dal dicembre del 2012, è stata prevista l’incorporazione del­l’AAMS nell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (ADM) che dispone di poteri normativi, sia di normazione del settore, sia di individuazione degli indirizzi che esercita con discrezionalità e che rispondono all’esigenza di assicurare una pluralità di interessi come la tutela del consumatore, dei minori, della sicurezza pubblica e del gioco responsabile nonché la tutela della concorrenza.

Giova evidenziare il ruolo suppletivo che l’ADM sta svolgendo attraverso la sua disciplina regolatoria a causa della mancanza di una organica normativa legislativa in materia, specie con riguardo ai contratti di gioco e scommessa a distanza. Circostanza questa che desta più di una perplessità, trattandosi di una Autorità amministrativa non indipendente che, tuttavia, gode di poteri di regolazione nonché di poteri conformativi dell’autonomia negoziale, specie nel gioco on line. Un ruolo di supplenza che è esercitato con la espressa complicità del legislatore, come si evince dall’art. 24 della legge 7 luglio 2009, n. 88, dove lo stesso, sebbene consapevole della complessità degli interessi da tutelare, stante la loro diversa indole, affida la disciplina del gioco a distanza ai provvedimenti del direttore generale dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, oggi Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Questo rapido excursus ci mostra la trasformazione e l’evoluzione dei giochi e delle scommesse da affare privato a fenomeno di massa, con inevitabili conseguenze sul piano giuridico. Basti accennare come la disciplina dei giochi pubblici o autorizzati ha subìto, al pari di altri istituti, una fuga dal codice a favore di una rete di fonti disomogenee, leggi statali, decreti ministeriali, dirigenziali e circolari che concorrono a definire un quadro di regole, insuscettibili di essere ricondotto a sistema.

Occorre ribadire che il richiamo contenuto nell’art. 1935 c.c. ad un solo tipo di gioco, la lotteria, fotografa una realtà sociale, quella del ’42, nella quale la stessa era l’u­nico gioco pubblico di larga fruizione. La ratio della norma si coglie appuntando l’at­tenzione non già al tipo di gioco, che, come si è anticipato, rispecchiava la realtà del­l’epoca, ma sul ruolo che al suo interno svolge l’autorizzazione.

Un ruolo duplice: da un lato, il suo carattere pubblicistico implica una valutazione di opportunità, che non dovrebbe limitarsi ai profili fiscali, rappresentando, piuttosto, un filtro per elidere i pericoli e le insidie che fondano il divieto penale, attraverso la verifica delle garanzie offerte dall’organizzazione al pubblico e la destinazione degli introiti; dall’altro, l’autorizzazione è al tempo stesso presupposto di efficacia dei contratti conclusi a valle, la cui mancanza ne determinerebbe la nullità, impingendo nel divieto penale, rappresentando, pertanto, un presupposto indispensabile, una condicio iuris di validità.

Soffermandoci sul carattere pubblicistico dell’autorizzazione, è nostro convincimento come la stessa dovrebbe essere valorizzata anche nell’intento di renderla funzionale al controllo e alla regolazione dell’attività di gioco, al fine di verificare l’i­doneità dell’organizzazione ad assicurare la tutela della salute e del risparmio. Se in passato l’autorizzazione è stata pensata nella prospettiva esclusiva di uno strumento di prevenzione dei reati per la tutela dell’ordine pubblico, la realtà sociale mostra con evidenza la necessità di ripensare lo strumento in esame anche nella prospettiva della tutela di diritti tutelati costituzionalmente, come la salute e il risparmio.

Pur nella complessità ed eterogeneità che caratterizza la disciplina dei giochi pubblici, si è soliti rinvenire due elementi connotativi: la presenza di un organizzatore, ossia di un soggetto pubblico o privato che organizza e gestisce il gioco, così consentendo ad una pluralità di persone di partecipare, ed in secondo luogo il controllo diretto o indiretto da parte dello Stato. Un controllo che può essere esercitato in due forme: l’esercizio esclusivo da parte dello Stato o di altri enti pubblici; o una seconda forma che si realizza assoggettando l’esercizio dei giochi ad apposita concessione e autorizzazione amministrativa.

Lo sviluppo esponenziale dell’offerta ludica, basata nel nostro Paese sul regime concessorio e autorizzatorio, ha condotto all’affermarsi del gioco autorizzato, caratterizzato da rapporti contrattuali che vedono coinvolti non più due parti private, ma un professionista e una massa di giocatori. E, in questo contesto, appare quanto mai fedele alla realtà del fenomeno la ricostruzione offerta da quei sociologi che hanno descritto l’inarrestabile ascesa del gioco d’azzardo autorizzato come il prodotto sociale di una premeditata espansione voluta dalla politica e dagli operatori economici al­l’interno di un contesto ideologico e filosofico tardo capitalista, che ha trasformato il gioco da attività tollerata in attività incoraggiata, in quanto attività economica decisamente lucrativa per lo Stato [47].

Dunque, come rileva la stessa Corte di Cassazione, «non esiste più nel nostro ordinamento un disfavore nei confronti del gioco d’azzardo in quanto tale», piuttosto, si osserva come «l’area del gioco organizzato sia venuta man mano ad estendersi dando luogo ad una vera e propria proliferazione dei punti di accettazione delle scommesse» [48].

L’influenza del gioco sull’economia dello Stato ha segnato il passaggio dalla laconica disciplina codicistica, dove il gioco autorizzato è solo evocato, ad una serie di fonti e, segnatamente, di regolamenti predisposti da enti gestori nella veste di operatori professionali, i quali, in forza di autorizzazioni e di concessioni rilasciate dagli organi dello Stato, agiscono come legittimi «erogatori di servizi di gioco», così come espressamente li qualifica la Raccomandazione europea del 14 luglio 2014, n. 478 [49].

Il gioco d’azzardo, dunque, lungi dall’essere esiliato dal mercato regolato, assume i caratteri di un contratto pienamente tutelato in cui «il ruolo di biscazziere è assunto direttamente o indirettamente dallo Stato» [50].

Soffermandoci sugli interventi legislativi degli ultimi anni si può registrare il disagio di un legislatore che ha tentato di conciliare i diversi e plurimi diritti sottesi alla materia in esame, attraverso un’opera di mediazione, che ad alcuni è apparsa persino schizofrenica, tra la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) da un lato, e l’esi­genza di tutelare la salute da patologie legate all’abuso del gioco (art. 32 Cost.) e la tutela del risparmio dall’altro (art. 47 Cost.).

Come si è anticipato, nella difficile opera di mediazione il legislatore ha dapprima dettato regole restrittive sulla pubblicità, fino a giungere ad un generale divieto di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi con vincita in danaro; ma ha anche imposto specifici obblighi di informazione volti ad impedire scelte irrazionali da parte dei giocatori, imponendo di riportare in modo visibile la percentuale di vincita che il soggetto ha nel singolo gioco, nonché l’obbligo di inserire formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica dei giochi con vincite in denaro sui biglietti delle lotterie istantanee, sugli apparecchi che si attivano con moneta metallica o con appositi strumenti di pagamento elettronico, nonché nei punti vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse.

Le normative richiamate denunciano una maturata consapevolezza circa la potenziale dannosità del gioco; una dannosità per l’individuo, e più in generale per la collettività, che non si esaurisce nella tutela di esigenze di ordine pubblico volte a garantire la pacifica convivenza tra cittadini e a prevenire l’insorgenza di fenomeni legati alla criminalità organizzata.

In questa prospettiva, occorre segnalare una ricca legislazione regionale [51] diretta a tutelare i soggetti ritenuti più vulnerabili attraverso disposizioni che vietano la collocazione di apparecchi da gioco nei pressi dei luoghi c.d. sensibili e impongono limitazioni di orario all’apertura di sale da gioco. Una normativa, che sebbene si riveli quanto meno anacronistica di fronte all’incessante espansione dei giochi on line, che consentono di accedere ai servizi di gioco in ogni tempo e in ogni dove, mostra con evidenza l’ingerenza dello Stato sulla libertà di concorrenza nell’intento di tutelare la salute dei soggetti più vulnerabili. Un’ingerenza che, peraltro, essendo esercitata dalle Regioni, solleva notevoli perplessità in mancanza di un indirizzo uniforme [52].

La legislazione regionale richiamata appare, dunque, un nostalgico revival del «cerchio magico» descritto da Huizinga [53], nel quale il gioco s’isola dalla vita ordinaria in luogo e durata, mostrando così un’indole conchiusa nei limiti di tempo e di spazio; coordinate minacciate nella loro essenza e nei loro limiti dalla disciplina dei giochi on line, che, più che creare un «cerchio magico», costruiscono un isolamento, nel quale, complice l’anonimato e la virtualità spaziale e temporale, rischiano di trasformarsi ed essere descritti come dei gironi danteschi affidati all’illusoria autoresponsabilità del singolo. E probabilmente, proprio nell’intento di scongiurare questo pericolo, in tutti i contratti per la partecipazione al gioco a distanza, predisposti dagli operatori professionali conformemente al modello approvato dall’ADM, ritroviamo una disposizione dedicata alla «Gestione del conto di gioco», art. 5, il cui comma 4, espressamente prevede che: «I servizi di gioco sono accessibili secondo il calendario e negli orari pubblicati sui siti, in cui è attivo il Sistema Centrale di ADM» nonché, ai sensi dell’art. 7 «Informazioni» è previsto che «i regolamenti e la normativa vigente relativa ai giochi, le istruzioni per l’effettuazione delle giocate, il calendario e gli orari di accesso ai giochi, i palinsesti (…) sono pubblicati sui siti del Concessionario (…)».


5. Il gioco e la scommessa. Il c.d. nodo definitorio

La difficoltà di definire il gioco, nell’intento di coglierne i tratti connotativi e così distinguerlo dalla scommessa, ha dato vita, specie negli studi più risalenti, ad un ricco dibattito tra gli interpreti; un dibattito che ad alcuni è apparso sterile, se non persino scientificamente erroneo, in quanto le distinzioni in tanto possono effettuarsi in quanto vi sia una diversità normativa che le renda necessarie e le giustifichi.

La disputa sulle differenze tra le due figure ha una ragione meramente storica, in quanto nel diritto comune si distingueva il gioco dalla scommessa, poiché la tradizione romanistica era interpretata nel senso che il debito di gioco fosse sfornito di azione, salvo quelli praticati virtutis causae, diversamente dal debito da scommessa.

Nel codice il gioco e la scommessa sono configurati come contratti nominati. Si tratta del risultato di una lunga e incontrastata tradizione che ne tratta come due figure contrattuali affini.

La correttezza di questa sistemazione ‒ e la considerazione del gioco e della scommessa come negozi giuridici appartenenti entrambi alla categoria dei contratti ‒ è stata contestata nella prima metà del secolo scorso, formandosi un orientamento che, separandosi dalla tradizione, ha negato al gioco le caratteristiche della giuridicità, riservando la qualifica di contratto solo alla scommessa.

Non può revocarsi in dubbio che il gioco in sé e per sé, considerato come attività libera o regolata e disinteressata, non ha alcuna rilevanza per il diritto, almeno per il diritto dei contratti e delle obbligazioni; il gioco è preso in considerazione dall’or­dinamento quando lo stesso si accompagni ad una convenzione tra due o più parti che dall’esito del gioco faccia dipendere la corresponsione, a favore di uno o più soggetti, di una prestazione a contenuto patrimoniale, la c.d. vincita.

Se il gioco acquista valore per il diritto solo allorché vi sia una scommessa sul­l’esito dello stesso, venendosi così a costituire un rapporto a contenuto patrimoniale, rispetto al quale il gioco si pone come presupposto logico (peraltro non necessario), l’espressione che ricorre all’art. 1933 c.c., che richiama il debito di gioco o di scommessa, apparirebbe fuorviante, in quanto anche il debito di gioco nasce pur sempre da una scommessa, sebbene non sia vero il contrario, in quanto la scommessa può avere ad oggetto non solo l’esito di un gioco, ma anche la bontà di un’affermazione contrastata dall’altra parte.

In questa prospettiva, dunque, il gioco avrebbe una funzione meramente strumentale rispetto alla scommessa con esso associata attraverso il congegno convenzionale della posta, e rappresenterebbe il mezzo che produce l’alea artificiale, tratto tipico della scommessa impegnata sui risultati del gioco, così come si vedrà oltre. Si ritiene, pertanto, che la legge impiegherebbe impropriamente il termine gioco con riguardo ad un rapporto a contenuto patrimoniale risultante dalla messa in palio di una vincita relativamente al risultato di un gioco e, conseguentemente, i cosiddetti «debiti di gioco» non sarebbero in realtà debiti da gioco, ma debiti da scommessa. E non sarebbe un caso che gli interpreti che si sono prodigati a riconoscere al gioco valore contrattuale hanno dovuto distinguere all’interno del genus la specie gioco interessato. Ma il gioco d’interesse consiste proprio nel mettere in palio, nel puntare dei valori economici sui risultati del gioco. Dunque, com’è stato osservato, là dove possa apparire che il gioco abbia rilevanza giuridico-patrimoniale, questa rilevanza è data proprio dalla scommessa che ad esso si accompagna.

La tesi descritta, sebbene sia connotata da una sua coerente logica, è stata criticata laddove sarebbe smentita dal dato positivo che impiega separatamente il termine gioco e il termine scommessa e che, dunque, rimanda ad una duplicità di fenomeni che non consentirebbero di neutralizzare il primo riconducendolo alla seconda.

Indubbiamente l’argomento letterale ha una sua valenza, ma così come impostato appare un argomento fragile. Ciò che occorre porre in evidenza, piuttosto, non è solo la duplicità dei termini, che sembrerebbe provare troppo, quanto invece, sempre sulla scorta del dato positivo e specificamente del canone letterale, il fatto che sembra essere un altro il limite della tesi richiamata.

Gli interpreti che negano al gioco natura contrattuale muovono dal presupposto, indimostrato, e anzi contraddetto dal dato positivo, per il quale il fine di lucro contraddirebbe la stessa natura del gioco; ma allorché si superi, sulla scorta del dato positivo, questa precomprensione e si rifletta sulla lettera della legge che individua all’interno del genus gioco quello che dà luogo a debiti, si comprende come ridurre il gioco alla sola figura della scommessa sia una tesi che non meriti di essere seguita.

Giova ricordare che la interpretazione presuppone la polisemia ed impone all’in­terprete la fatica di selezionare, tra i vari significati, quello fatto proprio dal legislatore. Il gioco interessato, ossia il gioco al quale si accompagna una posta sui risultati di gioco, non potrebbe essere ridotto alla scommessa e ciò in quanto il gioco interessato non contraddirebbe la natura del fenomeno – ammesso che il fenomeno sia riducibile ad un’unica natura e non sia, invece, come noi riteniamo, e come si è già evidenziato nelle prime pagine del lavoro, un fenomeno plurale – ossia una competizione dal cui esito le parti fanno dipendere l’an o il quantum di una attribuzione patrimoniale, la c.d. vincita, rappresentando, piuttosto, un connotato dello stesso che lo distingue dal gioco disinteressato irrilevante per il diritto.

D’altra parte, la patrimonialità non è in sé neanche un tratto necessariamente connotativo della scommessa, potendosi ben scommettere per il puro diletto di avere ragione.

Dunque, se si seguisse la teoria criticata, le stesse argomentazioni che gli interpreti impiegano per riconoscere alla scommessa, e negare al gioco, natura contrattuale, potrebbero essere utilmente impiegate anche per negare alla scommessa, allorché sia per la pura gloria, la medesima natura. E allora è ancor più evidente che quella tesi, sebbene coerente e dotata di una sua logica, non merita di essere condivisa perché muove da una premessa che, come si è anticipato, non solo non è dimostrata, ma, ancor più grave, supera il dato positivo.

Una volta isolata la figura del gioco interessato si è inevitabilmente posto il problema di trovare dei criteri che riuscissero a spiegare la differenza tra gioco interessato e scommessa, una distinzione che si legge di frequente: sconta l’irrilevanza giuridica, stante l’unicità di disciplina. Una ricerca destinata all’insuccesso, come più volte ricordato dagli interpreti, in quanto frustrata dalle stesse premesse, non esistendo un concetto giuridico di gioco e di scommessa. Sia nell’uno come nell’altra il momento ludico e quello economico risultano vicendevolmente implicati e a nulla rileva, ai fini della disciplina applicabile, la partecipazione o meno delle parti al conseguimento dei risultati di gioco, come testimonia l’art. 1934 c.c., laddove precisa che i giochi ivi contemplati sono sottratti alla soluti retentio «anche rispetto alle persone che non vi pren­dono parte», ossia gli scommettitori.

Muovendo da questo riferimento positivo alcuni interpreti hanno trovato utile spunto per distinguere il gioco interessato dalla scommessa, ravvisando proprio nella partecipazione al verificarsi dell’esito l’elemento di discrimen tra le due figure.

Non può dubitarsi che, tra i vari criteri di distinzione, quest’ultimo trovi un riscontro positivo, e si è soliti affermare che, proprio la circostanza che, ai fini della disciplina applicabile, lo stesso sia evocato per equipararne gli effetti, confermerebbe l’inu­tilità della distinzione, sulla quale pertanto, in questa sede, non indugeremo oltre. Piuttosto, occorre ragionare su un aspetto poco indagato, ma che merita invece di essere approfondito. Se si muove dalla premessa che ogni gioco ha le sue regole, la circostanza che gli scommettitori siano anche giocatori, sebbene sia irrilevante ai fini della disciplina codicistica di cui agli artt. 1933 ss., è davvero in sé irrilevante sotto ogni altro aspetto?

In altri termini, proprio muovendo dalla prospettiva delle regole del gioco, occorre chiedersi se e quale incidenza abbia la loro violazione sul contratto. Il richiamo alla frode, contenuto nell’art. 1933 c.c., già offre un argomento per fermarsi a riflettere sul problema. Ma è altrettanto evidente che l’art. 1933 c.c. si limita a richiamare la frode per escludere l’applicazione della soluti retentio. Dunque, non è in quel riferimento positivo che può trovarsi la soluzione al quesito proposto.

In particolare, occorre fermare l’attenzione su una circostanza che appare non trascurabile, domandandosi se le cosiddette regole del gioco siano o meno regole del contratto o, se, piuttosto, le prime non esulino dalle seconde, potendosi ricondurre ad un ordinamento diverso. È necessario, infatti scongiurare la sovrapposizione di piani sui quali si svolgono l’attività ludica e quella giuridica, allorché quest’ultima faccia riferimento alla prima, distinguendo le regole della gara dalle regole del contratto.

Un altro rilievo è pertanto necessario anche nell’economia del presente studio: stando al significato del termine gioco impiegato dalla legge, esso può intendersi come rapporto contrattuale, al pari del termine scommessa: e in tale accezione sono impiegati i due termini nell’art. 1933 c.c.; per converso, nell’art. 1934 c.c., il termine gioco ‒ qui impiegato isolatamente dal legislatore, ossia senza l’espresso richiamo anche alla scommessa ‒ è da identificare con quello di gara, così da costituire il presupposto tecnico della scommessa, considerati nell’altro senso in cui l’art. 1933 c.c. utilizza tali termini .

Dunque, il termine gioco, ancor più di quello di scommessa, non è in sé un termine innocente perché è al contempo capace di evocare l’atto, il rapporto, ma anche, e ciò specie nei giochi di massa, l’attività intesa come prestazione di servizi di gioco. È, infatti, opinione ormai condivisa pensare l’organizzazione dei momenti ludici come una vera e propria prestazione di servizi di pubblico interesse.


6. Gioco, gara, gioco interessato e scommessa: l’ordine del gioco

Una volta chiarito che il gioco e la scommessa rilevanti per il diritto hanno un elemento comune, il fine di lucro, e altresì chiarito che il gioco interessato non è assimilabile alla scommessa ‒ non essendovi perfetta coincidenza tra le due figure, in quanto il gioco si caratterizza, secondo il criterio indicato dal legislatore, per la partecipazione dei giocatori al risultato, diversamente dalla scommessa ‒ occorre fermare l’attenzione sulla polisemia del termine gioco che, come si è accennato, può evocare anche il gioco inteso come gara.

Ai fini della nostra indagine è quanto mai utile ricordare il pensiero di alcuni studiosi che hanno affrontato il tema sotto una prospettiva sociologica che si rivela preziosa ai nostri fini. Muovendo da Caillois ‒ che riprende il testo di Huizinga, ma ampliando e criticando alcuni concetti di quella impostazione ‒ nello studiare il fenomeno in esame, il sociologo comprende come attraverso il gioco sia possibile analizzare l’evoluzione socioculturale di un determinato gruppo sociale, poiché in esso sono raccolti tutti gli elementi sostanziali di una data cultura e del suo progredire [54]. In particolare, concepire il gioco come elemento aggregante della società ha permesso a Caillois di sostenere e proporre un’evoluzione storica dell’umanità che si affranca da quelle forme di ludicità considerate libere e caotiche (il play, o riprendendo le parole del­l’autore, la paidia), in favore dell’adozione di forme ludiche strutturate, ossia regolamentate attraverso un codice e delle norme di comportamento (il game, o ludus, per essere fedeli ai termini impiegati da Caillois). Secondo Caillois il gioco deve essere un’attività regolamentata poiché le regole impongono un sistema ordinato, un codice di comportamento vincolante a cui i giocatori devono adeguarsi affinché si possa raggiungere l’obiettivo e concludere il gioco; «le regole sono inscindibili dal gioco non appena quest’ultimo acquisisce una esistenza istituzionale» [55].

Bateson, dal canto suo, riprende questa differenziazione terminologica e ravvisa un collegamento diacronico tra i due significati: il play, la paidia, una volta che è organizzato e regolato, diventa game o ludus [56]. E non aver valorizzato che ci sono almeno due significati coperti da uno stesso significante inficia molte delle pagine di Huizinga dedicate ai giochi, ma altresì dei giuristi che si sono misurati con il tema in esame [57]. È, dunque, necessario sciogliere la polisemia insita nella parola italiana gioco, prima di procedere oltre nel nostro studio.

Concentrando l’attenzione ai giochi pubblici, è noto che tutti i giochi e le scommesse autorizzati dallo Stato vedono formalizzata la loro disciplina in puntuali regole di condotta cristallizzate all’interno di appositi regolamenti ai quali gli stessi giocatori e scommettitori devono conformare l’esecuzione del contratto. La dottrina e la giurisprudenza che si sono occupate più direttamente di questi profili hanno affermato che si tratterebbe di regole contrattuali la cui mancata osservanza, allorché sia idonea ad incidere sul rischio ‒ in quanto lo annulla o lo diminuisce a favore di una parte e a danno dell’altra, pregiudicando le condizioni per il fisiologico dispiegarsi del congegno aleatorio ‒ determina la nullità del contratto per mancanza di causa.

Questa ricorrente affermazione ci impone di fermarci a ragionare sul problema, ma anzitutto a distinguere le diverse violazioni dei regolamenti di gioco e le diverse possibili conseguenze.

Si tratta di un tema complesso perché coinvolge, o può coinvolgere, due c.d. ordinamenti [58]: quello statale e quello sportivo ogni qualvolta il gioco e la scommessa abbiano ad oggetto il risultato di competizioni sportive, che costituiscono le ipotesi più frequenti e anche le più stimolanti ai nostri fini.

Come si è visto, la complessità è acuita dall’ambiguità del termine gioco, la cui ricchezza semantica, nella lingua italiana, è suscettibile di evocare diverse specie; ambiguità determinata anche e soprattutto dall’uso disinvolto di uno stesso significante per indicare significati e concetti diversi, sia da parte degli interpreti, sia da parte dello stesso regolatore. La necessità di selezionare all’interno della pluralità di significati quello pertinente, se si tratti quindi, per quanto qui ci occupa, di regole del gioco, inteso come gara, o di regole del gioco, inteso come gioco interessato, e quindi contratto di gioco, si rivela una precisazione concettuale imprescindibile. Il ripudio dell’uso disinvolto di termini che rimandano a concetti ben diversi non è un puro esercizio di stile, un gioco linguistico [59], ma il tentativo di riportare chiarezza e tecnicismo; e, in questa prospettiva, l’ambito sportivo si rivela un terreno elettivo quanto mai efficace in quanto in questo settore è particolarmente chiara la differenza tra gioco inteso come gara nonché tra gioco interessato e scommessa. Invero, se quest’ultima distinzione si afferma essere irrilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 1933 – 1935 c.c., la stessa assume rilevanza, invece, proprio con riguardo al c.d. ordinamento sportivo.

Al riguardo, basti già osservare come i regolamenti di giustizia sportiva facciano espresso divieto ai giocatori di «effettuare o accettare scommesse, direttamente o per interposta persona, anche presso soggetti autorizzati a riceverle, o di agevolare scom­messe di altri con atti univocamente funzionali alla effettuazione delle stesse» [60].

Nel c.d. ordinamento sportivo, pertanto, non potrebbe astrattamente configurarsi la figura del giocatore interessato, ossia, giova ripeterlo, chi facendo parte di quella istituzione sportiva, nonostante l’espresso divieto previsto dai regolamenti federali, punti una somma di danaro sul risultato della propria prestazione, gara sportiva, magari persino scommettendo sulla propria sconfitta, la c.d. scommessa contra se ‒ per riprendere un esempio che Bernardino Stracca proponeva, forse provocatoriamente, già nel 1774 e ripreso poi dagli Autori più attenti [61] ‒ nella quale il giocatore gareggiante scommette contro un terzo che perderà al gioco al quale egli stesso partecipa.

Prima di esaminare l’ipotesi patologica del giocatore-gareggiante che scommette sulla gara, così violando le regole federali, per non affrettare le nostre conclusioni occorre preliminarmente soffermarsi su alcuni aspetti che si rivelano strumentali ai fini di quella indagine.


7. Frode sportiva e scommessa

Com’è noto, fra gli avvenimenti che possono formare oggetto di scommessa, specie al giorno d’oggi, particolare rilievo assume l’esito di una gara sportiva. La scommessa su un gioco non si differenzia dalla scommessa fatta su qualsiasi altro avvenimento. Il problema degno di rilievo concerne i riflessi che può avere il gioco fraudolento sulla scommessa.

Come si è accennato, caratteristica delle scommesse sportive è quella di essere contestualmente legate a due c.d. ordinamenti giuridici, quello sportivo e quello statale.

L’ordinamento sportivo regola l’evento che ha formato oggetto della scommessa, detta le regole della gara e, per quanto direttamente ci occupa, vieta ai soggetti ad esso appartenenti di scommettere su avvenimenti ai quali partecipano o sui quali possono comunque influire; mentre l’ordinamento statale si occupa della regolamentazione delle scommesse.

Tra i molteplici problemi che investono la materia in esame, gli interpreti si sono occupati dei riflessi che il gioco (gara) fraudolento potrebbe avere sulla scommessa.

Al riguardo, occorre anzitutto fermare, sia pur in estrema sintesi, e in linea di prima approssimazione, una definizione di frode sportiva e, mutuando i risultati di una attenta e suggestiva ricerca sul tema, può convenirsi sulla circostanza che la stessa si manifesterebbe in due modi: «traendo in inganno l’avversario e il direttore di gara, l’autore dell’atto fraudolento compie artifici orientati ad annientare o, almeno, ridurre il rischio della propria sconfitta; d’accordo con il proprio avversario (o con un terzo soggetto), il partecipante compie gesti atletici diretti a perdere e far vincere il proprio rivale (c.d. match-fixing [62]. Sebbene si tratti di ipotesi distinte, entrambe sono accomunate da una circostanza significativa ai nostri fini: la frode ambisce ad incidere sull’alea del gioco, aspira, cioè, a dominare l’imprevedibile, controllando lo svolgimento della gara e del suo esito.

Tralasciando altre, e altrettanto significative questioni che ci porterebbero, tuttavia, a divagare, concentriamo l’analisi all’ipotesi che più direttamente ci interessa: lo scommettitore che, al pari dell’organizzatore, è in buona fede e, pertanto, ignora la circostanza che il risultato della gara sia inquinato dalla frode.

La dottrina più sensibile ai temi indagati ha opportunamente posto in luce come: se, nell’ottica microeconomica dell’obbligazione naturale tra gentiluomini, gli episodi di frode potevano dar luogo al massimo all’espulsione del baro dalla comunità, attualmente tali episodi potrebbero addirittura comportare ingenti crisi, laddove si verifichino all’interno del mercato delle scommesse pubbliche di massa, rappresentando dunque dei veri e propri pericoli per l’economia di mercato e per la certezza delle transazioni [63]. Stante l’inarrestabile ascesa delle scommesse pubbliche, e di quelle on line in particolare, la frode, diversamente che in passato, può oggi influire non solo sul singolo contratto, ma su una serie incalcolabile di scommesse, e altresì su altri contratti o su altri mercati con essi collegati [64].

Alla rilevanza giuridica e sociale che caratterizza la scommessa fra privati, si accompagna oggigiorno anche una notevole rilevanza economica, allorché si esamini il fenomeno nella prospettiva delle scommesse pubbliche. Invero, gli effetti dirompenti che potrebbe avere il risultato “falsato” sulle anzidette scommesse hanno suggerito agli enti organizzatori di scommesse sportive di inserire nei regolamenti da loro unilateralmente predisposti la regola «del risultato acquisito sul campo di gara e sancito dall’arbitro» [65].

Sulla natura di questi regolamenti e sulla possibilità di applicare la disciplina in tema di clausole vessatorie si può osservare che la regola in esame non si lascerebbe qualificare come clausola vessatoria, non determinando la stessa un significativo squilibrio tra diritti e obblighi: entrambi i contraenti hanno scommesso in buona fede sul risultato della gara, ed entrambi, dunque, sopportano l’alterazione dell’esito finale [66]. In questa sede occorre piuttosto rilevare come si tratti di una disposizione che, per quanto duramente criticata da alcuni interpreti [67], è essenzialmente volta ad assicurare esigenze di certezza e rapidità che si rivelano imprescindibili per il funzionamento del mercato delle scommesse sportive autorizzate e per la loro stessa diffusione. Ma a tale soluzione concorrono altresì ragioni connesse alle peculiarità proprie dell’arbitraggio sportivo, gli ampi poteri di apprezzamento discrezionale della condotta dei giocatori e l’incidenza che le singole decisioni, prese nel corso della gara, hanno su tutto lo svolgimento successivo [68].

La medesima regola è sancita altresì dalla pubblica amministrazione. Il d. m., 19 giugno 2003, n. 179, nel dettare «le regole generali relative ai concorsi pronostici su base sportiva» (art. 1), ha previsto che il risultato conseguito sul campo di gara non è suscettibile di contestazione o di diverso apprezzamento: «(a)i fini della determinazione della colonna unitaria vincente del concorso è assunto, quale esito definitivo e incontestabile degli eventi, quello conseguito sul campo ufficializzato da AAMS in conformità delle prime comunicazioni del CONI» [69]. Il medesimo d.m., 19 giugno 2003, all’art. 23, comma 2, ha precisato che «(s)uccessivi mutamenti dei risultati, decisi per qualsiasi motivo dalle autorità sportive competenti, annullamenti, penalizzazioni od altri provvedimenti, non risultano influenti agli effetti del concorso» [70].

Dalle regole richiamate sembrerebbe dedursi anzitutto l’assoluta autonomia che il fatto scommessa ha rispetto al fatto gara o competizione sportiva: gara sportiva e scommessa si lascerebbero descrivere come due fenomeni distinti e separati, ognuno dei quali si svolgerebbe in un proprio ambito; la scommessa sarebbe legata alla gara soltanto dal verificarsi di un dato esito, futuro e incerto al momento della scommessa, che è assunto come tale dagli scommettitori, dopo lo svolgimento della gara. La gara sportiva sarebbe pertanto un mero antecedente fenomenico cui si lega il fatto scommessa, e l’esito della gara sarebbe un fatto estraneo all’attività degli scommettitori, in quanto il risultato di una gara sportiva non dipende da un fatto di volontà o di abilità di questi ultimi. L’esito di una gara è quello accertato e reso noto pubblicamente dagli organi sportivi competenti.

La gara sportiva si deve svolgere secondo le regole dello sport e, pertanto, tutto ciò che incide sullo svolgimento di una gara è devoluto al giudizio degli organi sportivi ai quali soltanto spetta il compito di definire l’esito della gara stessa; e questa decisione fa stato rispetto agli scommettitori, i quali debbono accettarla così com’è, perché gli stessi non avrebbero alcuna veste per influire sulla diversa valutazione dell’esito di una gara [71].

Da questa impostazione ne discende, come inevitabile corollario, che la valutazione di una gara sportiva potrebbe subire un esito diverso a seconda che debba tendere a regolare la scommessa, ovvero a determinare l’osservanza delle norme sportive. Nel primo caso, è l’esito conseguito pubblicamente e reso noto che deve valere agli scopi della scommessa; nel secondo, è l’osservanza delle norme sportive che può determinare un diverso giudizio: onde si può verificare che l’esito di una partita di calcio possa non essere ritenuto valido ai fini sportivi (e, in caso di violazione delle regole sportive, gli organi sportivi si varranno di mezzi disciplinari di cui dispongono per reagire contro l’inosservanza delle regole), ma ciò non toglie che quando la gara si conclude con un determinato esito, è questo esito il solo che possa valere ai fini della scommessa. D’al­tronde, se così non fosse, le scommesse si ridurrebbero a logomachia fra perdenti e vincenti: ciascun perdente troverebbe sempre un motivo per negare valore ad un dato esito [72].

Pertanto, se la gara non è sospesa, o annullata, agli effetti della scommessa non può valere altro risultato che quello riconosciuto e ammesso pubblicamente dagli organi sportivi preposti alla direzione della gara. Altra regola non potrebbe sussistere senza snaturare il contenuto e il significato della scommessa come fatto autonomo collegato all’esito di una competizione sportiva.

La regola del risultato acquisito sul campo di gara fissata dai bookmakers nelle condizioni generali di contratto è accettata di buon grado dagli scommettitori, così come dagli interpreti, allorché si ragioni tenendo a mente l’ipotesi di errore nel risultato, che è connaturata ad ogni evento sportivo, e probabilmente rappresenta anche una tacita regola del gioco; o nel caso di eventi sportivi nei quali sia comunque rimasta una parte di alea e di abilità; viceversa, la frode, sebbene dia luogo a pesanti sanzioni a carico dei soggetti dell’ordinamento sportivo, parrebbe deludere le aspettative degli scommettitori, ma più in generale degli spettatori-consumatori dell’evento sportivo [73].

Seguendo detta impostazione, la frode sportiva ignota alle parti (ossia allo scommettitore e all’ente organizzatore) non pregiudicherebbe la validità del contratto e ciò in quanto, si afferma: il risultato sul quale le parti hanno scommesso rimane futuro e incerto e non perderebbe, pertanto, la sua natura aleatoria [74]. Accettando la regola del risultato acquisito sul campo di gara, lo scommettitore accetterebbe anche il rischio che l’esito della gara sulla quale ha scommesso possa essere falsato dalla frode. Il rischio della frode sportiva penetrerebbe nella causa aleatoria e la frode non sarebbe un evento inatteso, ma un fatto previsto e accettato dai pascenti. Il comportamento sleale quindi si lascerebbe descrivere come un elemento interno alle probabilità di vincita e di perdita e le modalità con le quali si sarebbe svolta la gara sarebbero estranee alla condizione presupposta per la scommessa e, conseguentemente, gli scommettitori non potrebbero nutrire nessun affidamento verso gli atleti infedeli [75].

Se nella scommessa il rapporto patrimoniale si determina al verificarsi di un dato evento, basterebbe che l’evento si verifichi perché sorgano diritti e doveri; e, di conseguenza, nella scommessa collegata ad una gara sportiva, basterebbe che si sia avuto un risultato nella gara perché sorgano diritti e doveri fra gli scommettitori.

Ci si interroga, in particolare, sul valore che possa avere, dal punto di vista della scommessa, e quindi nei confronti degli scommettitori, il comportamento di un partecipante alla gara sportiva che delude le aspettative degli scommettitori, in quanto, considerandolo favorito, avevano puntato sulla sua vittoria. Si può affermare che non ha alcun valore? Magari proprio in forza dell’argomento dell’autonomia secondo il quale altro è la competizione sportiva, altro è la scommessa, così ribadendo che la competizione sportiva non è in funzione della scommessa, ma sarebbe la scommessa che trae occasione dalla competizione sportiva per costituire la causa del rapporto patrimoniale tra due parti in contrasto di opinioni?

Non può revocarsi in dubbio che nella fisiologia dei rapporti gli scommettitori sono estranei alla competizione sportiva, essi non hanno alcuna ingerenza sullo svolgimento della competizione; sono estranei che attendono l’esito della gara, che deve essere comunicato dagli organi sportivi.

Ma non può sottacersi quanto meno uno spontaneo interrogativo: come può essere regolare una gara sportiva se un partecipante alla gara, violando le norme sportive, non ha portato, e volutamente non ha portato, il suo contributo di energia e abilità sportiva, per fare attribuire la vittoria ad un altro partecipante? Si affacciano una serie di ulteriori interrogativi e questioni. Anzitutto, inesorabile, ritorna nuovamente l’interrogativo: chi è giudice della regolarità di una gara? Non certamente la massa di scommettitori interessata e appassionata; il giudice dell’esito di una competizione è solo quell’or­gano sportivo che è preposto alla direzione della competizione stessa. E il vizio che può inficiare la competizione sportiva può essere rilevato solo dagli organi sportivi, i quali non hanno che due vie: o annullare nei casi particolarmente gravi la gara, o attribuire la vittoria a uno dei partecipanti, salvo i provvedimenti disciplinari contro il partecipante scorretto o sleale. Nei riflessi della scommessa, se la gara è annullata, non essendovi alcun risultato, la scommessa non dovrebbe valere, e gli scommettitori dovrebbero ritirare la loro posta; ma se la gara non è annullata il risultato attribuito dal­l’or­gano sportivo è il solo che può determinare il vincitore e la graduatoria dei vincitori: allora un tale risultato si pone a base della scommessa.

Tuttavia, occorre porre in luce come nel caso descritto è la sola gara sportiva a non essere regolare, ma la scommessa, proprio perché le parti sono estranee alla frode, resta aleatoria. Dunque, sebbene la competizione sia turbata dalla frode, ciononostante, proprio perché gli scommettitori e l’organizzatore pubblico erano in buona fede, ossia ignoravano la frode, l’alea della scommessa non verrebbe turbata.

Ci si chiede poi, in particolare, se il comportamento antisportivo di un partecipante alla gara determini un danno agli scommettitori. L’interrogativo impone di verificare se la chance di un esito favorevole, legato al carattere aleatorio della scommessa, si configuri come interesse la cui lesione sia di per sé rilevante sul piano risarcitorio. In caso di risposta affermativa, ci si dovrebbe ulteriormente chiedere se lo scommettitore abbia diritto a un risarcimento pari al corrispettivo versato e se, a tal fine, si debba accertare che la frode ha realmente alterato la c.d. alea sportiva, e quella contrattuale [76]. Resta, inoltre, il dubbio se lo scommettitore possa pretendere anche il risarcimento per il mancato esito favorevole della scommessa, nei limitati casi in cui riesca a dimostrare che tale esito, con buona probabilità, si sarebbe verificato.

Ma di che danno si parla nella scommessa? La scommessa, come fatto a sé stante, è un istituto per il quale le parti sanno preventivamente che esse avranno un danno o un guadagno a seconda che si verifichi una o altra previsione; ogni scommettitore sa di subire un danno se la previsione da lui desiderata non si realizza. L’essenza intrinsecamente aleatoria della obbligazione, che si crea, importa che essa si risolva in un danno per una parte e in un vantaggio per l’altra parte; il danno inerisce al fatto scommessa come una delle due facce. Fuori dalla scommessa c’è un avvenimento, dal quale si fa dipendere il rapporto patrimoniale fra gli scommettitori, ma l’avvenimento, competizione sportiva, non è un avvenimento a carattere patrimoniale rispetto agli scommettitori.

La tesi, sebbene sia suggestiva, è stata di recente criticata muovendo da una premessa da noi condivisa: il gioco autorizzato è un gioco regolato, come più volte osservato nelle pagine di questo lavoro. La regolamentazione è volta ad assicurare la trasparenza del mercato, che rappresenta un mezzo per garantire razionalità, calcolabilità e consapevolezza degli scommettitori. Opportunamente, si richiama l’art. 7, comma 4 bis, del c.d. decreto Balduzzi [77], a tenore del quale, come si è già anticipato, «la pubblicità dei giochi che prevedono vincite in danaro deve riportare in modo chiaramente visibile la percentuale di probabilità di vincita che il soggetto ha nel singolo gioco pubblicizzato». Qualora la percentuale non sia definibile, l’organizzatore è tenuto ad indicare «la percentuale storica per giochi similari». Il successivo comma 5 stabilisce che le «formule di avvertimento» relative alle probabilità di vincita devono figurare sulle schedine ovvero sui tagliandi dei giochi con vincite in danaro. Queste formule, ancora, devono «comparire ed essere chiaramente leggibili anche all’atto di accesso ai siti internet destinati all’offerta di giochi».

Il legislatore ha regolato il mercato per rendere razionale l’alea del contratto; e tuttavia, si osserva come «nelle formule di avvertimento sulle probabilità di vincita il rischio della frode non è ovviamente contemplato». In questa prospettiva, si potrebbe dire che «la frode frustra l’alea razionale, poiché concretizza un rischio assunto dallo scommettitore, non valutato (né valutabile) prima della scommessa». In altri termini, la frode non sarebbe «suscettibile di essere valorizzata nell’ambito del calcolo probabilistico, il quale è offerto al consumatore-scommettitore sul presupposto dello svolgimento di una gara regolare». Lo scommettitore farebbe valere «un’i­stanza conservativa inerente al potere di autodeterminazione, giacché la scelta di scommettere su un certo risultato è stata assunta considerando un calcolo delle probabilità falso». Non si tratterebbe, sostiene Azara, «di postulare un fantomatico “diritto soggettivo alla verità dell’informazione”, ma di valutare il modo in cui l’inter­ferenza del terzo (autore della frode) ha turbato l’esercizio del potere autonomo riconosciuto al consumatore». Conseguentemente, ragionando proprio sulla modalità della condotta, si dovrebbe mettere in luce come «l’agire frodatore sia caratterizzato da male fede e totale noncuranza di tutti gli interessi che si raccolgono intorno all’e­vento sportivo». Il comportamento fraudolento sarebbe, inoltre, determinato da interessenze economiche dirette o indirette, sicché non si rintraccerebbe «una ratio volta a garantirne l’immunità».

Lo scommettitore, dunque, potrebbe «lamentare il vulnus al proprio potere di autodeterminarsi razionalmente: il contratto di gioco è stato concluso considerando un calcolo di probabilità che non contemplava il fatto fraudolento del terzo». Per compiere il passo decisivo verso il risarcimento occorrerebbe, però, dimostrare che «lo scommettitore abbia effettivamente eseguito la puntata dopo aver conosciuto l’alea esposta dal­l’organizzatore». Il danno sarebbe configurabile se il privato fosse stato indotto in errore e, dunque, se avesse scommesso conoscendo le probabilità di vittoria che la controparte deve ex lege rappresentare. In questo caso, si osserva, «soccorre la presunzione di conoscenza», in quanto, «considerata la loro grande diffusione e pubblicità, lo scommettitore non potrebbe sostenere di non aver preso visione delle “formule di avvertimento” circa le probabilità di vincita». Esse, infatti, si presumono conosciute per il solo fatto di essere conoscibili. Dunque, «in una rilettura della disciplina volta a tutelare lo scommettitore-consumatore, la presunzione di conoscenza potrebbe essere invocata verso il terzo autore della frode». E sarà quest’ultimo a dover dimostrare (ma la probatio è diabolica) che lo scommettitore ha compiuto la giocata senza conoscere l’alea della scommessa fondata sulla gara genuina [78].

Non sembrerebbe, invece, secondo la ricostruzione suggerita, «che lo scommettitore possa chiedere, a titolo di danno emergente, una somma pari alla puntata: la spesa compiuta è il presupposto necessario e indeclinabile per vantare una chance; senza la puntata non esiste alcuna possibilità». Ne consegue che il risarcimento della chance postula l’esistenza di un sacrificio economico (la puntata), il quale non potrà essere oggetto di risarcimento [79].


8. Fenomeno sportivo e fonti private

Come si è anticipato, il c.d. ordinamento sportivo vieta ai soggetti ad esso appartenenti di effettuare o accettare scommesse su avvenimenti ai quali partecipano o sui quali possono comunque influire [80]. I contratti stipulati in violazione dei regolamenti federali sportivi sollevano il problema delle conseguenze derivanti dalla inosservanza di siffatte disposizioni.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, largamente criticato dagli interpreti, la violazione delle norme dell’ordinamento sportivo non può non riflettersi sulla validità di un contratto concluso tra soggetti sottoposti a dette regole anche per l’ordinamento dello Stato, poiché se esse non ne determinano direttamente la nullità per violazione di norme imperative, incidono necessariamente sulla funzionalità del contratto medesimo: vale a dire sulla sua idoneità a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322, comma 2, c.c.).

Ad avviso della giurisprudenza non potrebbe «ritenersi idoneo, sotto il profilo della meritevolezza della tutela dell’interesse perseguito dai contraenti, un contratto posto in essere in frode alle regole dell’ordinamento sportivo e senza l’osservanza delle prescrizioni formali all’uopo richieste proprio in quell’ordinamento sportivo nel quale detta funzione deve esplicarsi» [81].

La dottrina non ha mancato di denunciare come l’orientamento in esame ponga in essere, sia pur mediante il riferimento alla meritevolezza, una sorta di equiparazione tra le regole c.d. sportive e le norme imperative: il requisito della meritevolezza è, infatti, impiegato utilizzando non solo il parametro delle norme imperative, ma anche le regole dell’ordinamento sportivo, nonostante le stesse costituiscano il frutto dell’au­tonomia privata delle parti e siano vincolanti per i soli appartenenti all’ordina­mento sportivo.

Il rischio insito in questo orientamento, si avverte, risiederebbe proprio nel valutare le norme sportive, frutto dell’autonomia privata, alla stregua di norme imperative, la cui inosservanza determina, attraverso il ricorso alla meritevolezza, l’invalidità del contratto, finendo in questo modo per individuare un’ipotesi di nullità speciale non solo diversa, ma anche più gravosa rispetto a quella di fonte statale.

Deve rilevarsi come il problema dei rapporti tra ordinamento sportivo e ordinamento statale sia stato affrontato dalla giurisprudenza in esame in una prospettiva pluralistico-ordinamentale sulla scorta della teoria tradizionale della pluralità degli ordinamenti giuridici che, com’è noto, deve la sua elaborazione a Santi Romano. Proprio in forza della rigida separazione tra i due ordinamenti, e della negazione di una potestà normativa in capo alle federazioni in materia di rapporti intersoggettivi privati, la Corte reputa astrattamente leciti i contratti in esame nell’ordinamento statale, non potendo la norma federale assurgere al rango di norma imperativa in questo ordinamento; tuttavia, la nullità del contratto nell’ordinamento sportivo ridonderebbe nell’ordinamento statale attraverso il giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti che fungerebbe da «cerniera» [82] tra i due ordinamenti.

Ne emerge un peculiare significato del giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. di cui si è fatta una applicazione irriducibile [83] alle principali ricostruzioni offerte sin ora dalla dottrina e dalla giurisprudenza [84].

La dottrina tradizionale afferma che le norme sportive, in quanto espressione di un potere spettante a qualsiasi istituzione privata di darsi regole nel proprio ambito secondo i canoni dell’autonomia privata, non potrebbero essere assimilate alle norme giuridiche. Le norme sportive, fondate sul consenso degli appartenenti alle federazioni, devono essere considerate invece espressione dell’autonomia privata degli associati e, in forza della natura prettamente negoziale, non possono essere confuse con le norme imperative, dovendosi conseguentemente escludere che l’inosservanza delle norme statutarie o regolamentari possa rilevare sotto il profilo della violazione di legge con conseguente nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

A destare perplessità, a ben vedere, è proprio la circostanza che il giudizio sia effettuato impiegando quale parametro di riferimento le norme federali alle quali la stessa giurisprudenza nega il carattere imperativo, riconducendole piuttosto alla figura del contratto normativo. Né può sostenersi che le regole contenute nei regolamenti sportivi siano espressione del sentire etico di una data comunità in un certo contesto storico, ovvero dell’ordine pubblico.

La potestà statutaria e regolamentare [85] delle federazioni sportive deve essere ricondotta, pertanto, al più generale potere di autonomia privata che l’ordinamento riconosce ad ogni formazione sociale, così come ha espressamente affermato anche la Corte costituzionale [86].

Sulla scorta di queste premesse, la dottrina tradizionale [87] afferma che le norme sportive, in quanto espressione di un potere spettante a qualsiasi istituzione privata di darsi regole nel proprio ambito secondo i canoni dell’autonomia privata, non potrebbero essere assimilate alle norme giuridiche. Le norme sportive, fondate sul consenso degli appartenenti alle federazioni, devono essere considerate invece espressione del­l’autonomia privata degli associati e, in forza della natura prettamente negoziale, non possono essere confuse con le norme imperative, dovendosi conseguentemente escludere che l’inosservanza delle norme statutarie o regolamentari possa rilevare sotto il profilo della violazione di legge con conseguente nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

È a ben vedere la stessa giurisprudenza [88] ad escludere espressamente la natura imperativa delle norme federali e a richiamare, per contro, la controversa figura del contratto normativo [89] proprio per qualificare la natura giuridica dei regolamenti in esame.

La idoneità dei regolamenti federali a dettare regole che abbiano caratteri di norme giuridiche è un tema molto dibattuto e sul quale si registra un vivace contrasto tra gli interpreti, potendosi isolare, da un lato, l’opinione legata alla tradizionale separazione tra gli ordinamenti, che nega alle regole delle federazioni sportive il valore di norme giuridiche, sulla scorta della considerazione che il potere statutario e regolamentare esercitato dalle federazioni costituisce espressione del più generale potere di autonomia privata e ciò non consentirebbe di ascrivere ad esse una valenza maggiore rispetto a quella riconosciuta a qualsiasi regolamento contrattuale; dall’al­tro, l’opposto orientamento che, in forza del principio di sussidiarietà [90] orizzontale di cui all’art. 118, ult. comma, Cost., supera l’impostazione pluralista e riconosce ai regolamenti sportivi l’attitudine ad esprimere discipline che abbiano caratteri di norme giuridiche, finanche imperative. Sulla scorta del principio di sussidiarietà orizzontale, inteso come norma sulla competenza che abilita il regolatore privato a produrre la disciplina della materia stessa, si ritiene che gli atti di autonomia regolamentare valgano per i singoli contratti come vere e proprie norme imperative, la cui violazione è causa di nullità del contratto [91].

Entrambe le tesi non revocano in dubbio la qualificazione dei regolamenti federali come espressione dell’autonomia privata, ma è nell’inclusione della stessa autonomia privata tra le fonti del diritto, ed in particolare sull’attitudine dei regolamenti federali a realizzare norme giuridiche, finanche imperative, che si ravvisa la distanza tra le due impostazioni.

Le riflessioni sul contratto come fonte del diritto affondano le radici nello scorso secolo, ma l’attenzione verso il tema della formazione negoziale del diritto in questi anni non è scemata, al contrario, è stata stimolata da un processo di continua diffusione di un diritto che nasce dal basso, ossia dalle organizzazioni della società civile, e si misura con la progressiva crisi dello Stato e con la perdita di centralità della legge [92]. Non solo il Codice civile ha perduto la sua centralità nel sistema delle fonti, ma è la stessa legge speciale, che aveva dato origine all’età della decodificazione [93], ad arretrare e a lasciare spazio al nuovo ruolo normativo dei privati in un lungo processo originato dalla progressiva emersione delle autonomie dei gruppi sociali. L’emergere dei gruppi organizzati evidenzia l’inadeguatezza e l’insufficienza di quelle dottrine che concepiscono il diritto come il prodotto esclusivo della volontà dello Stato e in questa prospettiva è grazie al pensiero di Santi Romano che si apre la strada al superamento delle dottrine statualistiche del diritto.

Alla riduzione dell’intervento statale corrisponde simmetricamente una rinnovata fiducia nell’autonomia, intesa non più e non solo come manifestazione di libertà, quanto piuttosto nel suo essere espressione del potere dei privati, potere di creare, in concorso con altre fonti, regole di condotta, norme giuridiche [94]. Muovendo anche dal significato etimologico della parola autonomia, la dottrina ciclicamente afferma come essa suggerisca qualcosa di più che non la semplice libertà di agire, atteggiandosi piuttosto come potere di creare, entro i limiti [95] imposti dalla legge e dalla Costituzione, delle norme giuridiche [96].

Al riguardo, può ricordarsi, sia pur in estrema sintesi, come l’idea del contratto come norma accomuni diverse scuole di pensiero anche distanti tra loro [97]. Già le risalenti concezioni normativistiche annoveravano il contratto tra le fonti del diritto, sebbene sia privo dei caratteri della generalità e dell’astrattezza [98]. La stessa idea informa anche concezioni antitetiche a quella Kelseniana, come la teoria istituzionale di Santi Romano. Per molte istituzioni sarebbe proprio il contratto a fondare quegli ordinamenti privati che si affiancano allo Stato con pari dignità. Il concetto di istituzione e poi quello di diritto dei privati [99] spiegherebbero il fenomeno delle formazioni sociali che, pur in assenza dell’espresso riconoscimento di un potere normativo, darebbero comunque vita a regole per disciplinare i rapporti tra soggetti membri della formazione o con soggetti tenuti ad uniformarsi a tali prescrizioni.

Più di recente, con riguardo alle fonti private, l’autoregolamentazione è considerata espressione del principio di sussidiarietà orizzontale in forza del quale lo Stato investe i privati di compiti tradizionalmente propri della sfera pubblica per il perseguimento di finalità ultra-individuali che giustificherebbero l’estensione degli effetti delle norme di fonte privata oltre l’ambito di coloro che le hanno poste, al pari di quanto si verifica nel diritto di derivazione statale. Si prospetta una ulteriore fase della crisi del diritto di fonte statale nella quale si assiste all’inarrestabile transizione da un diritto che si produceva in forma gerarchica a un diritto che viene scritto da soggetti diversi, dando vita ad un sistema di fonti flessibile che non è più ordinato in modo verticale, ma orizzontale.

Proprio sulla scorta del principio di sussidiarietà si ritiene che le federazioni siano null’altro che dei regolatori privati; sarebbe proprio la sussidiarietà ad abilitare l’autonomia privata che sotto questo profilo è da considerarsi fonte del diritto [100].

La teoria che si è formata intorno al principio di sussidiarietà suscita una serie di perplessità in quanto la stessa, almeno con riguardo al fenomeno sportivo, sembra si limiti ad evocare il principio, come se lo stesso da solo possa valere a coprire lo spostamento del potere normativo da un soggetto ad un altro [101] anche allorquando si sia in presenza, come nel caso delle federazioni sportive, di indici normativi dai quali non si ricava affatto una generale delega normativa alle federazioni in materia di rapporti intersoggettivi tra privati di carattere negoziale, come in precedenza si è evidenziato [102].

Affermare, inoltre, che le norme private operano con la stessa forza di legge sugli ulteriori atti di autonomia regolati dalla fonte privata, non pare persuasivo. La circostanza che l’art. 118, ultimo comma, Cost. si rivolga allo Stato, nelle sue varie articolazioni, per favorire l’autonoma iniziativa privata per lo svolgimento di attività di interesse generale non comporta un’automatica assimilazione del contratto alla legge.

Occorre piuttosto rilevare che i regolamenti federali, sebbene in forza del principio di sussidiarietà, possono essere considerati fonti del diritto, non smarriscono la propria natura negoziale. La sussidiarietà darebbe un nuovo fondamento, una nuova giustificazione teorica di norme autoprodotte, ma non offre argomenti sicuri per risolvere la questione più spinosa, ossia se i regolamenti federali siano solo mere espressioni del­l’autonomia privata o piuttosto assumano il rango di norme giuridiche al pari di quelle dell’ordinamento statale.

Il richiamo, poi, alla valenza persino imperativa delle norme di fonte privata abilitate dalla sussidiarietà costituisce un ulteriore profilo di criticità della tesi in esame. E non è un caso che i suoi sostenitori sono costretti ad affermare, più che a dimostrare, la natura imperativa dei regolamenti federali. Una assimilazione, questa, espressamente negata dalla stessa giurisprudenza, che non ha mancato di recidere ogni identificazione dei regolamenti federali con le norme imperative.

Nel tentare di dare una risposta all’interrogativo iniziale, ossia pensare i regolamenti federali come norme giuridiche, al pari di quelle statali o piuttosto mere espressioni dell’autonomia privata, può rilevarsi che la risposta non può essere univoca, dipendendo dal diverso modo di atteggiarsi del rapporto tra la regola privata e l’ordi­namento giuridico generale. Le norme del diritto sportivo restano confinate in quel­l’or­dinamento, salvo che non sia la stessa legge statale ad attribuire ad esse rilevanza nell’ordinamento generale attraverso un espresso rinvio. Così ragionando, ne consegue che la violazione dei regolamenti federali, stante la natura di contratto normativo, non può incidere in sé e per sé né sulla validità né sull’efficacia dei singoli contratti. Il potere statutario e regolamentare esercitato dalle federazioni costituisce espressione del più generale potere di autonomia privata e ciò, come si è già rilevato, non consentirebbe di ascrivere ad esse una valenza maggiore rispetto a quella riconosciuta a qualsiasi regolamento contrattuale, a meno che non sia la legge, attraverso un intervento sussidiario rispetto all’autonomia privata, a riconnettere detti effetti alla violazione degli stessi attraverso un concorso cooperativo di fonti diverse (fonti private e fonti pubbliche, contratti individuali e accordi fra le rappresentanze degli interessi regolati) [103], rafforzando la valenza del contratto normativo e garantendogli, per esempio con la sostituzione [104] di clausole peggiorative difformi rispetto al contratto tipo, la qualità di inderogabilità e imperatività di cui è sprovvisto e al tempo stesso la conservazione del contratto.

Il ragionamento della Corte, applicato allo specifico caso delle scommesse sportive, appare oltremodo improprio allorché si ragioni muovendo da una circostanza imprescindibile ai nostri fini: nel caso da cui abbiamo preso le mosse il giocatore-gareggiante è al tempo stesso scommettitore, e trattandosi di giochi nei quali l’abilità concorre con l’alea, talvolta persino annullandola, è evidente che la mancanza di alea nella gara, per opera dello stesso scommettitore, incide inevitabilmente sulla validità della scommessa. Ma non per un difetto di meritevolezza legato all’inadempimento del regolamento federale, come sostiene la Corte.

Il discorso può estendersi anche alle ipotesi in cui vi sia una violazione delle regole del regolamento di gioco predisposto non già da una federazione sportiva, ma dallo stesso organizzatore del gioco pubblico. E, al riguardo, si segnala in giurisprudenza una pronuncia particolarmente interessante ai nostri fini [105] in quanto concerne proprio la violazione delle regole del regolamento di gioco.

La vicenda muove da una scommessa autorizzata concernente una corsa di cavalli ed avente ad oggetto un caso quanto mai singolare, che per chiarezza occorre riportare nei suoi tratti essenziali.

Uno scommettitore aveva effettuato numerose “puntate” in un tempo successivo all’allineamento dei cavalli al nastro di partenza. Il ricevitore, ciononostante, aveva accettato le scommesse, violando così quella disposizione del regolamento in forza della quale le scommesse potevano essere effettuate esclusivamente prima del momento dell’allineamento dei cavalli ai nastri di partenza. I giudici di merito avevano accolto la domanda del giocatore avente ad oggetto la condanna del gestore al pagamento della posta, in quanto si è affermato che la disposizione regolamentare violata fosse rivolta non già allo scommettitore, ma al gestore.

La Suprema Corte, condivisibilmente, ha disatteso l’argomento fondato sulla regola di condotta per concentrarsi sulla causa delle scommesse legalmente autorizzate. Il numero delle scommesse e delle vincite di quel singolo scommettitore avrebbe dovuto essere valutato come indice della soggettiva conoscenza, da parte dello scommettitore, del risultato delle corse, o di altre circostanze che lo ponevano in una condizione privilegiata rispetto agli altri. E sarebbe proprio la probabile, soggettiva conoscenza del risultato della corsa, a suggerire alla Cassazione di impostare la motivazione della decisione non già sulle regole di comportamento, ma sulla causa del contratto [106].

Analoghe argomentazioni si ritrovano nel caso ancor più eclatante della scommessa, sempre su corse di cavalli, accettata dopo che l’ordine di arrivo era già consultabile sui monitor e in quella occasione si è stabilito che: «elemento essenziale della scommessa su un pronostico è l’oggettiva incertezza del risultato, sì che l’assenza di tale requisito determina la nullità del rapporto per difetto di causa» [107].


9. Dalla tutela ex post alla tutela ex ante: la tacita abrogazione dell’art. 1934, comma 2, c.c.

L’analisi sin qui condotta ci ha mostrato come le scommesse sportive che hanno ispirato il legislatore del 1942 non sono che un relitto storico, di un tempo che non c’è più; un affare tra privati esiliato dal mercato regolato e dalla diffusa realtà sociale. La virtutis causa che giustificava la maggiore meritevolezza era il frutto dei condizionamenti morali di un legislatore forse ancora legato alla tradizione romanistica.

Oggi, i giochi e le scommesse si caratterizzano sempre più come contratti di erogazione di servizi di gioco nei quali l’autorizzazione è elemento imprescindibile. Al controllo ex post, teorizzato dall’art. 1934, comma 2, c.c., si è sostituito un controllo ex ante, affidato proprio all’autorizzazione, nonché alle molteplici regole informative, nonché agli istituti dell’autoesclusione e dell’autolimitazione, che sono volti a sollecitare la razionalità dello scommettitore e del giocatore, attraverso strumenti volti a stimolare la sua autoresponsabilità.

L’art. 1934, comma 2, c.c. deve dunque ritenersi inapplicabile alle scommesse legalmente autorizzate e ciò non in forza del fragile argomento per il quale dovrebbe escludersi, in via generale, la stessa eccessività della posta, che sembrerebbe provare troppo, quanto piuttosto perché, proprio muovendo dalla autorizzazione, se si ammette che il contratto è dotato di causa lecita e meritevole, in funzione degli interessi di volta in volta sottesi all’autorizzazione, l’attribuzione al giudice di un potere di riduzione delle condizioni economiche della scommessa o del gioco, liberamente concordate dalle parti, non si giustificherebbe.

Come ha osservato la migliore dottrina, la riduzione della posta trova giustificazione nel solo caso si applichi alla fattispecie contemplata dall’art. 1934 c.c., ossia le scommesse legate alla valorizzazione dello sport, nelle quali, «sulla logica squisitamente contrattuale della pattuizione della posta, prevale la considerazione della utilità sociale dello sport» [108]. Altra sarebbe la logica che ispira le scommesse autorizzate in vista del puro ed esclusivo interesse dello scommettitore a lucrare la posta.


NOTE

[1] Il lemma complessità è ricorrente negli scritti recenti. Il diritto del ventunesimo secolo, scrive M. Palazzo, Il contratto nella pluralità degli ordinamenti, Napoli, 2021, p. 20, è il diritto della complessità; richiamano la complessità anche P. Rossi, La fine del diritto? Bologna, 2009; M. Orlandi, Ripartire dalla lentezza, in Nuovo dir. civ., 2016, 1, p. 5, il quale richiama «la complessità inestricabile delle fonti»; M. Trimarchi, Complessità e integrazione delle fonti nel diritto privato in trasformazione, Convegno in onore di Vincenzo Scalisi, (Messina 27-28 maggio 2016), Milano 2017, p. 27; P. Perlingieri, Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica, in Riv. dir. civ., 2010, p. 317; e, su un piano più generale, la complessità è richiamata anche da E. Morin, Oltre l’abisso, Roma, 2016, passim.

[2] Così lo qualifica L. Modica, Del giuoco e della scommessa, in Il Codice civile, Commentario, fondato e già diretto da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2018, p. 3.

[3] C. Manenti, Del gioco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato, romano e moderno. Appendice alla traduzione ed annotazione del titolo V, De aleatoribus, del libro XI del Commentario alle Pandette di Glück, Milano, 1898-1899, p. 585.

[4] M. Palazzo, op. cit., p. 100; sulla postmodernità si veda di recente F. Di Marzio, Ordinamento del contratto, editoriale dell’8 febbraio 2023, in Giustizia civ. com, p. 7, nonché il lavoro di F. Denozza, Il viaggio verso un mondo re-incantato? Il crepuscolo della razionalità formale nel diritto neoliberale, in Oss. dir civ. e comm., 2016, 2, pp. 419 ss., il quale, prendendo spunto dal «weberiano problema del rapporto tra razionalità formale, calcolabilità e modernità del diritto» che «Natalino Irti ha portato al centro dell’attenzione» (il riferimento è ad una serie di saggi ora raccolti in N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016), apre la sua ricerca con un suggestivo interrogativo: «un diritto come quello attuale, che sembra essere diventato sostanzialmente incalcolabile, si muove ancora nell’alveo della modernità, sta tornando al mondo incantato del premoderno o avanza verso un irrazionalismo postmoderno?». Particolarmente significativa è, tra le varie questioni indagate, quella che riguarda «la struttura interna degli ordinamenti moderni» (corsivo nostro).

[5] Si veda in questo senso, tra gli altri, B.G. Mattarella, Introduzione, in AA.VV., Le regole dei giochi. La disciplina pubblicistica dei giochi e delle scommesse in Italia, a cura di A. Battaglia, B.G. Mattarella, Napoli, 2014, p. 3, il quale osserva come per il settore dei giochi vi sia «un serio problema di inflazione normativa, di rapporti tra fonti, di contraddittorietà tra norme e quindi di arbitrarietà nella loro applicazione, di eccesso di discipline derogatorie e transitorie»; L. Saltari, Il regime giuridico dei giochi e delle scommesse. Ragioni per un cambiamento, in Munus, 2012, 2, p. 2, nel sollecitare la redazione di un testo unico in materia di giochi suggerisce, condivisibilmente, di anteporre alla disciplina vigente una parte generale che racchiuda i principi cardine della materia nell’intento di garantire la trasparenza e la certezza del diritto.

E occorre riconoscere, proprio nella prospettiva segnalata da Saltari, che l’opera curata da Battaglia e Mattarella, da apprezzare per lo sforzo di compilazione e riconduzione a sistema, potrebbe effettivamente agevolare un legislatore illuminato che, come si augura lo stesso Mattarella a p. 3 della Introduzione: «volesse restituire ordine e certezza a un sistema normativo di importanza crescente». Anche la Corte costituzionale ha rimarcato già da tempo la necessità di un complessivo riordino normativo della materia: Corte cost., 24 giugno 2004, n. 185, in Pluris.

[6] Così N. Irti, La stanchezza di obbedire a regole mutevoli e oscure, in Lo Spettatore, Milano, 2022, p. 38.

[7] F. Santoro-Passarelli, Giuoco e scommessa – Mutuo per gioco, in Riv. dir. civ., 1941, p. 471: «ciò che veramente caratterizza il giuoco è (che) (…) deve trattarsi appunto di giuoco», ossia di una attività «ideata o realizzata per divertire»; C. Furno, Note critiche in tema di giochi, scommesse e arbitraggi sportivi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, p. 643; e, più di recente, L. Ferri, Recensione a A. Fedele, Gioco o scommessa? in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p. 150, il quale osserva come nella comune opinione, nel comune vocabolario le due voci sono ben distinte e distinguibili. E questa circostanza renderebbe evidente che il legislatore, riferendosi a concetti extragiuridici, non può che assumerli come sono.

[8] C. Furno, Note critiche in tema di giochi, scommesse e arbitraggi sportivi, cit., p. 649, nota 72, osserva che «giocare non vuole infatti dire, propriamente, “puntare” (ossia scommettere), ma solo eseguire, svolgere il gioco secondo le sue regole. Se gioco e giocare hanno assunto nel parlar comune e volgare anche il senso di “puntare”, scommettere, ciò è dipeso dalla contaminazione e dallo scambio frequente dei rispettivi significati, dovuto al fatto che bene spesso la scommessa si mescola e si confonde col gioco»; anche A. Fedele, Giuoco o scommessa?, in Riv. dir. comm., 1948, p. 2, richiama l’imprecisione del linguaggio comune.

Sull’influenza del linguaggio comune e del linguaggio dei giuristi tra i quali correrebbe un rapporto di reciproca influenza, ove il primo risulta arricchito di voci e frasi coniate dal diritto e sua volta il diritto fa proprie le forme espressive della lingua comune, si veda, nella manualistica, P. Rescigno, Manuale di diritto privato, edizione a cura di G.P. Cirillo, Milano, 2000, p. 30; si veda, inoltre, il recente contributo di I.L. Nocera, Linguaggio e sapere giuridico: note per una moderna formazione del giusprivatista, in Nuovo dir. civ., 2022, 4, pp.186 ss.

[9] Ricche di affascinanti suggestioni sono le pagine di L. Saviani, Ermeneutica del gioco. Dal gioco come simbolo alla decostruzione come gioco, Napoli, 1998, p. 176, che ripercorre in una carrellata densa di spunti di riflessione le intuizioni suggerite da Fink, Heidegger, Nietzsche, Gadamer e Derrida, ricordando come il gioco non si possa definire, potendosi al massimo descriverne alcune circostanze e alcuni effetti.

[10] C’è il gioco solitario del bambino e il gioco che coinvolge più giocatori; c’è il gioco senza regole e quello regolato; c’è il gioco di abilità e quello di sorte; c’è il gioco istantaneo e quello di durata; c’è il gioco fine a se stesso e quello volto a premiare un vincitore, al cui interno è ancora possibile distinguere il premio dell’alloro dalla vittoria di una somma di danaro o di altre utilità suscettibili di valutazione economica; c’è il gioco che eleva e il gioco che trascina nel baratro e ciascuna di queste specie potrebbe variamente combinarsi con le altre consegnandoci ancora altri tipi. Si sofferma sulla pluralità del gioco con un ricco e significativo elenco di esempi: L. Modica, Del giuoco e della scommessa, cit., p. 5; ma, prima ancora, si veda la ricerca di A. Cappuccio, Rien de mauvais”. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei codici, Torino, 2011, p. 22 ss.

[11] L. Modica, op. cit., p. 6.

[12] È fin troppo banale ricordare al lettore che desideri indagare il fenomeno ludico da una prospettiva antropologica o sociologica il riferimento a J. Huizinga, Homo ludens, Haarlem, 1938; o F.M. Dostoevskij, Igrok, Moskva, 1866, trad. it., Il giocatore, Verona, 1933. Quanto al primo e imprescindibile riferimento a J. Huizinga, Homo ludens, si segnala, in particolare, l’edizione Einaudi del 1973, con un saggio introduttivo di Umberto Eco.

Meno note sono le ricerche di P. Bourdieu, La distinction, Les éditions de minuit, Paris, 1979, trad. it., La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, 2001, p. 217 ss., in cui l’Autore analizza il rapporto che corre tra sport e classi sociali; nonché H. Hesse, Il gioco delle perle di vetro. Saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi, trad. it., di E. Pocar, Introduzione, di H. Mayer, ristampa 2021 dell’ed. del 1943, per Oscar Moderni, Mondadori; R. Dawkins, The selfish gene, Oxford, 1976, trad. it., Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Milano, 1992, pp. 60 ss.; S. Guitry, Memorie di un baro, trad. di D. Tortorella, Postfazione, di E. Franzosini, Milano, 2022, passim. Per una più ricercata e attenta bibliografia storica e sociologica, si rinvia all’opera monografica di A. Cappuccio, op. cit., passim.

[13] G.B. Ferri, La «neutralità» del gioco, in Riv. dir. comm., 1974, p. 28 ss. Per una efficace analisi critica dei controversi rapporti tra diritto e morale nel pensiero degli interpreti, si veda il recente lavoro di G. Perlingieri, La via alternativa alle teorie del diritto naturale e del positivismo giuridico inclusivo ed esclusivo. Leggendo Will J. Waluchow, in Annali SISDIC, 2020, 5, p. 69 ss.; e, ancor più di recente, F. Addis, Argomentazione «per principî» e individuazione della fattispecie «a posteriori», in Nuovo dir. civ., 2022, 3, p. 5 ss.

Limitando i riferimenti bibliografici ai contributi più significativi, si segnalano, in argomento, seguendo un ordine cronologico: E. Gianturco, Gli studi di diritto civile e la questione del metodo in Italia, (1881), in Id., Opere giuridiche, I, Roma, 1947; T. Perassi, Introduzione alla scienze giuridiche, Terza ristampa, Padova, 1967, p. 9 ss., il quale analizza il rapporto tra società e norme sociali; U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, (1960), Introduzione, a cura di A. Catania, M. Jori, Napoli, 1997; N. Bobbio, Il positivismo giuridico, Torino, 1961, passim; Aspetti del positivismo giuridico (1961), in Id., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Roma-Bari, 2011, p. 88; Id., Teoria della norma giuridica (1958), in Id., Teoria generale del diritto, Torino, 1993; Id., Giusnaturalismo e positivismo, in Enc. sc. soc. Treccani, IV, Roma, 1994, p. 365 ss.; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1966, passim; Santi Romano, Frammenti di dizionario giuridico, Ristampa inalterata, Milano, 1983, p. 65 ss., il quale prende le mosse nella sua ricerca dalla distinzione del diritto dalla morale nella filosofia e nella giurisprudenza; L. Mengoni, Interpretazione e nuova dogmatica, in Id., Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, p. 74; A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, I, Teoria generale del diritto, Milano, 1999, p. 351 ss.; V. Giordano, Il positivismo e la sfida dei principi, Napoli, 2004; R. De Stefano, Il problema del diritto non naturale, Milano, 1955; P. Perlingieri, La “grande dicotomia” diritto positivo-diritto naturale, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori. Problemi del diritto civile, Napoli, 2006; N. Irti, Diritto senza verità, Roma-Bari, 2011, passim; e si veda anche Id., Riconoscersi nella parola, Napoli, 2020, spec. p. 107 ss.; K.H. Ilting, Hegel. La morale, il diritto, la politica, Lavis, 2015, passim; N. Lipari, Intorno ai «princípî generali del diritto», in Riv. dir. civ., 2016, p. 28 ss.; si segnalano, poi, le dense e suggestive pagine di F. Denozza, Il viaggio verso un mondo re-incantato?, cit., spec. p. 427 ss., dove l’Autore sintetizza in modo efficace e persuasivo le differenze essenziali tra i due sistemi: «fattispecie e sussunzione vs clausole generali e bilanciamento»; si vedano ancora, P. Femia, La via normativa. Pietro Perlingieri e i valori costituzionali, in G. Alpa, F. Macario (a cura di), Diritto civile del novecento: scuole, luoghi, figure dei giuristi, Milano, 2019, p. 359 ss.; e M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica. Uno studio di diritto privato, Bologna, 2021, p. 172 ss.

[14] In una prospettiva economico-sociale la cifra caratteristica del gioco è stata ravvisata nella sua inutilità, nella sua non serietà, contrapponendosi al lavoro, che si distingue dal gioco per la sua serietà e per essere rivolto ad un fine di utilità. Così, C. Manenti, Del gioco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato, romano e moderno, cit., p. 585; nonché Id., Del debito di gioco in rapporto alla teoria delle obbligazioni naturali, in Riv. dir. comm., 1915, I, p. 97.

[15] Tra i primi a puntualizzare questo aspetto è A. Pino, Il giuoco e la scommessa e il contratto aleatorio, in AA.VV., Studi in onore di F. Santoro Passarelli, Napoli, 1972, p. 787; ripreso poi anche da G. Capaldo, Contratto aleatorio e alea, Milano, 2004, p. 214, la quale, condivisibilmente, afferma «ininfluenti sono la suddivisione dei giuochi in proibiti, non proibiti e validi e quella che ordina i giuochi e le scommesse in scommesse d’azzardo, di abilità o miste. L’unica distinzione idonea ai fini della determinazione della regola applicabile (…) sembra essere quella tra debito munito di azione e debito non munito di azione».

[16] Su questo profilo nel diritto romano si veda lo studio di P. Ziliotto, Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato, in Teoria e storia del diritto privato, 2017, X, p. 1 ss.; e l’approfondita e critica ricerca di S. Brembilla, Provocat me in aleam ut ego ludam. Scommessa e giuoco nella prospettiva della dottrina e delle fonti, in SDHI, 75, 2009, p. 331.; nonché G. Impallomeni, In tema di gioco, in Sodalitas, Scritti in onore di Antonio Guarino, Napoli, 1984, p. 2331.

[17] E. Valsecchi, Voce Giuochi e scommesse (dir. civile), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 63.

[18] M. Paradiso, I contratti di gioco e scommessa, Milano, 2003, pp. 4-5.

Della incontrastabile ascesa della variante aliena di un tipo marginale, la scommessa autorizzata, parla D. Maffeis, Homo oeconomicus, homo ludens: l’incontrastabile ascesa della variante aliena di un tipo marginale, la scommessa legalmente autorizzata, (art. 1935 c.c.), in Contr. e impr., 2014, 4-5, p. 836 ss., il quale, condivisibilmente, esorta a «superare l’arcaica prospettiva che immiserisce il fenomeno della scommessa nella prospettiva del diniego di azione di cui all’art. 1933 c.c. per dedicarsi a studiare sia le scommesse comuni che vengono a formare l’industria del gioco sia quelle scommesse finanziarie che sono i derivati over the counter e ciò con una rilettura dell’art. 1935 c.c.»; più di recente, anche M. Grondona, Debiti di gioco e questioni restitutorie, in AA.VV., Giochi e scommesse sotto la lente del giurista, a cura di P. Costanzo, Genova, 2021, p. 28, il quale critica quanti pensano ancora al gioco e alla scommessa come un settore del diritto privato di importanza marginale.

[19] G. Perlingieri, La via alternativa alle teorie del diritto naturale e del positivismo giuridico inclusivo ed esclusivo, cit., p. 90, osserva come «(s)ociologia, religione, tecnologia, economia, cultura di un popolo sono componenti indefettibili nel processo applicativo del diritto, ma non possono sostituirsi o trasformarsi in uno strumento alternativo al dato positivo. Diversamente v’è il rischio di affidarsi alla “prassi”, al “diritto vivente”, alla “comunità interpretativa”, al “senso comune”, al “sentire sociale” e così via, i quali nel corso della storia hanno giustificato discriminazioni, schiavitù, segregazioni, nonché, in altre parole, la dittatura della maggioranza che accoglie quello che è “accettato” e non quello che è “giusto”».

[20] In argomento, si segnala lo scritto di N. Elias, E. Dunning, Sport e aggressività, Bologna, 1989, p. 13, ove il gioco nel pensiero di Elias sarebbe un’espressione culturale che, anche quando, come nel caso del loisir, assume la veste di soddisfazione di necessità biologiche, è sempre influenzato dalla società. Ma, a sua volta, la società definisce il gioco, il tempo libero attraverso la sua categoria limite rappresentata dal lavoro: da una parte, qualcosa di inutile, scherzoso, talvolta folle ‒ che, tuttavia, bisogna soddisfare perché dovuto a un impulso irrazionale ‒ dall’altra, la produzione, la razionalità, la serietà che hanno permesso alla società di esistere e quindi alla specie umana di non estinguersi a causa di un «bellum omnium contra omnes» di hobbesiana memoria.

[21] In particolare, come si evince dal Digesto 11.5.2.1, un senatoconsulto dettò un generale divieto di ludere in pecuniam, eccezion fatta per i giochi praticati virtutis causa (c.d. quintertium), il cui vincitore vantava il diritto di agire per ottenere la posta del gioco.

[22] P. Ziliotto, Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato, cit., p. 1 ss.; e S. Brembilla, Provocat me in aleam ut ego ludam, cit., p. 331 ss.; nonché G. Impallomeni, In tema di gioco, cit., p. 2331 ss; A. Cappuccio, “Rein de mauvais”. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei codici, Torino, 2011, p. 34; R. Ferroglio, Ricerche sul gioco e la scommessa fino al secolo XIII, in Riv. st. dir. it., 1998, p. 273.

[23] Per le scommesse concluse in forza di un nudum pactum al vincitore era concessa solo l’eccezione da opporre alla richiesta di restituzione di quanto pagato da parte del perdente.

[24] La materia fu poi regolata da Giustiniano all’interno del Codice al titolo «De aleae lusu et aleatoribus» in due costituzioni, nelle quali, da un lato, erano previste sanzioni penali per il gioco degli «equi lignei», e, dall’altro, si negava azione al vincitore per il pagamento della posta da parte del perdente, consentendo la ripetizione delle somme pagate, con azione trasmissibile agli eredi con prescrizione in cinquanta anni. La tutela legale era concessa solo per i giochi del c.d. «quintertium» purché la posta in gioco non fosse superiore ad un «solidum».

[25] A. Cappuccio, op. cit., p. 36.

[26] Indaga il rapporto tra la religione e la disciplina giuridica in materia di contratti di gioco e scommessa: G. Ceccarelli, Il gioco e il peccato. Economia e rischio nel tardo medioevo, Bologna, 2003; A. Cappuccio, op. cit., p. 37.

[27] J. Barbeyrac, Traité du jeu: où l’on examine les principales questions de droit naturel et de morale qui ont du rapport à cette matière, Amsterdam, 1709, p. 36.

[28] Si veda, di recente, sul punto E. Gabrielli, Alea e teoria del contratto. Una visione italiana, in Riv. dir. priv., 2020, 2, p. 167, il quale opportunamente osserva come la complessità del tema dell’alea e dei contratti aleatori è un tema antico, «poiché nel Codice di Napoleone, i contratti aleatori, frutto della teoria di Robert Pothier, erano considerati come una categoria autonoma, insieme a quelli sinallagmatici e a quelli onerosi, laddove nel codice civile italiano del 1865 erano collocati a fianco di quelli bilaterali e unilaterali e di quelli onerosi e gratuiti, senza recepire in tal modo la sistematica che, invece, era stata adottata da Robert Pothier e senza fornire, pertanto, una definizione formale dei nessi correnti tra le varie categorie.

Nell’attuale Codice civile italiano, di contro, la configurazione di Pothier, che intendeva i contratti aleatori come sottocategoria dei contratti onerosi, viene sostanzialmente ripresa e i contratti aleatori si pongono come species di quelli a prestazioni corrispettive». Segnatamente, si osserva, inoltre, come «(d)all’organizzazione sistematica del codice del 1942 appare, inoltre, in virtù del combinato disposto degli artt. 1468 e 1469, la possibile esistenza di contratti aleatori unilaterali».

[29] R.J. Pothier, Traité du jeu, Paris, 1767.

[30] Per una approfondita ricerca storica, si rinvia ad A. Cappuccio, op. cit., p. 102.

[31] B. Belotti, voce Giuoco, in Dig. it., XII, 1900-1904, p. 400.

[32] L’esperienza tedesca deve essere poi segnalata anche con riguardo ad un’altra disposizione di rottura rispetto alla tradizione francese e italiana. Invero, il §764 del BGB, prima che fosse abrogato nel 2002, regolava il rapporto tra debiti di gioco e scommessa e le speculazioni di borsa, prevedendo che tutti i contratti a termine che speculavano sulle differenze di prezzo iniziali e finali fossero qualificati alla stregua di contratti di gioco, con la conseguente applicazione della relativa disciplina. Stante la sua perentorietà, un considerevole numero di contratti di borsa era vietato in Germania fino a quando, nel 2002, il § 764 fu abrogato. Il § 764 è stato abrogato dal Vorschrift aufgehoben durch das Gesetz zur weiteren Fortentwicklung des Finanzplatzes Deutschland del 21 giugno 2002, che ha altresì previsto che la previsione del § 762 non si applica alle transazioni finanziarie, salvo alcune eccezioni. Si veda, in argomento, lo studio di A. Cappuccio, op. cit., p. 169 e il più recente lavoro di N. Coggiola, op. cit., p. 37.

[33] Si veda nella lettura italiana l’approfondita ricerca di A. Cappuccio, op. cit., p. 169, il quale, nell’intento di comprendere cosa avesse spinto il legislatore teutonico a scardinare il legame tra tutela dei giochi che richiedono impegno fisico e interessi della società, ha indagato le esperienze codificatrici che hanno preceduto il BGB.

[34] Il § 762 del BGB prevede, infatti, che tutti i giochi, così come gli accordi conclusi tra i giocatori per assicurare l’adempimento delle obbligazioni previste dal contratto di gioco o scommessa, siano privi di tutela. L’unica eccezione è regolata dal § 763 per il quale i soli contratti che consentono al vincitore di agire nei confronti del perdente sono i contratti di gioco e scommessa conclusi in base a lotterie o estrazioni autorizzate dallo Stato.

[35] Vedi, così, L. Modica, op. cit., p. 41.

[36] Opportunamente gli interpreti più sensibili alle trasformazioni sociali ed economiche del fenomeno ludico auspicano e hanno proposto una riforma degli artt. 1933-1935 c.c., e si veda, in questo senso: F. Bile, Per una rivisitazione del Codice civile in tema di diritti patrimoniali, in AA.VV., Materiali per una revisione del Codice civile, a cura di V. Cuffaro, A. Gentili, vol. I, Milano, 2021, p. 6. Si tratta, come si legge nella Presentazione, della raccolta dei materiali raccolti come «il frutto di una lunga ricerca svolta dall’associazione Civilisti Italiani negli anni tra il 2017 ed 2021 sulla possibilità di aggiornare il nostro Codice civile, rendendolo più rispondente ad esigenze che si sono manifestate nella società civile ed hanno in certi casi trovato eco nella giurisprudenza»; nel medesimo senso, già M. Paradiso, op. cit., p. 34; e da ultimo: P. Corrias, La gestione convenzionale dell’incertezza tra fenomeno ludico e mercato finanziario, in Riv. dir. banc., 2022, p. 368.

[37] Cfr., al riguardo, il punto n. 756 della Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice civile del 4 aprile 1942, che esplicitamente considera eccezionali entrambe le ipotesi per le quali è accordata piena tutela dagli artt. 1934-1935 c.c.

[38] G.B. Ferri, La «neutralità» del gioco, cit., p. 28; si tratta di una espressione oggi largamente impiegata dagli interpreti, si veda, ad esempio, da ultimo, nella manualistica G. De Donno, Manuale di diritto civile, a cura di G. Chiné, A. Zoppini, coordinato da L. Nonne, XIV ed., 2022-2023, profondamente rivisitata e aggiornata, Molfetta, 2022, p. 1831, ove si legge: «La disciplina relativa al giuoco ed alla scommessa è considerata “neutrale”, in quanto posta dal legislatore prescindendo da una valutazione di tipo morale o di liceità».

[39] L’irripetibilità in favore del vincitore è subordinata dunque alla presenza di quattro condizioni. Occorre anzitutto che non vi sia frode, il cui significato non si esaurirebbe nella malafede, ma sarebbe da intendersi come qualsiasi forma di slealtà e scorrettezza che sia scoperta dopo l’adempimento. Si veda, così L. Buttaro, Gioco, I) Gioco e scommessa (Dir. civ.), in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1989, p. 4, il quale distingue l’ulteriore ipotesi in cui vi sia stata alterazione incolpevole delle regole del gioco e in questo caso nega l’irripetibilità di quanto corrisposto dal perdente. Occorre, inoltre, la spontaneità del pagamento, reputandosi irrilevante l’ignoranza dell’incoercibilità del debito. Inoltre, la prestazione deve essere eseguita dopo l’esito del gioco e il perdente non deve essere incapace.

[40] Come di recente ha ben ribadito P. Corrias, La gestione convenzionale dell’incertezza, cit., p. 366, il fondamento della piena tutela, da parte dell’ordinamento, per le competizioni sportive si fonda sulla valenza positiva dello sport con riguardo alla salute e alla qualità della vita sulla conseguente meritevolezza di ciò che agevola tale attività, comprese le scommesse con le quali si puntano somme di danaro su eventi sportivi che rappresentano una fonte di finanziamento degli stessi. E, in questo senso, tra le più esplicite si segnala Pret. Roma, 17 luglio 1979, in Giust. civ., 1980, I, p. 503, secondo la quale una scommessa privata, relativa al campionato di calcio di serie A, conclusa da soggetti non partecipanti alla suddetta competizione sportiva, è riconducile all’ambito di applicazione dell’art. 1934 c.c. e non a quello dell’art. 1933 c.c.

In una prospettiva storica si vedano le pagine di U. Gualazzini, Premesse storiche al diritto sportivo, Milano, 1965, p. 1 ss.

[41] Richiama la rilevanza sociale e la meritevolezza di tutela degli interessi A. Pino, op. cit., p. 360, il quale, con riguardo ai giochi e alle scommesse regolate dall’art. 1933 c.c., suggerisce di pensarli come linea di confine tra validità e nullità; in essi non sarebbe ravvisabile «né illiceità, né immoralità», ma manca l’utilità sociale; analogamente è orientata G. Capaldo, op. cit., p. 131; nonché D. Carusi, Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 495 ss.; Id., La rilevanza del negozio nullo e l’interpretazione sistematica dell’art. 2035 c.c., in Riv. dir. civ., 2003, p. 346; e Id., Contratto illecito e soluti retentio. L’art. 2035 c.c. tra vecchie e nuove «immoralità», nella «Biblioteca di diritto privato» ordinata da P. Rescigno, Napoli, 1995; nella letteratura straniera G.H. Treitel, An outline of the law of contract, London, 1995, p. 37, il quale, muovendo dalla nullità che il paragrafo 18 del Gaming Act 1845 commina alle promesse di entrambe le parti nel caso di gioco e scommessa, rileva come la stessa si fonda «on the different policy grounds, wich, in each of the situations discussed, invalidate the promise or promises in question». Il testo del paragrafo 18 del Gaming Act 1845 prevedeva, infatti, una ipotesi di statutory illegality, stando alla quale sono nulli i contratti di gioco o scommessa e non si può recuperare quanto prestato in adempimento degli stessi.

[42] Vedi, in questo senso, L. Modica, op. cit., p. 101; e, sotto un profilo più generale, U. Breccia, Causa, in Tratt. Bessone, XIII, Il contratto in generale, III, Torino, 1999, p. 105.

[43] B.G. Mattarella, Introduzione, cit., p. 1, richiama la pluralità di interessi pubblici che il gioco regolato coinvolge. Interessi pubblici di primo piano, come quelli legati all’ordine pubblico, alla prevenzione di rilevanti patologie, alla lotta al riciclaggio finanziario e alla finanza pubblica. «Questi interessi hanno sempre giustificato un intervento penetrante da parte del legislatore e la recente evoluzione del fenomeno e delle forme di gioco ha acuito alcune esigenze sottese alla regolazione pubblica». Come, ad esempio, i rischi, sia per il giocatore, sia per il fisco, connessi al gioco on line. Ma si pensi poi, sottolinea Mattarella, al crescente affidamento che le manovre finanziarie fanno sulle entrate derivanti dal gioco, al punto da far dubitare che quella regolazione sia volta principalmente alla prevenzione degli abusi e patologie e da far ipotizzare un favor dell’ordinamento per il gioco, come attività a saldo positivo per la società, purché svolta nel rispetto delle norme di ordine pubblico e di quelle fiscali.

[44] D.l., 13 settembre 2012, n. 158, c.d. “decreto Balduzzi”. Si vedano, in particolare, gli artt. 5, comma 4, 7, comma 4-7, e 7, comma 10.

[45] D.l., 12 luglio 2018, n. 87, convertito con legge 9 agosto 2018, n. 96, c.d. “decreto dignità”. Sulle novità normative introdotte dal decreto richiamato si vedano le considerazioni di E. Tagliasacchi, La disciplina delle misure dirette a contrastare il fenomeno della ludopatia dopo il Decreto Dignità: sistema e tutele crescenti o occasione perduta?, in Corti supreme e salute, 2018, 2, p. 449 ss. e, più di recente, le attente considerazioni critiche di A. Zoppini, Diritto privato generale, diritto speciale, diritto regolatorio, in Ars Interpretandi, 2021, 2, p. 46,

[46] L’art. 5 del decreto Balduzzi ha poi provveduto ad aggiornare i livelli essenziali di assistenza (LEA) con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte a persone affette da ludopatia e, al contempo, l’art. 7, comma 5, ha imposto formule di avvertimento sul rischio di dipendenza della pratica di giochi con vincite in danaro, nonché obblighi di informazione sulle probabilità di vincita.

[47] R. Cassidy, Vicious Games. Capitalism and Gambling, London, 2020; il cui pensiero è ripreso recentemente da N. Coggiola, I contratti di gioco e scommessa, cit., p. 2.

[48] Cass., 17 gennaio 2013, n. 1163, in Dir. e giust., 18 gennaio 2013, con nota di F. Valerio, Il debito per gioco d’azzardo contratto all’estero è esigibile anche in Italia. La Suprema Corte ha precisato che «alla luce del sistema assiologico delineato dalla Costituzione e, più in generale, anche dal complesso delle fonti di diritto internazionale e comunitario non esiste più nel nostro ordinamento un disfavore nei confronti del gioco d’azzardo in quanto tale»; piuttosto, «l’area del gioco organizzato (non dissimile, nella sua essenza ontologica da quello d’azzardo “proibito”) sia venuta man mano ad estendersi dando luogo ad una vera e propria proliferazione dei punti di accettazione delle scommesse».

[49] Si richiama la Raccomandazione europea del 14 luglio 2014, n. 478, sui principi per la tutela dei consumatori e degli utenti di servizi di gioco d’azzardo on line e per la prevenzione dell’accesso dei minori ai giochi d’azzardo on line.

In dottrina la prima a segnalare la natura di servizi è stata N. Coggiola, Il doppio azzardo del giocatore: i contratti di gioco e scommessa in dottrina e in giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 2, p. 264; e Id., I contratti di gioco e scommessa, cit., p. 205, la quale evidenzia come la stessa giurisprudenza europea non nutre dubbi nel qualificare i servizi di gioco come attività economiche, al pari di qualsiasi altra fornitura di servizi.

[50] In questi termini: A. Nicolussi, op. cit., p. 8; e nello stesso senso già A. Musio, Gioco autorizzato e rimedi civilistici, Napoli, 2020, p. 82.

[51] Cfr., tra le altre, la legge Regione Piemonte, 2 maggio 2016, n. 9, recante «Norme per la prevenzione e il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico»; legge Regione Veneto, 27 aprile 2015, n. 6, «Disposizioni in materia di prevenzione, contrasto e dipendenza dal gioco d’azzardo patologico»; legge Regione Abruzzo, 29 ottobre 2013, n. 40, «Disposizioni per la prevenzione della diffusione dei fenomeni di dipendenza dal gioco».

[52] In argomento, si veda A. Marchese, I giochi e le scommesse, cit., p. 139.

[53] J. Huizinga, Homo ludens, cit., p. 13, descrive le caratteristiche del gioco, tra le quali evoca la sua limitazione nel tempo e nello spazio. In questa prospettiva, non vi sarebbe distinzione tra un gioco e un rito, in quanto il secondo si compie in un luogo e così «l’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio (…) tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi segregati, cinti, consacrati sui quali valgono le proprie e speciali regole. Sono dei mondi provvisori entro il mondo ordinario, destinati a compiere un’azione conchiusa in sé».

[54] Per comprendere l’evoluzione del pensiero di Huizinga si segnalano le dense pagine di U. Eco, nel­l’Introduzione, cit., p. XV, dove l’Autore ripercorre il passaggio dall’Autunno, all’Erasmo, a Homo ludens, trattandosi di un passaggio metodologicamente molto importante. In Homo ludens il principio del gioco è applicato anche a manifestazioni tipiche delle altre forme di cultura, «nella misura in cui vengono visti come gioco il diritto, la guerra, la filosofia, e ci si interroga sulla struttura ludica della scienza». In Homo ludens, insomma, il concetto di gioco si fa coestensivo a quello di cultura in tutte le sue forme possibili.

[55] R. CaIllois, I giochi e gli uomini, Milano, 2000, p. 46 e pp. 29-36, e si veda per una efficace sintesi F. D’Ambrosio, Huizinga, Caillois e Bateson: quando il gioco diventa oggetto di studio, in www.
sociologicamente.it:
ma anche L. Pignalosa, Il gioco dell’Armonia, Filosofia del Gioco/Roger Caillois, I giochi e gli uomini, in www.illavorodelloscrittore.wordpress.com.

[56] La duttilità che si riscontra negli studi sul gioco può essere riscontrata già semanticamente in quanto i concetti stessi di “gioco” e “giocare” sono espressi da parole fortemente imparentate ai concetti di recitare e di suonare: game, play, jouer, spielen. Dunque, è possibile accogliere, nel ventaglio di definizioni utili alla trattazione, quanto scritto nel vocabolario Treccani che descrive il gioco come «una qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedicano singolarmente o in gruppo, bambini e adulti (…) sviluppando ed esercitando allo stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive. (…). È una pratica consistente in una competizione fra due o più persone, regolata da norme convenzionali, il cui esito dipende in maggiore o minor misura dall’abilità dei singoli contendenti e dalla fortuna».

Riprendendo le parole e le osservazioni della dottrina filosofica più moderna che ha analizzato il fenomeno che stiamo indagando sotto un profilo sociologico e psicologico (L. Pignalosa, Il gioco del­l’Armonia, voce Filosofia del gioco, Meditazioni filosofiche e contrassegnata con filosofia del gioco, Homo Ludens, istinto ludico, Johan Huizinga, puerilismo, in www.illavorodelloscrittore.wordpress.com), si afferma che, come per Schiller, anche per Huizinga parlare del gioco non è un chiudersi alle problematiche “serie” della vita, al contrario legge, guerra, conoscenza, arte, mitologia, filosofia, politica, moralità ‒ tutti gli aspetti più importanti della cultura umana ‒ hanno una relazione fondante con il gioco. La critica alla società occidentale moderna dimostra che, negando spazio e dignità al gioco, questi stessi campi “seri” della cultura inevitabilmente degenerano insieme al senso ludico qualora questo sia rimpiazzato dal suo simulacro, il puerilismo. Lo «dimostra da un lato che c’è una crisi moderna, che è oggettiva (non è mera debolezza soggettiva), è profonda, grave, è sotto forma di una lenta ma inevitabile esplosione di puerilismo; dall’altro dimostra il bisogno di riconsiderare completamente il valore e la funzione del gioco nell’ambito della vita di ogni società: svalutarlo porta appunto con sé la crisi, perché giocare implica essere liberi e imparare l’autocontrollo, implica non fare trionfare sempre l’utile e separarsi dal corso meccanico e produttivo della vita (corsivo nostro)».

[57] Si ricordi, al riguardo, la pagina di Carnelutti nella quale, riprendendo l’articolo che Calamandrei ebbe la bontà di dedicargli (Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1949, I, p. 23), gli rimprovera di essersi «servito di un concetto del gioco affatto vago e indeterminato», F. Carnelutti, Giuoco e processo, cit., p. 102; ma, ancora, F. Carnelutti, Figura giuridica dell’arbitro sportivo, in Riv. dir. proc., 1952, p. 21, il quale, muovendo dall’interesse per un saggio di C. Furno (Note critiche in tema di giochi, scommesse e arbitraggi sportivi, in Riv. trim dir. proc. civ., 1952, p. 619), rimprovera al Furno, tra le altre, di aver confuso il gioco con lo scherzo.

[58] Com’è noto, la teoria tradizionale della pluralità degli ordinamenti giuridici deve la sua elaborazione a Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 2ᵃ ed., 1962, secondo il quale, in estrema sintesi, può configurarsi la sussistenza di un ordinamento giuridico ogniqualvolta si sia al cospetto di un insieme di soggetti organizzati in strutture predefinite e rette da regole certe. Gli elementi costitutivi degli ordinamenti giuridici sono dunque: una plurisoggettività, una normazione, un’organizzazione.

È altrettanto noto che l’applicazione della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici al fenomeno sportivo è opera di W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati (1929), in Id., Il corporativismo come esperienza giuridica, Milano, 1942, p. 29, al quale si riconosce il merito di aver affermato per primo la giuridicità dell’ordinamento sportivo, espressione del «diritto dei privati»; Id., La teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto sportivo, in Foro it., 1933, I, c. 1381. L’Autore, fermandosi a ragionare sul diritto sportivo, afferma che «principi e norme» dell’ordinamento sportivo sono «assolutamente irrilevanti» per la «legislazione statale» e «si sviluppano e vengono applicati per una loro intima forza incontrollata e incontrollabile dallo Stato»; M.S. Giannini, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, in questa Rivista, 1949, 1-2, p. 11, riprendendo il pensiero di Romano, afferma che l’Autore pose l’equazione: ordinamento giuridico = istituzione; istituzione = corpo sociale avente la propria esistenza in un insieme organizzato di norme, di meccanismi e ingranaggi, di collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme. Tuttavia, afferma Giannini (spec. p. 11), la nozione di ordinamento giuridico è «rimasta sempre nell’indistinto», ma questa indeterminatezza non ha impedito che della teoria della pluralità si facessero brillantissime applicazioni. Il pionieristico riconoscimento del fenomeno sportivo come ordinamento settoriale, che risale allo scritto del’49, è stato poi ripreso dallo stesso Autore a distanza di quasi cinquant’anni, Id., Ancora sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 671 ss.

Propongono l’applicazione delle teorie pluralistico-ordinamentali, seppure con diverse argomentazioni: A.E. Cammarata, Il concetto del diritto e la pluralità degli ordinamenti giuridici, in Id., Formalismo e sapere giuridico. Studi, Milano, 1963, p. 185 ss.; C. Capograssi, Alcune osservazioni sopra le molteplicità degli ordinamenti giuridici, in Riv. int. fil. dir., 1935, p. 9; F. Modugno, Pluralità degli ordinamenti, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, p. 32 ss., e, più di recente, C. Castronovo, Pluralità degli ordinamenti, autonomia sportiva e responsabilità civile, in Eur. dir. priv., 2008, p. 545, il quale efficacemente osserva come «per certi ambiti sociali non è la norma giuridica statuale a svolgere la funzione regolatrice, e lo Stato non impone la propria impronta e la propria supremazia ma sono queste formazioni sociali o come Romano preferisce chiamarle, istituzioni che si danno regole da sé, esercitando un’au­tonomia che l’ordinamento statuale rispetta. Questo è il caso dell’ordinamento sportivo», nei confronti del quale lo Stato ha lasciato che per determinati, significativi profili della vita sportiva siano le stesse formazioni sociali così qualificate a provvedere da sé, evidentemente avvertendo come invasiva la norma giuridica statuale; G. Facci, Il contratto immeritevole di tutela, in Contr. e impr., 2013, 3, p. 645 ss.

Le teorie tradizionali della pluralità degli ordinamenti giuridici sono state oggetto di critiche attraverso una diversa lettura del fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico unitariamente inteso e composto da una pluralità di fonti.

Si veda, tra i primi ad orientarsi in senso critico verso la ricostruzione del fenomeno sportivo secondo la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, L. Di Nella, Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1999, p. 83 ss.; Id., La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici: analisi critica dei profili storici e delle applicazioni al fenomeno sportivo, in questa Rivista, 1998, p. 38 ss.; P. Perlingieri, Riflessioni conclusive, in AA.VV., Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del terzo Convegno Nazionale della Società Italiana degli Studiosi del Diritto civile, 27-28-29 marzo 2008, Napoli, 2009, p. 718, il quale avvertiva come non si possa discorrere di ordinamento sportivo, in quanto «questo non dispone di un’autonoma legittimazione, ma si avvale di quella offerta dallo stesso ordinamento giuridico, il quale lo riconosce e garantisce, riconoscendogli, in base alla specificità del fenomeno, autonomia ma non indipendenza»; a p. 715 Perlingieri avverte, inoltre, come: «altro è discorrere di pluralità di ordinamenti con riguardo all’ordinamento canonico, oppure all’ordinamento ecclesiastico, espressioni di due distinte sovranità statali (…); altro è discorrere di pluralità di ordinamenti in presenza di autolimitazione della sovranità dello Stato, ex artt. 11 e 117 Cost., da parte ad esempio del diritto comunitario, inteso come ordinamento autonomo, altro, ancóra, è discorrere di pluralità di ordinamenti quale risultato di esercizio di poteri di autonomia riconducibili, di volta in volta, all’iniziativa economica privata, alla libertà associativa o, per dirla in termini generali, a manifestazioni di autonomia individuale o collettiva, quali fonti di autoregolamentazione»; ancora si vedano: A. Lepore, Responsabilità civile e tutela della «persona –atleta», Napoli, 2009, p. 46 ss.; Id., L’illecito nell’attività sportiva: una nuova prospettiva, in Rass. dir. econ. dello sport, 2006, p. 99 ss., Id., Il contratto di cessione di calciatori professionisti: unità dell’or­dinamento giuridico e giudizio di validità, in Rass. dir. econ. dello sport, 2011, p. 175 ss.; P. Femia, Due in uno. La prestazione sportiva tra pluralità e unitarietà delle qualificazioni, in AA.VV., Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, cit., spec. p. 282.

[59] Come ci ricorda J. Huizinga, op. cit., p. 140 ss., che dedica uno specifico capitolo (VII) a gioco e poesia, tra le varie forme di gioco c’è il giocare con le parole e, per comprendere la bontà di questa affermazione, basti già riflettere sul fatto che la poesia «è gioco con parola e lingua» e questa questione costituisce, e non potrebbe essere diversamente, il tema centrale in uno studio sui rapporti tra gioco e cultura, com’è quello di Huizinga. «Mentre infatti religione, scienza, diritto, guerra, e politica, in forme più finemente organizzate di vita sociale, sembrano perdere via via i loro contatti col gioco che furono così vivi e pieni di stadi primitivi di cultura, il poetare, invece, nato nella sfera ludica, non se ne allontanerà mai definitivamente. Poiesis è una funzione ludica».

Ma si vedano le affascinanti pagine di A. Pagliaro, Ironia e verità, 1970, e, in particolare, il prologo dedicato all’analisi storica e linguistica dell’ironia, in cui si distingue ironia e umorismo: il secondo farebbe solo ridere o sorridere, la prima farebbe anche pensare. «Quando il legame tra l’espressione verbale e il moto di coscienza, o processo di pensiero, che si vuole esprimere, è così labile che l’ascoltatore o il lettore non intende se chi parla o scrive dice sul serio oppure per ischerzo, il giuoco assume il carattere dell’enigma: sul tessuto delle allusioni e delle sfumature, si crea una saggezza discreta che esige mente desta e ascolto acuto. La stessa leggerezza del giuoco disinteressato si sviluppa per immagini e risonanze verbali, capaci di significati nuovi e polivalenti, proprio come esige l’espressione poetica» (corsivo nostro).

L’ironia, ci insegna N. Irti, Elogio dell’ironia, che è educativa e fa pensare, in Lo spettatore, cit., p. 176, «non ha carattere popolare e “democratico”. L’uomo-massa (per chiamarlo con Ortega y Gasset) ama l’apertura primitiva dell’esplicito, non coglie sottintesi e sfumature, scambia l’impudico ostentare con sincerità di vita. Troppo gli chiederebbe l’ironia; quel troppo che egli non è in grado né di sentire né di offrire».

[60] Lo rileva opportunamente G. Agrifoglio, Mercato globale, cit., p. 10. Lo stesso divieto si applica a tutti i soggetti dell’ordinamento federale. Si veda, ad esempio, con riferimento al calcio, l’art. 24 (Divieto di scommesse e obbligo di denuncia) del Codice di giustizia sportiva Federazione italiana giuoco calcio.

[61] F. Piredda, Un caso di “gioco” o di “scommessa”, in Riv. dir. comm., 1939, II, p. 203; M. Paradiso, Gioco, scommesse, rendite, cit., p. 76; e ancora D. Maffeis, Homo oeconomicus, homo ludens, cit., p. 853, il quale, con il consueto acume, rileva quanto sia antiquata e ingenua la valutazione di meritevolezza motivata dal fatto che il giocatore otterrebbe con la posta il lenimento del dispiacere di aver perduto al gioco (il riferimento è a Pret. Soresina, 17 marzo 1938, in Riv. dir. comm., 1939, la cui motivazione richiama il lenimento del dispiacere d’aver perduto al gioco). Lenimento che cederebbe «di fronte all’algida constatazione che la scommessa è illecita perché, se scommette sulla propria sconfitta, il giocatore è incentivato a perdere la partita». Può darsi, osserva Maffeis, «che quel giocatore si impegni al massimo per vincere al gioco e perdere un sacco di soldi nella scommessa ma ciò non è probabile e il legislatore deve elargire un giudizio di meritevolezza della fattispecie pensando a che cosa sarebbe indotta a fare, non una persona un poco schizofrenica e con una sicura vocazione ascetica, bensì una persona normale».

[62] In questi termini, A. Azara, Profili della responsabilità civile nella frode sportiva, Napoli, 2023, in corso di pubblicazione, che ho avuto modo di leggere grazie alla cortesia dell’Autore. Sulla frode nelle competizioni sportive, si veda anche P. Mirto, op. cit., p. 11 ss.

[63] G. Agrifoglio, Mercato globale, cit., p. 9.

[64] Si pensi alle possibili conseguenze della frode sportiva non soltanto sui risultati delle competizioni, ma anche su quelli delle scommesse ad esse collegate, e persino sui contratti di sponsorizzazione o di lavoro che ruotano attorno all’evento ludico, in argomento si veda G. Agrifoglio, Mercato globale, tutela del consumatore, cit., p. 10.

[65] Vedi, da ultimo, il lavoro monografico di A. Azara, op. cit., passim.

[66] È così orientato anche A. Azara, op. loc. cit.

[67] G. Agrifoglio, Mercato globale, cit., p. 11, muove nel suo ragionamento dall’osservare come il comportamento fraudolento possa materialmente incidere o non incidere sull’esito di una gara. E per questo ultimo caso propone l’esempio della condotta dopante che non raggiunga i suoi effetti, del portiere che “si vende” la partita, ma che non riesce nel suo intento poiché i suoi compagni segnano più reti di quante egli ne riesce a subire (anche se questa condotta potrebbe incidere sulla diversa scommessa del numero delle reti segnate); in questa ipotesi, si afferma, può accadere che la scorrettezza, che non riesce ad inficiare il risultato di gioco, influisca comunque sulla validità delle scommesse. Emblematica sarebbe la prassi, tipica del ciclismo, dei c.d. gregari, ritenuta comunemente ammissibile all’interno della gara, di cedere la vittoria al caposquadra, ritirandosi o rallentando la corsa in prossimità dell’arrivo. È stato significativamente osservato che «tale comportamento non lede (direttamente) gli altri concorrenti, ma lede comunque coloro che avevano scommesso sul gregario poi ritiratosi».

Proprio sulla prassi dei gregari, M. Paradiso, I contratti di gioco e scommessa, cit., p. 104, ricorda che «episodi recenti hanno indotto i bookmakers a pagare spontaneamente come vincenti anche le scommesse su tale gregario, ma risultando essi estranei alla combine non può parlarsi di una loro responsabilità. Essi, perciò, sono obbligati (solo) a pagare le scommesse sul valore ufficiale della gara, ma altresì a restituire la posta agli scommettitori danneggiati: rispetto ad essi, infatti, l’esito della gara risulta alterato dalla “frode” messa in atto dai contendenti. Se può apparire singolare un contratto valido per alcuni e nullo per altri in dipendenza del medesimo elemento, basterà rammentare che l’ipotesi può rientrare nel sistema alla luce dell’art. 1420 c.c. trattandosi di contratti plurilaterali».

A maggior ragione, laddove la frode abbia influito sulla regolarità del gioco, (si pensi a qualsiasi tipo di combine che abbia falsato il risultato di una competizione), le scommesse sottostanti dovrebbero subire le conseguenze dell’invalidità dell’evento sul quale si è scommesso.

[68] M. Paradiso, I contratti di gioco e scommessa, cit., p. 93; G. Agrifoglio, Mercato globale, cit., p. 11; e da ultimo A Azara, op. ult. cit., passim.

Cfr., al riguardo, l’art. 6 d.m., 1° marzo 2006, n. 111 (Norme concernenti la disciplina delle scommesse a quota fissa su eventi sportivi diversi dalle corse dei cavalli e su eventi non sportivi da adottare ai sensi dell’articolo 1, comma 286, della legge 30 dicembre 2004, n. 311): l’esito degli avvenimenti sportivi è quello che si realizza sul campo di gara; le sue eventuali modificazioni non incidono sull’esito già certificato ai fini delle scommesse.

[69] Art. 23, comma 1, d.m. 19 giugno 2003, n. 179 (Testo aggiornato, così come previsto dall’art. 9 del d.p.r., 14 marzo 1986, n. 217, del decreto del ministro dell’economia e delle finanze del 19 giugno 2003, n. 179, recante norme concernenti i concorsi pronostici su base sportiva). La medesima disposizione si trova ora nell’art. 16, comma 1, del Regolamento recante la disciplina dei concorsi pronostici su base sportiva adottato dall’ADM e pubblicato il 16 settembre 2021: «Ai fini della determinazione della colonna unitaria vincente del concorso è assunto, quale esito definitivo e incontestabile degli eventi, quello conseguito sul campo, ufficializzato da ADM sulla scorta dell’acquisizione di plurime informazioni concordanti tramite media e internet». Il nuovo Regolamento è stato emanato sulla base dell’art. 1, comma 634, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, il quale stabilisce che: «(a)l fine di incentivare forme di gioco che non comportano rischi connessi al disturbo da gioco d’azzardo, con provvedimento del Direttore del­l’Agenzia delle dogane e dei monopoli si procede alla riforma dei concorsi pronostici sportivi, di cui al decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496, ratificato dalla legge 22 aprile 1953, n. 342».

[70] Si veda ora l’art. 16, comma 1, del Regolamento recante la disciplina dei concorsi pronostici su base sportiva, adottato dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e pubblicato il 16 settembre 2021: «Successivi mutamenti dei risultati, decisi per qualsiasi motivo dalle autorità sportive competenti, annullamenti, penalizzazioni od altri provvedimenti, non risultano influenti agli effetti del concorso».

[71] Tra i primi, in questo senso: C. Furno, op. cit., p. 657, il quale, negli anni ‘50 dello scorso secolo, rileva come «Autorità statale e autorità sportiva sono ciascuna nell’ordine suo proprio, affatto autonome e indipendenti. Ne consegue che l’ordine giuridico positivo e l’ordine tecnico sportivo non soltanto non sono entità omogenee e non stanno quindi sul medesimo piano, ma non hanno neppure dei momenti di omogeneità, delle zone di contatto ed eventualmente di interferenza e di collisione: sono piuttosto completamente distinti ed eterogenei. Il che, naturalmente, non significa che l’ordine giuridico sia indifferente alla esistenza dei fatti sportivi, più o meno di quanto non lo sia a quella di qualsiasi altro fatto non giuridico: significa solo che è indifferente al modo in cui si producono, alla loro formazione e alle regole secondo le quali questa si compie. In altre parole, l’ordine giuridico non ha nulla da dire in merito alla specifica sportività di un fatto: ma deve unicamente appagarsi di rilevarlo e di assumerlo come un dato (se e quando la sua rilevanza influisca sulla produzione di conseguenze giuridico-patrimoniali), così com’è, ossia così come si è formato e verificato nell’ordine suo proprio. E questo può, d’altronde, ripetersi per tutti i fenomeni naturali o sociali, ai quali il diritto sia, per sua intrinseca essenza, estraneo».

[72] P. Mirto, op. loc. cit.

[73] Su questi aspetti si rinvia a T. Mauceri, Frode sportiva e danni civili, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 11, p. 1552 ss.; G. Agrifoglio, Mercato globale, cit., p. 16 ss., e da ultimo, A. Azara, op. cit., passim.

[74] Si veda, sul punto, M. Paradiso, I contratti di gioco e scommessa, cit., pp. 147-148, il quale osserva, tuttavia, che i bookmakers potrebbero essere obbligati a restituire la posta agli scommettitori danneggiati, allorché sia provata la frode.

[75] Per una attenta e critica ricostruzione dei problemi in esame, si veda A. Azara, Profili della responsabilità civile, cit., in corso di pubblicazione.

[76] Sono questi gli interrogativi che si pone opportunamente T. Mauceri, op. cit., p. 1153.

[77] D.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modifiche dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, cit.

[78] Il quantum debeatur è necessariamente commisurato alla chance preclusa, sicché la liquidazione del danno si articola in due fasi: anzitutto, bisogna calcolare la base imponibile, la quale è pari al guadagno che lo scommettitore avrebbe ritratto dalla vittoria; successivamente, alla base imponibile si applica la percentuale che esprime le probabilità di vincita della scommessa rese note tramite «formule di avvertimento».

[79] Così, A. Azara, op. cit., passim.

[80] Si veda, per tutti, l’art. 24, comma 1, Codice di Giustizia Sportiva FIGC (Divieto di scommesse e obbligo di denuncia), ai sensi del quale: «Ai soggetti dell’ordinamento federale, ai dirigenti, ai soci e ai tesserati delle società appartenenti al settore professionistico è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell’ambito della FIGC, della FIFA e della UEFA».

[81] L’impiego del controllo di meritevolezza, al fine di garantire la conformità del contratto alle regole dell’ordinamento sportivo, prende le mosse dalla ormai nota Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, in Giust. civ., 1982, I, p. 2412, al cui indirizzo si sono poi uniformate: Cass., 5 gennaio 1994, n. 75, in Foro it., 1994, I, c. 412, con nota di R. Pardolesi; e in Rass. dir. civ., 1996, 1, p. 185 ss., con nota di S. Vitale, Ordinamento sportivo e meritevolezza dell’interesse, p. 186 ss., il quale, nel criticare l’orientamento in esame, osserva come il ragionamento della Corte appaia erroneo in quanto fondato «sulla inaccettabile commistione tra immeritevolezza dell’interesse perseguito ed impossibilità dell’oggetto del contratto»; Cass., 4 marzo 1999, n. 1855, in questa Rivista, 1999, p. 705, con nota di C. Gallavotti, Le norme dell’ordi­namento sportivo tra intervento legislativo e autonomia privata; e in Giust. civ., 1999, con nota di G. Vidiri, Contratto di lavoro dello sportivo professionista, patti aggiunti e forma ad substantiam; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3545, in Rass. dir. ec. sport, 2006, p. 208, con nota di E. Indraccolo, La cessione dei calciatori tra legge dello Stato e disposizioni federali; e in Giur. it., 2004, p. 1886, con nota di F. Iozzo, Cessione di calciatori e rapporto fra ordinamento statuale e normativa sportiva; Cass., 20 settembre 2012, n. 15934, in Contr. e impr., 2013, 3, p. 645, con nota di G. Facci, Il contratto immeritevole di tutela nell’ordinamento sportivo; Cass., 17 marzo 2015, n. 5216, in CED Cassazione, 2015; e in “Filodiritto”2015, con commento di P. Garaffa, Riflessioni in tema di mandato sportivo difforme dai regolamenti federali, alla luce del nuovo “regolamento per i servizi di procuratore sportivo”; e in questa Rivista, 2016, 2, p. 441, con nota di C. Novazio, Nullità del mandato sportivo per violazione di regole formali e sostanziali dell’ordinamento sportivo.

Per un attento esame della pronuncia della Suprema Corte, Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, cit., si veda, per tutti, G. Alpa, L’ordinamento sportivo, in Nuova giur. civ. comm., 1986, pp. 321 ss., dove l’Au­tore ripercorre l’evoluzione della giurisprudenza sul tema della nullità dei contratti stipulati dall’atleta in contrasto con le regole dell’ordinamento sportivo, muovendo dalla pronuncia del ’78 (Cass., 11 febbraio 1978, n. 625, in Foro it., 1978, c. 862, con nota di C. M. Barone.) fino alla sentenza dell’’81 (Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, cit.), che ha modificato il precedente orientamento.

In senso contrario, escludono che il mero inadempimento di una regola sportiva possa automaticamente giustificare la pronuncia di nullità attraverso il richiamo alla non meritevolezza degli interessi coinvolti: Cass., 27 gennaio 2010, n. 1713, in Mass. Giust. civ., 2010, p. 111; Cass., 24 settembre 1994, n. 7856, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 1014 ss.; e in Nuova giur. civ. comm., 1995, 6, pp. 1174 ss., con nota di D. Chindemi, Validità di atti contrari all’ordinamento sportivo compiuti da estranei non tesserati; Cass., Sez. Un., 10 novembre 1994, n. 9351, in Giust. civ., 1995, pp. 391 ss., con nota di G. Vidiri, Potere disciplinare delle Federazioni sportive e competenza dell’a.g.o.; Cass., 3 aprile 1987, n. 3218, in Giust. civ., 1987, p. 1678; Cass., 11 febbraio 1978, n. 625, cit., ove la Cassazione afferma che il contratto tra società calcistica e giocatore professionista, sebbene contrario alla clausola federale, è valido nell’ordi­namento giuridico statale e ciò in quanto le norme contenute nei regolamenti delle federazioni sportive, che disciplinano rapporti intersoggettivi privati, sono efficaci unicamente nell’ordinamento giuridico sportivo, sicché la norma federale che prevede un divieto ha valore imperativo solo nell’ambito di quel­l’ordinamento ma non spiega effetti nell’ordinamento statale, nel quale non esiste una norma imperativa di contenuto identico o analogo.

Per la giurisprudenza di merito, si veda la sentenza del Tribunale di Udine, 16 gennaio 2006, n. 55, in Contr., 2007, 1, p. 31, con commento di P.G. Traversa, Ordinamento sportivo e contratto “immeritevole” di tutela.

Come ricorda A. Federico, L’elaborazione giurisprudenziale del controllo di meritevolezza degli interessi dedotti nei contratti c.dd. sportivi, in Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del terzo Convegno Nazionale della Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, 27-28-29 marzo 2008, Napoli, 2009, p. 371, nella casistica giurisprudenziale le ipotesi di inosservanza delle disposizioni contenute nei regolamenti federali sono rappresentate, tra le altre, dalla conclusione di contratti in spregio di prescrizioni formali contemplate dalle norme federali (Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, cit.; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3545, cit.; Trib. Perugia, 21 maggio 1993, in Giust. civ., 1993, p. 2837, con nota di G. Vidiri, Sulla forma scritta del contratto di lavoro sportivo; Trib. Treviso, 3 marzo 1994, in questa Rivista, 1994, p. 683, con nota di F. Caringella, Brevi considerazioni in tema di forma del contratto di lavoro sportivo; e in Giur. mer., 1994, p. 609, con nota di F. Del Bene, Formalismo giuridico e prescrizioni di forma ad substantiam nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato sportivo; Trib. Udine, 16 gennaio 2006, n. 55, cit.); dalla cessione di atleta avvenuta in violazione del divieto di cessioni temporanee nel settore dilettantistico, nonché del carattere obbligatorio del deposito del contratto presso la federazione sportiva ai fini dell’approvazione (Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, cit.; Cass., 12 ottobre 1999, n. 11462, in questa Rivista, 1999, 2-3, p. 530, con nota di G. Vidiri, Forma del contratto di lavoro tra società ed atleti professionisti e controllo della federazione sportiva nazionale); dalla simulazione del prezzo di un trasferimento di atleta con conseguente mancata sottoposizione al controllo federale dell’accordo integrativo contenente la determinazione del maggiore corrispettivo (Cass., 23 febbraio 2004, n. 3545, cit.); dalla stipulazione di un contratto di mandato tra un procuratore sportivo e un atleta professionista che contrasti con la disciplina federale della forma e della durata contrattuale nonché della misura del corrispettivo (Trib. Udine, 16 gennaio 2006, n. 55, cit.).

Sull’incidenza degli obblighi di forma prescritti dalle federazioni sulla validità del contratto (nella specie si trattava di un contratto di trasferimento dei calciatori), si veda la pronuncia emessa dalla Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport presso il CONI del 5 marzo 2009, in Rass. dir. ec. sport, 2011, 1, p. 168, con nota di A. Lepore, Il contratto di cessione di calciatori professionisti: unità dell’ordinamento giuridico e giudizio di validità.

Ripercorre criticamente l’orientamento della giurisprudenza G. Facci, Ordinamento sportivo e regole d’invalidità del contratto, cit., p. 237 ss., il quale pone in evidenza come in passato il problema si sia posto soprattutto con riguardo alla validità degli accordi aventi ad oggetto il c.d. vincolo sportivo, conclusi senza l’osservanza delle norme regolamentari interne all’ordinamento sportivo. Giova rammentare come il vincolo sportivo sia stato abolito per gli sportivi professionisti dalla legge 23 marzo 1981, n. 91, mentre, per gli sportivi dilettanti, l’abolizione avverrà per effetto dell’entrata in vigore, ormai prossima, dell’art. 31 del d.lgs. n. 36/2021. In argomento si vedano: E. Minervini, Il trasferimento del giocatore di calcio, in Rass. dir. civ., 1984, p. 1062; Id., Il mercato dei calciatori professionisti, in Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, cit., p. 432 ss.

[82] L’espressione è di P. Femia, Due in uno, cit., p. 247.

[83] A. Federico, op. cit., p. 374, è tra i primi a segnalare l’applicazione originale che le pronunce in esame fanno del giudizio di cui all’art. 1322 c.c.

[84] All’ampiezza del dibattito dottrinale si contrappone una giurisprudenza assestata su posizioni quanto mai tradizionaliste, per le quali la contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume costituisce il solo limite all’autonomia privata. Si veda, tra le più esplicite, Cass., 13 maggio 1980, n. 3142, in Rep. Foro it., 1980, voce Contratto in genere, c. 601, n. 56: «È consentito alle parti di dar vita anche a contratti atipici purché meritevoli di tutela e non, quindi, in contrasto con la legge, l’ordine pubblico e il buon costume»; e la più recente Cass., 24 maggio 2016, n. 10710, in Notariato, 2016, 4, p. 363.

[85] L. Di Nella, Le federazioni sportive nazionali dopo la riforma, p. 71, rileva come il riconoscimento di un’autonomia di tipo privatistico, che si manifesta essenzialmente negli statuti e nei regolamenti, comporta un cambiamento dei parametri di valutazione della stessa autonomia, sollevando la questione dei limiti posti all’autonomia federale. Al riguardo rilevano quelli generali posti all’autonomia privata, liceità, meritevolezza, non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ai quali si ricorre per la valutazione delle clausole contenute negli atti federali. In argomento si veda l’approfondito studio di R. Caprioli, L’autonomia normativa delle federazioni sportive nazionali nel diritto privato, cit., p. 63 ss.

[86] Corte Cost., 14 dicembre 2010, n. 49, in Giust. civ., 2011, 5, p 1145, non pone in dubbio che le associazioni sportive siano tra le più diffuse “formazioni sociali” dove l’uomo svolge la sua personalità, la cui tutela è garantita a livello costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 18 Cost. Si veda, inoltre, Corte Cost., 11 febbraio 2011, n. 49, in La responsabilità civile, 2011, 6, p. 417, con nota di G. Facci; e in Corr. giur., 2011, p. 1543, con nota di F.G. Scoca.

[87] G. Facci, Ordinamento sportivo e regole di validità del contratto, cit., p. 258 ss.; A. Federico, L’elaborazione giurisprudenziale del controllo di meritevolezza, cit., p. 379; M. Bellante, Contratto concluso in violazione delle regole dell’ordinamento sportivo e nullità nell’ordinamento giuridico statale, in questa Rivista, 2013, n. 3-4, p. 672.

[88] Cass., 28 luglio 1981, n. 4845, cit.; Cass., 5 aprile 1993, n. 4063, cit.

[89] R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, Artt. 1321-1352, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 21 ss., osserva che «secondo un indirizzo prevalente, non può correttamente discutersi di contratto normativo né dal punto di vista della teoria generale né sul piano del diritto vigente; per l’incompatibilità di natura e funzione che corre tra il contratto, con cui le parti dispongono in ordine ai propri rapporti giuridici, e la norma, che crea di massima regole generali ed astratte».

Sul contratto normativo come espressione dell’autonomia privata, si vedano L. Cariota Ferrara, Riflessioni sul contratto normativo, in Arch. giur. F. Serafini, 1937, p. 66; G. Guglielmetti, I contratti normativi, Padova, 1969, p. 39; Id., voce Contratto normativo, in Enc. giur., IV, Roma, 1988, p. 3; M. Dossetto, Contratto normativo, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, p. 665; F. Messineo, Contratto normativo e contratto-tipo, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 116 ss.; S. Maiorca, Normativo, (contratto), in Dig. disc. priv., Torino, 1995, p. 169; G. Gitti, Contratti regolamentari e normativi, Padova, 1994; Id., Vecchi e nuovi confini dell’autonomia contrattuale, in AA.VV., Tradizione civilistica e complessità del sistema. Valutazioni storiche e prospettive della parte generale del contratto, a cura di F. Macario e M. N. Miletti, Milano, 2006, p. 410, evidenzia, con riguardo ai contratti normativi collettivi, come gli stessi «non sono destinatarî di una forma di delega legislativa, perché mantengono la loro natura negoziale ed operano sul piano dell’autonomia contrattuale, ma certo svolgono una funzione di disciplina che soddisfa un sicuro interesse legislativo»; più in generale per un approfondito studio dei regolamenti privati si veda il lavoro monografico di E. del Prato, I regolamenti privati, Milano, 1988, passim; e più di recente F. D’Arcangelo, Il contratto normativo, in Obbl. e contr., 2008, p. 62 ss.

Sull’interpretazione del contratto normativo si veda per tutti A. Gentili, Sull’interpretazione dei contratti normativi, in Contr. e impr., 1999, 3, p. 1162 ss.

[90] Il riconoscimento costituzionale del principio di sussidiarietà nella sua dimensione orizzontale si è avuto, com’è noto, in seguito all’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha modificato l’art. 118 Cost.

In giurisprudenza si veda a questo riguardo Cons. Stato, 12 maggio 2006, n. 2676, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo i giudici di palazzo Spada il principio di sussidiarietà impone che «gli interventi pubblici siano svolti al livello più appropriato»; Corte Cost., 24 settembre 2003, nn. 300 e 301, in Corr. giur., 2003, p. 1567, ha ulteriormente specificato che il principio di sussidiarietà disegna un nuovo sistema di rapporti tra pubblico e privato.

In dottrina sul principio di sussidiarietà si vedano almeno: A. D’Atena, Il principio di sussidiarietà nella Costituzione italiana, in Riv. dir. pubbl. com., 1997, p. 609 ss., il quale nota come il principio di sussidiarietà determini un «assetto mobile delle competenze»; G.U. Rescigno, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Dir. pubbl., 2002, p.14, ove nel tentativo di definire il principio di sussidiarietà evidenzia come non si tratti «di un principio o criterio sostanziale, ma di un principio o criterio procedurale: esso non dice a chi spetta il tipo di azione considerato, ma quale ragionamento bisogna fare per individuare il soggetto competente»; A. Moscarini, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti. Contributo allo studio dei criteri ordinatori, Padova, 2003; P. Femia, Sussidiarietà e principi nel diritto contrattuale europeo, in P. Perlingieri-F. Casucci (a cura di), Fonti e tecniche legislative per un diritto contrattuale europeo, Napoli, 2004, p. 145, il quale osserva che «Preso sul serio – non come mero programma di filosofia pubblica (vale a dire: linea di tendenza di una politica), ma come norma giuridica – il principio di sussidiarietà opera sul piano dei criteri ordinatori delle fonti del diritto. Esso è al pari di gerarchia e competenza, norma sulla produzione giuridica». Muove da queste stesse premesse D. De Felice, Principio di sussidiarietà ed autonomia negoziale, Napoli, 2008, p. 25 ss., il quale osserva come il principio di sussidiarietà nella sua dimensione orizzontale comporti un diretto coinvolgimento dei cittadini, intesi non soltanto come destinatari passivi, ma anche e soprattutto come protagonisti attivi nello svolgimento di quelle attività e decisioni di interesse generale che li riguardano, comprese le attività tradizionalmente di competenza pubblica; E. Del Prato, Principio di sussidiarietà e regolazione dell’iniziativa economica privata. Dal controllo statale a quello delle Autorità amministrative indipendenti, in Riv. dir. civ., 2008, I, p. 259; Id., Principio di sussidiarietà sociale e diritto privato, in Giust. civ., 2014, 2, p. 381 ss., ed in M. Nuzzo (a cura di) Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, I vol., Torino, 2014, p. 576. Si vedano poi, più di recente, Fr. Bocchini, Contributo allo studio del diritto sussidiario, Roma, 2013, nel quale l’A. analizza in chiave critica il tema dello spazio di operatività del principio di sussidiarietà orizzontale; R. Carleo, La sussidiarietà nel linguaggio dei giuristi, in M. Nuzzo (a cura di) Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, cit., p. 4, il quale, dopo aver indagato la polisemia del termine «sussidiarietà», si sofferma sulla circostanza che il principio di sussidiarietà può essere inteso secondo due contigui e complementari significati: criterio di interpretazione delle norme, nonché criterio di produzione delle norme; F. Maisto, L’autonomia contrattuale nel prisma della sussidiarietà orizzontale, Napoli, 2016; il principio di sussidiarietà e le sue implicazioni nell’ordinamento sportivo sono indagati da M. Cimmino, Sussidiarietà orizzontale e ordinamento sportivo, in M. Nuzzo (a cura di) Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, cit., p. 225 ss; e G. Santorelli, Sussidiarietà e regole di validità dei contratti sportivi, cit., p. 235 ss.

[91] P. Femia, Due in uno, cit., p. 296.

[92] N. Lipari, Potere, poteri emergenti e loro vicissitudini nell’esperienza italiana, in Sociologia del diritto, 1985, 2, p. 7 ss; Id., La formazione negoziale del diritto, in Riv. dir. civ., 1987, p. 311, avverte: «Se il diritto non ha più la sua fonte esclusiva nell’autorità statale e si stempera in una serie articolata di fonti diverse, non sempre convergenti, è necessario abbandonare l’uso sclerotizzato di categorie concettuali la cui funzionalità operativa è in qualche modo connessa alla concentrazione autocratica del potere di normazione». La creazione extra sistematica di norme giuridiche, ossia la loro affermazione al di fuori dei normali circuiti di produzione delle leggi, «lungi dal costituire un fatto eccentrico o eccezionale, rappresenta una connotazione essenziale della stessa positività di un ordinamento giuridico» e ciò in quanto ‒ come rileva G. Alpa, Dal diritto pubblico al diritto privato. Parte seconda. Il superamento della dicotomia nel diritto post-moderno, in Piccole conferenze, Modena, 2017, p. 18, ‒ «è lo stesso ordinamento che consente la creazione di norme giuridiche al di fuori delle fonti istituzionali: si tratta infatti della creazione di regole e della istituzione di diritti soggettivi che non proviene dall’alto, cioè dalla imposizione con legge o con provvedimento amministrativo avente natura di normazione sub-primaria, (lex posita, deliberazioni delle agenzie amministrative indipendenti) ma proviene dal basso, cioè da formule organizzatorie della società civile»; Id., Il contratto in generale, I, Fonti, teorie, metodi, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2014, p. 328.

[93] Sulla decodificazione, ossia sul movimento legislativo che, affidando cospicue materie a sedi esterne al codice civile, ne ha svuotato a mano a mano il contenuto, si veda N. Irti, “Codici di settore”: compimento della decodificazione, in Dir. e soc., 2005, p. 132 ss.; Id., L’età della decodificazione, in Dir. e soc., 1978, p. 635, poi pubblicato con lo stesso titolo come volume autonomo (Milano, 1979); Id., Leggi speciali (dal mono-sistema al poli-sistema), in Riv. dir. civ., 1979, I, p. 141 ss.

[94] Ben ripercorre questo passaggio F. Criscuolo, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, Napoli, 2008, p. 49; più di recente, si vedano G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 327, il quale osserva come autonomia privata, codici deontologici, accesso alla giustizia presentano un denominatore comune: la formazione negoziale del diritto; e F. Maisto, op. cit., p. 133.

[95] G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 328, si pone il problema dei limiti all’auto normazione e delle garanzie che debbono essere mantenute in capo ai privati. In particolare si osserva che «Se la creazione negoziale dà vita ad un sistema aperto, e si pone in un rapporto relazionale con l’ambiente, e se si può considerare sempre attuale la concezione pluralistica degli ordinamenti giuridici, in ogni caso le regole autopoietiche debbono uniformarsi ad una tavola di valori che non si può porre in contrasto con quella che sta alla base dell’ordinamento»; E. Battelli, I contratti-tipo, cit., p. 337, per il quale non è più sufficiente parlare di fuga dal codice verso leggi speciali; «la tendenza centrifuga è ancor più radicale verso fonti diverse da quelle legali».

[96] Così L. Ferri, L’autonomia privata, Milano, 1959, p. 4. Nel senso che le regole negoziali sono norme giuridiche già B. Scorza, Gli statuti degli enti associativi con particolare riguardo alle società di commercio, Roma, 1934, passim; P. Pergolesi, Sistema delle fonti normative, III ed., Milano, 1973, p. 6 ss., per il quale l’autonomia privata è potere normativo. Reputano l’autonomia privata fonte del diritto anche S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, ristampa inalterata dell’ed. del 1947, voce Autonomia, Milano, 1983, p. 14 ss.; H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 1967, p. 132; F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, III ed., in Foro it., 1951, p. 55.

Orlandi, Le condizioni generali di contratto come fonte secondaria, in AA.VV., Tradizione civilistica e complessità del sistema, cit., p. 361, distingue «il contratto come fonte normativa e come fonte descrittiva».

Negano, invece, che l’autonomia negoziale costituisca una fonte del diritto P. Trimarchi, Atto e negozio giuridico, Milano, 1940, p. 29; L. Barassi, Istituzioni di diritto civile, IV ed., Milano, 1948, p. 113; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, rist. II ed., Napoli, 2008, p. 141, ove si legge: «che l’ordinamento riconosca l’autonomia privata (…) non significa che l’autonomia divenga fonte di norme giuridiche ed operi d’ora innanzi come tale»; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, rist. corretta della II ed., Napoli, 2002, p. 191, ove si legge: «Il precetto dell’autonomia privata, che i negozi pongono in essere, non è propriamente un precetto giuridico, ma un precetto che ha rilevanza giuridica. Secondo una netta distinzione delineata altrove e che qui va tenuta ferma, il negozio non è né “fonte di norme”, sia pure “subordinate e complementari”, né attuazione di legge, come il provvedimento, ma autoregolamento d’interessi». N Irti, La ripetizione del negozio giuridico, Milano, 1970, pp. 127-128.

[97] Lo evidenzia, tra gli altri, V. Roppo, Il contratto e le fonti del diritto, in Il contratto del duemila, 2011, p. 2.

[98] H. Kelsen, L’ordinamento giuridico e la sua costruzione a gradi, in Lineamenti di dottrina pura del diritto, rist. Torino, 2000, p. 95 ss. pone l’idea del contratto come norma a fondamento della relazione tra il contratto e l’ordinamento giuridico in quanto produttore di norme convenzionali funzionalmente legate a norme (legali) di livello superiore che le legittimano.

[99] L’espressione diritto dei privati è impiegata da W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano, 1963; per diritto dei privati deve intendersi: «quello che i privati medesimi creano per regolare determinati rapporti di interesse collettivo, in mancanza o nell’insufficienza della legge statuale». C.M. Bianca, Le autorità private, Napoli, 1977, p. 1 ss., nel ragionare sulla possibilità di ravvisare nel negozio una fonte normativa, osserva come «L’affermazione che l’atto negoziale è costitutivo di norme può rispondere (…) all’idea di un ordinamento autonomo dei privati ma anche rispondere all’idea di un unico ordinamento statale che conceda ai privati una ristretta competenza normativa».

[100] G. Santorelli, Sussidiarietà e regole di validità dei contratti sportivi, cit., p. 259.

[101] D. De Felice, Principio di sussidiarietà ed autonomia negoziale, cit., p. 142, avverte il rischio che la evocazione del principio di sussidiarietà diventi esso stesso il ragionamento e non il mezzo o lo strumento che porti a svolgere un certo tipo di ragionamento.

[102] L’art. 2, comma 1, d.l. 19 agosto 2003, n. 220 (così come modificato dalla legge di conversione 17 ottobre 2003, n. 280), riserva all’ordinamento sportivo l’emanazione di norme statutarie organizzative interne; le norme regolamentari tecniche, al fine di garantire il corretto svolgimento dell’attività sportiva; le norme sanzionatorie di carattere disciplinare. Non vi è, invece, alcuna delega normativa in materia di rapporti intersoggettivi privati di carattere negoziale.

[103] N. Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in Riv. trim dir. proc. civ., 2006, 3, p. 727; per U. Breccia, Fonti del diritto contrattuale, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 395, «La crisi della elencazione tradizionale delle fonti del diritto si riflette anche sull’indicazione delle fonti d’integrazione del contratto» e al riguardo distingue le integrazioni che hanno o hanno avuto funzioni ausiliarie rispetto all’autonomia dei contraenti e le integrazioni che sono state definite in termini antagonistici. Nel medesimo senso, V. Roppo, Il contratto, in Tratt. di diritto privato, a cura di G. Iudica, P. Zatti, Milano, 2001, pp. 485-498, distingue «l’integrazione suppletiva», «amica dell’autonomia privata», «dall’integrazione cogente» «antagonista» dell’autonomia.

[104] U. Breccia, Fonti del diritto contrattuale, cit., p. 420 ss., osserva come la produzione privata e decentrata delle regole contrattuali in vario modo si intreccia con l’autoregolazione di soggetti collettivi anche al di là della storia e dell’esperienza degli ordinamenti intersindacali.

[105] Cass., 20 marzo 2012, n. 4371, in Pluris.

[106] Si veda, in argomento, M. Girolami, L’artificio della causa contractus, Padova, 2012, p. 124; F. Mucciarelli, il cui contributo è consultabile sul sito http//www.disastroderivati.it; e più di recente, D. Maffeis, Homo oeconomicus, cit., p. 849, nota 55: il principio di diritto espresso dalla Cassazione, ad avviso dell’Autore in modo un po’ acerbo, potrebbe essere sciolto ed esplicitato in questi termini: la scommessa legalmente autorizzata ha causa lecita e meritevole se è conclusa sul presupposto che gli scommettitori si trovino nello stato di conoscenza conforme a quanto risulta dal regime autorizzatorio.

[107] Cass., 2 dicembre 1993, n. 11924, in Foro it., I, c. 62.

[108] Così, D. Maffeis, Homo oeconomicus, cit., p. 24.