Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Le responsabilità del medico sportivo (di Rita Tuccillo, Docente di Diritto privato dello sport presso l’Università degli Studi di Roma “Foro Italico”. Avvocato.)


The Author focuses his analysis on the responsibility of sports medicine doctor, identifying three main aspects: the nature of the responsibility after the Gelli-Bianco law; the duties that the sports medicine doctor has to respect and their sources; and the role of the patient’s behaviour in the doctor’s responsibility. The Author, through his systematic analysis, finds out arguments to distinguish the responsibility of the sport medicine doctor from the others.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La natura della responsabilità dei medici dello sport - 3. Doveri del medico sportivo - 4. Linee guida e protocolli - 5. Le declinazioni della colpa del medico sportivo - 6. Il ruolo della condotta del paziente nel giudizio di responsabilità del medico - 7. Riflessioni conclusive - NOTE


1. Introduzione

Gli insegnamenti teorici tradizionali, che scomponevano la tematica della responsabilità civile in due macrosistemi – contrattuale ed extracontrattuale –, sono in via di superamento. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ci consegna statuti di norme dotate di autonomia concettuale e giuridica, con delle regole proprie in tema di elementi costitutivi della fattispecie e di riparto dell’onere probatorio. Occorre, quindi, prendere atto della frammentazione del sistema [1] della responsabilità, che si lascia, oggi, declinare al plurale.

Pensiamo alla responsabilità da illecito antitrust, alla normativa sul danno ambientale, ad alcune forme di responsabilità oggettiva e alla responsabilità civile del professionista intellettuale e del medico in particolare, in cui le regole previste per disciplinare la responsabilità sono adattate e modellate alla luce della specificità del settore.

Questo radicale ripensamento del sistema tradizionale della responsabilità civile ha determinato, per un verso, una inesorabile dilatazione dei confini della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, interpretando il canone della diligenza qualificata come un apprezzabile livello di perizia professionale; per altro, una frantumazione del modello unitario del professionista intellettuale concepito dal codice civile. La giurisprudenza ha, quindi, evidenziato la grande eterogeneità delle attività professionali e la conseguente necessità di valutare la diligenza e la colpa in considerazione delle peculiarità di ogni professione. Da un sistema unitario di responsabilità professionale incardinato su poche norme fondamentali – artt. 1218, 1176 e 2236 c.c. – si è passati ad un sistema complesso e variabile a seconda delle professioni e delle specializzazioni.

La frammentazione della responsabilità si è tradotta in una proliferazione dei rapporti processuali e delle forme di tutela giudiziali; basti pensare all’azione diretta del paziente nei confronti delle imprese assicuratrici, per le ipotesi di responsabilità sanitaria, introdotta dalla legge Gelli-Bianco [2].

Si assiste, quindi, ad un fenomeno centripeto di frammentazione degli statuti della responsabilità con la conseguente creazione di paradigmi di responsabilità specifici per ciascuna tipologia di professione e mestiere, e, come si vedrà oltre, anche all’in­ter­no della medesima attività professionale è riscontrabile un diverso regime di responsabilità.

In questo iter evolutivo si inserisce la disciplina della responsabilità sanitaria contenuta nella citata legge Gelli-Bianco, che ha introdotto regole specifiche di responsabilità applicabili esclusivamente ai professionisti della sanità e non sovrapponibili al regime ordinario della responsabilità civile in ordine alla qualificazione giuridica della natura, dell’elemento soggettivo della colpa e della quantificazione del danno risarcibile.

La riforma, in primis, qualifica espressamente la natura delle responsabilità sanitarie – e non il fatto originativo delle responsabilità [3] – introducendo regimi diversi per la responsabilità dei sanitari e delle strutture sanitarie: responsabilità contrattuale per le strutture sanitarie e socio sanitarie; responsabilità extracontrattuale per gli esercenti la professione sanitaria, salva la stipula di un contratto con il paziente.

In secundis, la legge Gelli-Bianco introduce – in modo espresso e vincolante – un parametro per l’accertamento dell’elemento soggettivo della responsabilità civile e per la quantificazione del danno risarcibile nei confronti del paziente danneggiato, consistente nelle linee guida [4] e, in mancanza, nelle buone pratiche clinico-assistenziali.

Su queste regole normative ha poi inciso anche una mutevole interpretazione giurisprudenziale. Basti all’uopo pensare alla duplicazione delle note sentenze di San Martino con le quali la Corte di Cassazione ha inciso sulla nuova disciplina, in parte, mitigandone la portata, dichiarando l’efficacia irretroattiva della qualificazione della responsabilità extracontrattuale del medico [5] e della applicazione dei criteri per l’accerta­mento della colpa sanitaria [6]; in parte, aggravandone l’allontanamento, facendo ricadere sul paziente danneggiato l’onere della prova del duplice nesso di causalità, materiale e giuridico [7], e assicurando l’efficacia, in questo caso, retroattiva del criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005 [8].

L’analisi della responsabilità sanitaria, come disciplinata dalla legge e declinata dalla giurisprudenza, ci restituisce una ulteriore frammentazione: non solo regole di responsabilità diverse per le varie professioni intellettuali; ma anche regole di responsabilità differenti per le specifiche figure di esercenti la professione sanitaria.

Nella molteplicità di specializzazioni sanitarie una posizione del tutto peculiare è assunta dal medico sportivo la cui attività è caratterizzata dalle funzioni, anche sociali, svolte dalla medicina dello sport; da competenze, funzioni e obblighi specifici; dal rapporto con società sportive e federazioni; nonché dal rapporto con il paziente, contraddistinto da esigenze non sempre coincidenti con il fine ultimo della professione medica, ossia la tutela della salute.

La specificità della Medicina dello Sport si evince già dall’interesse verso la disciplina della materia da parte del legislatore italiano, tradottosi dapprima nella legge 28 dicembre 1950, n. 1055 [9], che introdusse il certificato di idoneità fisica specifica allo sport, sia professionistico, esteso a tutte le discipline sportive; sia dilettantistico, ma li­mitato al pugilato, all’atletica pesante, alle gare ciclistiche particolarmente gravose, agli sport motoristici e a quelli subacquei.

La regolamentazione della medicina sportiva è poi divenuta più rigorosa negli anni ’80 al verificarsi di accadimenti drammatici, che hanno coinvolto atleti e sportivi, ai quali si assiste, ancora oggi, nonostante gli stringenti obblighi di prevenzione e cura.

Tali eventi hanno suggerito al legislatore l’introduzione di una regolamentazione organica della medicina sportiva, prevedendo visite obbligatorie e propedeutiche per lo svolgimento di gran parte delle attività sportive, avvenuta con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 [10].


2. La natura della responsabilità dei medici dello sport

L’analisi della responsabilità del medico sportivo non può che muovere dalla qualificazione della sua natura. Nonostante le peculiarità della figura del medico sportivo e gli specifici obblighi assunti, non si può revocare in dubbio che al medico dello sport, estraneo all’ordinamento sportivo e operante in una struttura sanitaria o socio-sanita­ria, pubblica o privata, si applicherà la riforma Gelli-Bianco come interpretata dalla giu­risprudenza. In queste ipotesi, quindi, il medico dello sport risponderà dei danni causati all’atleta ai sensi dell’art. 2043 c.c.; e la struttura sanitaria o socio-sanitaria, privata o pubblica, in cui il medico sportivo opera, risponderà dei danni causati da quest’ulti­mo ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.

Egualmente non pare dubitabile che il medico dello sport che privatamente stipuli un contratto per lo svolgimento di prestazioni sanitarie con un atleta risponda del proprio inadempimento, totale o parziale, ai sensi dell’art. 1218 c.c.

Diversamente, per il medico dello sport inserito nell’ordinamento sportivo la qualificazione giuridica del rapporto tra medico e paziente appare di non agevole ricostruzione.

Pensiamo alla figura del medico sociale – ma analoghe considerazioni potrebbero valere per il Medico Federale –: un professionista specializzato in Medicina dello Sport, inquadrato all’interno della società sportiva con un contratto di lavoro, tesserato [11] ed iscritto in un apposito elenco presso la federazione sportiva di appartenenza.

Tale figura ha avuto una rilevante diffusione negli ultimi decenni, tanto che il decreto del Ministero della sanità 13 marzo 1995 [12] ha indicato il Medico Sociale quale responsabile sanitario della società sportiva professionistica. D’altra parte, è evidente che nell’esercizio dell’attività sportiva professionistica l’integrità psicofisica costituisce elemento predominante per il successo nelle competizioni e, dunque, anche per il successo delle società sportive.

Questa è la principale ragione per cui le società sportive negli ultimi anni hanno inserito nel proprio organico un numero sempre maggiore di persone addette alla tutela della salute degli atleti.

Il medico sociale assume la responsabilità della tutela della salute degli atleti professionisti legati da rapporto di lavoro subordinato con la società sportiva [13]; egli provvede, inoltre, per conto della stessa società, alla istituzione ed all’aggiornamento della scheda sanitaria, curandone la compilazione sulla base delle risultanze e degli accertamenti eseguiti alle scadenze stabilite ed in ogni altro momento si verifichi un rilevante mutamento delle condizioni di salute dell’atleta [14].

Diversa, anche se parzialmente, è la disciplina della tutela sanitaria degli atleti legati alle società sportive da un rapporto di lavoro autonomo, laddove la figura del medico sociale [15] scompare a favore del medico di fiducia dell’atleta, il quale, però, dovrà sempre depositare la scheda sanitaria presso la federazione sportiva di appartenenza.

Ma anche all’interno della categoria dei Medici Sociali si riscontrano distinzioni. Il medico che opera nello sport del pugilato ha funzioni e compiti del tutto peculiari rispetto a quelli degli altri sport. A questo medico è imposto di conoscere la “legislazione in vigore e i regolamenti nazionali e internazionali che regolano la tutela sanitaria del pugile al fine di poter verificare che siano rispettati gli adempimenti necessari per effettuare un incontro” [16] e di essere iscritto nel Ruolo dei Medici del Pugilato istituito ad hoc presso la Federazione Pugilistica Italiana.

Ebbene la qualificazione giuridica della responsabilità del medico sociale presuppone l’inquadramento dei rapporti che legano il professionista con la società sportiva, le federazioni sportive e, infine, con gli atleti.

Il rapporto tra federazioni sportive, società sportive e medici dello sport è ovviamente variabile in base alle esigenze e alle norme organizzative interne a ciascuna struttura.

Vi è però da considerare che, nelle principali federazioni sportive, i regolamenti di funzionamento interno prevedono l’obbligo, o quantomeno la facoltà, per le federazioni di tesserare un Medico sociale, che, ad esempio nella FIGC, è “responsabile sanitario, specialista in medicina dello sport, che in tale veste deve essere iscritto in apposito elenco tenuto presso il Settore Tecnico della FIGC” [17].

Il medico è, quindi, tesserato della Federazione [18], soggetto alle norme dell’ordina­mento sportivo, e legato alla società sportiva da un contratto di lavoro, in virtù del quale assume l’obbligo di svolgere prestazioni sanitarie, di vario contenuto, nei confronti degli atleti legati, anche essi, alla società da un rapporto di lavoro subordinato.

La società sportiva, anche attraverso le prestazioni sanitarie erogate dal Medico Sociale, adempie all’obbligo previsto dall’art. 2087 c.c. e dall’art. 7 della legge n. 91/1981 di assicurare al lavoratore-atleta “l’integrità fisica e la personalità morale”.

La sussistenza di tale obbligo della società sportiva di tutelare la salute dell’atleta e l’esistenza di un contratto tra medico e società sportiva potrebbe indurre a qualificare quest’ultimo alla stregua di un contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c. La specificità dei rapporti tra medico sociale e società sportiva, da un lato, e atleta, dall’altro, potrebbe portare a superare le critiche tradizionalmente mosse da dottrina a giurisprudenza [19] alla configurabilità di un contratto a favore di terzi nei rapporti tra struttura sanitaria, medico e paziente [20].

Infatti, tra società e medico si potrebbe dire concluso un contratto di lavoro la cui prestazione principale, nascente dal contratto, e cui il medico si obbliga, dovrà essere eseguita a favore di terzi, gli atleti tesserati. Pertanto, facendo applicazione dei principi giurisprudenziali elaborati per questa species di contratto, titolare del diritto di credito alla prestazione sanitaria dovrebbe essere il paziente-atleta, altresì, titolare dell’azione di inadempimento contrattuale.

Seguendo questa ricostruzione si avrebbe un effetto diametralmente opposto a quello perseguito dalla legge Gelli-Bianco che ha definito espressamente il rapporto tra medico e paziente alla stregua di un rapporto extracontrattuale.

Pur tuttavia il tenore dell’art. 7 della legge Gelli-Bianco e l’elencazione degli esercenti la professione sanitaria destinatari della disposizione stessa dovrebbe indurre alla applicazione di questa disciplina anche ai medici sociali.

La disposizione da ultimo citata qualifica come extracontrattuale la responsabilità di tutti gli esercenti la professione sanitaria o socio-sanitaria di cui si avvalgono le strutture sanitarie e socio-sanitarie, anche se scelti dai pazienti e anche se non dipendenti della struttura, anche se operanti in regime intramurario o convenzionato, o nel­l’ambito della ricerca clinica e telemedicina. Ebbene, la definizione adottata dalla legge Gelli-Bianco di struttura sanitaria o socio-sanitaria sembrerebbe avere una estensione tale da includere anche le strutture predisposte da federazioni o società sportive per lo svolgimento di prestazioni sanitarie – quand’anche di mera verifica della documentazione sanitaria degli atleti –. L’art. 27, d.l. n. 90/2014, conv. legge n. 114/2014, definisce, infatti, ai fini della individuazione dei soggetti passivi dell’ob­bligo assicurativo imposto dalla legge Gelli-Bianco, strutture sanitarie: “ciascuna azienda del Servizio sanitario nazionale (SSN), ciascuna struttura o ente privato operante in regime autonomo o accreditato con il SSN e ciascuna struttura o ente che, a qualunque titolo, renda prestazioni sanitarie a favore di terzi”. L’ampia definizione potrebbe indurre a comprendere tra le strutture sanitarie anche i centri di medicina sportiva – o comunque le strutture – destinate da società sportive allo svolgimento delle prestazioni sanitarie o socio-sanitarie.

Di tal che le considerazioni sulla configurabilità di un contratto a favore di terzi tra società sportiva e medico sociale, e dunque di una responsabilità contrattuale per il medico sociale inadempiente nei confronti del paziente-atleta, non possono che essere superate dalla imperativa qualificazione giuridica della responsabilità imposta dalla legge Gelli-Bianco. Ne dovrebbe conseguire, quindi, che anche il medico sociale dovrà rispondere del proprio comportamento doloso o colposo nei confronti dell’atleta ai sensi dell’art. 2043 c.c.


3. Doveri del medico sportivo

Le peculiarità della figura non riguardano solo la qualificazione giuridica delle responsabilità, ma anche i doveri imposti ai medici sportivi.

I confini dell’attività professionale del medico sportivo, e, dunque, dei doveri assunti da quest’ultimo, sono delimitati da molteplici fonti normative.

Oltre alla legislazione statale dettata per gli esercenti la professione sanitaria, i doveri del medico sportivo derivano, altresì, dalla regolamentazione delle singole attività sportive, dalle norme deontologiche, dai protocolli sanitari, nonché, con i limiti di cui diremo, dalle fonti del diritto sportivo.

Innanzitutto, il codice di deontologia medica [21] dedica alla Medicina dello Sport il Titolo XIV ed espressamente stabilisce che la valutazione della idoneità alla pratica sportiva deve essere “finalizzata esclusivamente alla tutela della salute e dell’integrità psico-fisica del soggetto”.

Il principale dovere riconosciuto al medico sportivo è la salvaguardia della salute e dell’integrità fisica e psichica del paziente, e tale finalità deve essere perseguita in via esclusiva dal medico, che non potrà orientare la propria attività al perseguimento di interessi economici o agonistici del paziente o della società sportiva. Il coinvolgimento di svariati interessi, spesso contrastanti, nell’attività medico sportiva ha reso necessario il rafforzamento, per il medico sportivo, del generale dovere imposto ai medici di tutelare la vita e la salute psico-fisica dei pazienti – art. 3 –, chiarendone l’esclusività di funzione.

A questi doveri generali si affiancano, poi, doveri specifici, variabili secondo le qualifiche soggettive rivestite dal paziente [22]: diversi sono gli obblighi del medico sportivo nei confronti del paziente che svolge un’attività professionistica [23]; un’attività agonistica non professionistica [24], un’attività non agonistica [25] e, infine, una semplice attività ludico-motoria [26].

Alla variabilità dei doveri cui è tenuto il medico dello sport, declinabili in base alle funzioni svolte dallo sportivo, si aggiunge la necessaria diversità dei doveri imposti ai medici dello sport interni ed esterni all’ordinamento sportivo.

La tutela della salute dell’atleta è, infatti, demandata ai Medici della Federazione medico sportiva italiana, al personale sanitario operante nelle strutture pubbliche o private, o ai medici dello sport che esercitano la professione sanitaria privatamente.

Si dovrebbero, quindi, distinguere due categorie di medici sportivi, all’interno delle quali si riscontrano profili di responsabilità diversi: i medici specializzati in medicina dello sport inseriti nell’ordinamento sportivo, quali i medici federali e sociali; i medici specializzati in medicina dello sport estranei all’ordinamento sportivo.

La specializzazione del medico e l’appartenenza di almeno uno dei soggetti interes­sati dalla prestazione sanitaria all’ordinamento sportivo conferisce ai doveri del medico sportivo alcune peculiarità rispetto alla generale categoria dei medici [27].

Il medico sportivo, nello svolgimento della prestazione sanitaria nei riguardi dello sportivo, dovrà adeguare la propria attività all’insieme di regole, rischi e particolari sforzi, che rappresentano i necessari corollari di ogni singolo sport [28]. Il medico sarà, quindi, tenuto a modulare la prestazione sanitaria tenendo conto dell’impegno fisico che ciascuna attività sportiva comporta e delle regole dettate dall’ordinamento sportivo.

In tal senso bisognerà distinguere se il medico entri a far parte direttamente dell’or­dinamento giuridico sportivo, nel qual caso sarà destinatario di precetti, norme e regole di responsabilità che disciplinano lo svolgimento dello sport; o se questi svolga le proprie prestazioni nei confronti di pazienti che siano soggetti dell’ordina­mento sportivo senza, però, farne parte a sua volta [29].

Il primo sarà, quindi, tenuto al rispetto delle regole dettate dall’ordinamento sportivo e “all’osservanza dei principi fondamentali per la disciplina delle attività sportive e per la tutela della salute degli atleti”[30]. Egli dovrà, ad esempio, rispettare il principio di lealtà considerato come un dovere cardine dell’ordinamento sportivo e sarà tenuto a mantenere una condotta conforme ai canoni generali della lealtà, correttezza e rettitudine, la cui violazione costituisce il presupposto per l’avvio di un procedimento disciplinare dinanzi alle Corti di Giustizia Sportiva [31].

Il medico sportivo appartenente all’ordinamento giuridico sportivo sarà, quindi, vincolato al rispetto non soltanto delle generali regole civilistiche, penalistiche e deontologiche [32], ma anche di quelle emanate dall’ordinamento giuridico sportivo e dalla singola federazione sportiva presso la quale svolge la propria attività.

Diversa la posizione del medico sportivo estraneo all’ordinamento sportivo, il quale dovrà certo tener conto del particolare ruolo svolto dal paziente e, dunque, non soltanto degli obiettivi sportivi del cliente, ma altresì dei principi e delle regole del diritto sportivo [33], pur senza esserne destinatario.

Se, dunque, deve escludersi che il medico estraneo all’ordinamento sportivo possa rispondere del proprio operato dinanzi agli organi di giustizia sportiva, non facendo esso parte di quel sistema; al contrario, potrebbe affermarsi che la prestazione sanitaria del medico sportivo comprenda anche il rispetto delle norme dell’ordinamento sportivo e delle regole tecniche dello sport la cui violazione potrebbe esporlo ad un obbligo risarcitorio [34]. Si potrebbe, quindi, riconoscere che l’obbligo comportamentale del medico deve essere determinato in base al tipo di paziente e agli obblighi ai quali questo soggetto è tenuto. La qualifica soggettiva del paziente e la sua appartenenza all’ordina­mento incidono sulla prestazione dovuta dal medico, ampliandone il contenuto.

Quante volte la responsabilità del medico sportivo sia riconducibile all’alveo contrattuale si potrebbe sostenere che le regole dell’ordinamento sportivo [35] siano equiparabili ad usi negoziali e come tali integrativi del contratto [36], ai sensi degli artt. 1340 e 1374 c.c.

Le regole sportive – soprattutto con riferimento ai principi generali dell’ordina­mento sportivo, quale il principio di leale collaborazione imposto dal Codice di Comportamento Sportivo del CONI – potrebbero considerarsi pratiche sociali [37] – ridotte in forma scritta – seguite da una determinata cerchia di soggetti – gli sportivi –. Stando a tale ricostruzione, la violazione da parte del medico sportivo dei principi generali del diritto sportivo – e delle regole comunque dettate da quell’ordinamento – determinerebbe un inadempimento contrattuale e una conseguente responsabilità nei confronti dell’atleta.

Ad analoghi risultati si giungerebbe, altresì, interpretando il contratto in senso conforme alla comune intenzione delle parti [38] o, laddove permanga l’ambiguità del testo contrattuale, reputando regole sportive quale strumento di interpretazione della volontà delle parti, ai sensi dell’art. 1368 [39] c.c. Si dovrebbe, quindi, procedere alla interpretazione del contratto concluso tra paziente e medico sportivo, in primis, alla luce del­l’art. 1362 c.c., valutando se la conoscenza e il rispetto delle regole sportive da parte del medico sia o meno entrata a far parte delle obbligazioni assunte; in secundis, in ossequio all’art. 1368 c.c., ricorrendo alle regole sportive come usi interpretativi del testo contrattuale.

Al contrario, appare meno persuasivo l’argomento, pure condiviso da un orientamento giurisprudenziale [40], secondo il quale le regole dettate dall’ordinamento sportivo avrebbero un effetto sul regolamento contrattuale concluso tra medico e paziente. Il contratto avente ad oggetto la prestazione sanitaria – quale il rilascio di un certificato di idoneità alla pratica sportiva – e che, dunque, espressamente preveda la necessità utilizzare la prestazione nell’ordinamento sportivo, ma sia carente dei requisiti all’uo­po necessari potrebbe dirsi non meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. La violazione delle regole dell’ordinamento sportivo, benché non si rifletterebbe sulla validità del contratto inter partes, non traducendosi nella violazione di norme imperative, inciderebbe sulla sua funzionalità, rendendolo immeritevole di tutela.

Tale ultima tesi appare non condivisibile sia tenuto conto delle autorevoli critiche [41] mosse al citato orientamento, sulle quali non è possibile indugiare, sia in quanto porterebbe all’effetto della radicale nullità del contratto tra medico e paziente.

Sembra, quindi, potersi affermare che mentre il medico sportivo che abbia concluso un contratto con l’atleta potrebbe essere esposto ad una responsabilità anche nel caso di violazione delle regole dell’ordinamento sportivo; diversa è la posizione del medico esterno all’ordinamento sportivo che risponda della propria attività a titolo extracontrattuale, ai sensi della riforma Gelli-Bianco.

Sotto tale aspetto l’aver ancorato la responsabilità a linee guida e buone pratiche potrebbe indurre al massimo a ricondurre le regole dell’ordinamento sportivo violate alla stregua di buone pratiche clinico-assistenziali, con non poche perplessità. Le buone pratiche clinico-assistenziali, sebbene differiscono dalle linee guida per l’assenza di procedimentalizzazione e di accreditamento nella formazione, sono standard di qualità e di etica delle prestazioni sanitarie elaborate da società scientifiche, la cui attendibilità è soggetta al vaglio dell’autorità giudiziaria. Vi è, quindi, da domandarsi se il medico sportivo che abbia violato le regole dell’ordinamento sportivo, pur essendo a questo estraneo, possa reputarsi diligente, perito e prudente e, pertanto, andare esente da responsabilità, ex art. 2043 c.c.

Ebbene, atteso che la giurisprudenza [42] considera le linee guida e le buone pratiche un parametro per la valutazione della sola perizia sanitaria, le regole sportive potrebbero fungere da parametro per la valutazione di diligenza e prudenza. Certamente tutte quelle volte in cui le regole sportive impongono maggiori oneri di controllo a favore degli atleti, il mancato adeguamento potrebbe incidere sulla prudenza come sulla diligenza del medico. Diversamente, la violazione di regole dal contenuto etico o morale, quali il principio di leale collaborazione, difficilmente potrebbe incidere sulla colpa del medico sportivo.


4. Linee guida e protocolli

I doveri del medico dello sport trovano la loro fonte anche in linee guida e protocolli. Sembra, tuttavia, che il ruolo di linee guida e protocolli per questa categoria di esercenti la professione sanitaria si discosti da quello usualmente rivestito per gli altri medici e finisca anche per influenzare il regime di responsabilità del medico sportivo.

L’art. 7 della legge Gelli-Bianco ha prescritto agli esercenti le professioni sanitarie, salve le specificità del caso concreto, di conformare la propria condotta alle linee guida, elaborate e pubblicate con le modalità descritte nell’art. 5 [43], o, in mancanza, alle buone pratiche clinico-assistenziali. Nel sistema delineato dalla riforma sanitaria le linee guida, o le buone pratiche, svolgono principalmente due funzioni: incidono sul­l’elemento soggettivo della colpa, rappresentando il modello di riferimento in base al quale valutare la condotta del sanitario, salvo comunque l’autonomia del medico nella valutazione della miglior scelta terapeutica per il caso concreto; influenzano la determinazione del danno risarcibile, dovendo il giudice, in tale valutazione, tener conto della condotta del sanitario conforme o difforme dalle linee guida.

Secondo il maggioritario orientamento giurisprudenziale, le linee guida, disciplinate dall’art. 5 della legge Gelli-Bianco, possono essere definite come “un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti [44].

Alle linee guida non potrebbe, quindi, essere conferito il valore di “veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto”, rappresentando al contrario un modello di “regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene”.

L’efficacia e la forza precettiva delle linee guida dipendono, quindi, dalla dimostrata, con un giudizio ex post, “adeguatezza” alle specificità del caso concreto (art. 5), “che è anche l’apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici [45].

Nel giudizio di responsabilità dei sanitari ha, quindi, assunto rilievo la valutazione della conformità della condotta di questi ultimi al precetto contenuto nella linea guida. Tuttavia l’eventuale conformità della condotta al precetto non escluderà ex se la eventuale responsabilità del sanitario, dovendosi valutare l’adeguatezza della condotta alle specificità del caso concreto [46].

Diversamente dovrebbe argomentarsi per l’attività e la condotta del medico sportivo. L’attività di quest’ultimo, infatti, è orientata non solo dalle regole contenute nelle linee guida elaborate dalle associazioni scientifiche di categoria, ma anche da protocolli previsti da decreti del Ministero della salute [47] che, per ciascuna tipologia di attività sportiva, impongono al medico di subordinare il rilascio del certificato di idoneità agonistica allo svolgimento di specifici accertamenti diagnostici e anamnestici.

Tali decreti elencano tutti gli accertamenti e le attività che il medico sportivo è tenuto ad effettuare per la valutazione della salute dello sportivo e, dunque, tipizzano la condotta del medico stesso, che non potrà discostarsi dal protocollo legale.

Si potrebbe, dunque, affermare che per i medici sportivi il mancato adeguamento della condotta alle prescrizioni contenute nei decreti ministeriali contenenti le linee guida dell’attività medico sportiva determina una responsabilità per colpa specifica [48], non avendo il medico sportivo rispettato un precetto normativo.

Diversamente, dunque, dagli altri esercenti la professione sanitaria, la cui attività è orientata dalle linee guida, l’attività dei medici sportivi non è solo orientata dalla presenza di decreti ministeriali ma vincolata dagli stessi. Per non andare incontro a responsabilità, il medico sportivo sarà tenuto a effettuare tutti gli accertamenti elencati nei decreti ministeriali e la loro eventuale omissione determinerà una responsabilità risarcitoria per i danni così causati a prescindere dalla eventuale adeguatezza della condotta alle circostanze del caso concreto.

La violazione delle linee guida per l’attività del medico sportivo condurrà ad un giudizio di responsabilità per colpa specifica, avendo il medico violato un precetto normativo: le procedure stabilite dalla normativa di controllo sanitario a tutela della salute degli atleti configurano, infatti, un complesso di obblighi la cui violazione di per sé integra una ipotesi di colpa specifica.

A queste linee guida normativamente previste si aggiungono poi i protocolli medici approvati dalle associazioni di categoria [49] ai quali i medici dello sport dovranno attenersi, seppur nel limite delle specificità del caso concreto, secondo quanto disposto dagli artt. 5 e 7 della legge Gelli-Bianco.


5. Le declinazioni della colpa del medico sportivo

Ulteriore allontanamento tra la responsabilità dei sanitari e quella riconosciuta ai medici sportivi riguarda l’accertamento della colpa e il ruolo della condotta del paziente nella valutazione della colpa e del nesso di causalità.

Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza a fronte di eventi, anche drammatici, su­biti dagli atleti in occasioni di competizioni sportive e per effetto di non diagnostiche anomalie fisiche, ha valutato la colpa dei medici sportivi con particolare rigore, evidenziando che la diligenza e la prudenza non debbano mai difettare nel medico sportivo, tenuto ad adeguare i propri interventi alla natura e alla pericolosità dell’atti­vità sportiva praticata [50].

L’ipotesi più frequente di responsabilità del medico sportivo è riconducibile al­l’er­roneo rilascio del certificato di idoneità alla pratica sportiva, da cui può derivare una responsabilità penale, qualora siano integrati gli elementi costitutivi del reato di falso ideologico [51], e una responsabilità civilistica che, salvo l’esistenza di un contratto con il paziente, sarà regolata dall’art. 2043 c.c.

La valutazione della colpa del medico sportivo è stata ampiamente discussa in dottrina e giurisprudenza soprattutto con riguardo alla applicabilità della regola di cui al­l’art. 2236 c.c. [52].

Per una parte della dottrina [53], le difficoltà e le peculiarità della professione svolta dal medico sportivo si tradurrebbero nell’applicazione dell’art. 2236 c.c. ad una vasta casistica che coinvolge l’attività del medico sportivo, che quindi risponderebbe solo nei casi di “dolo o colpa grave per i danni cagionati in occasione di problemi tecnici di particolare difficoltà”.

È noto che il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c., deve essere commisurato alla natura dell’attività esercitata, sicché per “diligenza professionale media” deve considerarsi quella posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media. Nel caso in cui la prestazione professionale da eseguire in concreto riguardi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la responsabilità del professionista è attenuata e si configura, ex art. 2236, solo nel caso di dolo o colpa grave [54].

A tale disposizione è stato riconosciuto un carattere eccezionale, applicandosi solo ai danni conseguenza dell’imperizia, e non invece alle ipotesi di negligenza e imprudenza [55].

Quindi mentre per l’imperizia l’operato del professionista andrà valutato con indulgenza proporzionale alla difficoltà dell’opera, per la prudenza e la diligenza la deroga dell’art. 2236 c.c. non opera “onde il giudizio dovrà essere improntato a giusta severità” [56].

Peraltro, la qualificazione della responsabilità del medico, anche sportivo, come extracontrattuale non pone ostacoli alla astratta applicabilità della disposizione atteso che la giurisprudenza di legittimità [57] ne ha riconosciuto la portata di norma generale applicabile alla responsabilità, sia contrattuale che extracontrattuale, dei professionisti.

La giurisprudenza di legittimità ha, poi, ritenuto qualificabili come “problemi tecnici di speciale difficoltà”, presupposto per l’applicazione dell’art. 2236 c.c., solo quei problemi che richiedono un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, con conseguente necessità di preparazione e dispendio di attività anch’esse superiori alla media; oppure quelli che presentano aspetti di straordinarietà ed eccezionalità, così da non essere stati, ancora, adeguatamente studiati nella scienza e sperimentati nella pratica [58], e, quindi, che trascendono la preparazione professionale media [59].

In campo medico, tanto più è specialistica e professionale la prestazione richiesta, tanto maggiore sarà la scrupolosità che il professionista dovrà mettere nell’esecuzione della propria opera, che consisterà quindi in una “diligenza speciale o rafforzata”. La diligenza, rafforzata, varierà poi al variare della specializzazione del singolo sanitario e della strumentazione a suo servizio [60].

In questo ambito si è ritenuto che l’art. 2236 c.c. possa trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui si richiede notevole abilità perché implicano la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comportano un largo margine di rischi [61]. Ebbene si può affermare che la giurisprudenza, per le professioni sanitarie, ha tendenzialmente applicato l’art. 2236 c.c. in modo piuttosto restrittivo ciò al punto di considerare problemi di speciale difficoltà, soltanto malattie non ancora sufficientemente studiate o oggetto di dibattiti scientifici [62].

Tuttavia, i criteri di valutazione della colpa adottati per i medici sportivi sono stati ancora più rigorosi, talvolta determinando uno scostamento dai parametri elaborati per le responsabilità professionali.

In un famoso caso, in cui perse la vita un giocatore di basket [63], la Corte di cassazione [64] ha riconosciuto la responsabilità del medico sportivo che preventivamente avvisato riguardo a lievi problemi di salute dell’atleta, nella specie un soffio al cuore, avrebbe dovuto porre maggiore attenzione al proprio assistito e alla sua salute adottando un maggior grado di prudenza e diligenza. La difficoltà e l’importanza della professione medica richiedono ai loro esercenti una diligenza superiore alla media.

La condotta del medico sportivo, in ragione della sua peculiare specializzazione e della necessità di adeguare i suoi interventi alla natura e al livello di pericolosità del­l’attività sportiva stessa, deve essere valutata con maggiore rigore rispetto a quella del medico generico, ai fini della configurabilità di una eventuale responsabilità professionale. In particolare, il suddetto medico ha l’obbligo di valutare le condizioni di salute del giocatore con continuità, anche in sede di allenamenti o di ritiro precampionato, dovendo anche verificare criticamente le informazioni fornite dagli stessi atleti o dai loro allenatori, al fine di poter individuare l’eventuale dissimulazione da parte del­l’atleta dell’esistenza di condizioni di rischio per la propria salute [65].

Dunque, è compito del Medico Sportivo “riuscire a diagnosticare anche la dissimulazione dell’atleta ed ad accertare le sue effettive condizioni” [66].

La giurisprudenza si è, quindi, espressa nel senso di pretendere dal medico sportivo un grado di diligenza maggiore rispetto a quello richiesto agli altri medici, parametran­do la diligenza richiesta al particolare ruolo rivestito di tutela della salute nello svolgimento delle attività sportive [67].


6. Il ruolo della condotta del paziente nel giudizio di responsabilità del medico

La responsabilità del medico sportivo può essere influenzata dal comportamento del danneggiato. Il paziente, soprattutto l’atleta professionista, può essere mosso dal­l’interesse principale di trarre dalla pratica il proprio sostentamento, scambiando prestazioni agonistiche contro retribuzione.

Accade, quindi, talvolta che il paziente-atleta non si rivolga al medico sportivo con l’unico obiettivo di tutelare la propria salute, ma anche perseguendo lo scopo di partecipare, a tutti i costi, alla competizione sportiva e non vedere compromessa la propria carriera sportiva. Dunque, in tali casi, l’interesse del medico alla tutela della salute non coincide con quello del paziente.

Tale divergenza di interessi rappresenta una delle specificità della disciplina della responsabilità del medico sportivo. La giurisprudenza, infatti, proprio in tale materia ha elaborato il principio di leale collaborazione, dando particolare attenzione alla problematica delle dissimulazioni di stati patologici da parte dell’atleta [68]. Può accadere, infatti, che la condotta reticente del paziente atleta renda complicato, talvolta impossibile, per il medico effettuare una anamnesi realistica e, dunque, disporre gli accertamenti necessari a salvaguardare la salute dell’atleta.

La condotta del paziente atleta è un elemento a cui la giurisprudenza ha riconosciuto primaria rilevanza nell’accertamento della responsabilità del medico sportivo, la cui valutazione potrebbe essere stata indotta o fuorviata dalle carenze informative del paziente. Tanto che sono state isolate due forme di simulazione: una simulazione volontaria [69], che si verifica allorquando l’atleta, proprio per il timore di non poter esercitare l’attività sportiva, mente al proprio medico nascondendogli eventuali stati soggettivi la cui conoscenza avrebbe potuto influire sulla diagnosi e sulla eventuale cura; e una simulazione involontaria [70], causata dall’innalzamento della soglia del dolore e della fatica, frequente in un fisico addestrato alla gara ed agli sforzi.

La giurisprudenza ha attribuito a tali condotte rilevanza ben diversa.

In un caso di rilevante risonanza mediatica [71], la giurisprudenza [72] ha riconosciuto un profilo di responsabilità in capo all’atleta per “sviamento della diagnosi”, reputando che le omissioni o le reticenze degli sportivi possono far venir meno la responsabilità del medico sportivo [73].

La colpa professionale del personale medico dovrebbe essere valutata con “larghezza e comprensione per le caratteristiche proprie dell’esercizio dell’arte medica in generale e di quelle dei casi concreti, ma pur sempre nell’ambito dei criteri dell’art. 43 c.p.c.”.

Pertanto, la condotta del paziente che “fieramente, stoicamente ed al limite, eroicamente soffocando le sofferenze, che, di fronte alle risultanze emerse dall’autopsia, non poteva non avvertire, senza rilevarle ad alcuno, sempre superava gli sforzi che era chiamato a compiere, indomitamente battendosi per i colori della squadra che lo aveva ingaggiato”, potrebbe integrare un concorso colposo.

Benché “l’eventuale colpa della vittima non esclude la rilevanza causale della colpa di chi alla tutela della sua integrità fisica e della sua incolumità era chiamato a provvedere”, “di essa va pur sempre accertata, come si diceva, l’esistenza o meno e, in caso affermativo, la rilevanza causale”.

Tale ipotesi non è così remota, né inusuale: di frequente atleti celano le proprie reali condizioni di salute per poter continuare a svolgere l’attività sportiva, per poter partecipare ad una gara o ad un campionato. Nel giudizio di responsabilità del medico sportivo, dunque, la condotta dell’atleta può spesso essere rilevante quale concorso colposo del danneggiato [74].

A ciò si deve aggiungere che la diligenza e l’esperienza del medico sportivo debbono essere “considerate anche in relazione al comportamento dello sportivo interessato e da chi lo rappresenta, potendo una diagnosi” [75] diventare troppo difficile in man­canza di dati anamnestici sinceri e completi. La corretta diagnosi medica può, quindi, risultare fuorviata dalla circostanza che il paziente atleta non abbia mai dichiarato di provare dolore o di avere problemi di salute. In queste ipotesi la giurisprudenza è giunta, dunque, ad escludere la responsabilità del medico sportivo proprio facendo leva sulla simulazione dello sportivo e sulla difficoltà di svolgere una corretta diagnosi, anche ai sensi dell’art. 2236 c.c.

Il paziente atleta avrebbe violato proprio il rapporto posto alla base della relazione tra medico e paziente, ossia l’alleanza terapeutica foriera non solo di obblighi di trasparenza e correttezza per il medico, ma anche per il paziente. La dissimulazione dello stato di salute assumerebbe rilievo nel giudizio di responsabilità del medico.

Tuttavia, a questi orientamenti di maggior favor per il medico sportivo, si sono opposte voci di maggior rigore [76].

Il medico sportivo dovrebbe, infatti, avere l’avvedutezza sufficiente per accorgersi della dissimulazione operata dall’atleta ed evitare così di andare incontro a responsabilità.

La professionalità, la diligenza e la prudenza del medico, e del medico sportivo in particolare, dovrebbero essere tali da indurre lo stesso a capire e, dunque, disvelare la possibile, e frequente, simulazione dell’atleta sullo stato di salute.

Il medico dello sport non può che essere consapevole che il paziente è spinto da una forte motivazione al successo delle gare, tale da indurre anche ad una simulazione sullo stato di salute. Rientra, quindi, nella ordinaria diligenza e prudenza del medico sportivo il dovere di indagare e diagnosticare la eventuale dissimulazione dell’atleta.

Una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente è affidata interamente al medico, che deve condurla in piena autonomia anche rispetto alle dichiarazioni rese dal paziente in sede di anamnesi, integrando un diverso operare una palese mancanza di diligenza. L’incompletezza o la reticenza delle informazioni fornite dall’interessato sulle proprie condizioni psico-fisiche, ove esse siano accertabili attraverso l’esecuzione, secondo la lex artis, della prestazione iniziale del rapporto curativo, non costituisce ragione giustificativa per l’applicazione della limitazione di responsabilità, ai soli casi di dolo e colpa grave, di cui all’art. 2236 c.c. [77]. La condotta del paziente non collaborativa con il medico, soprattutto nella medicina sportiva, non rende dunque la prestazione sanitaria di particolare difficoltà, tale da rendere applicabile il disposto dell’art. 2236 c.c. Al contrario il medico sportivo deve considerare nello svolgimento della prestazione anche la possibilità che il paziente dissimuli il proprio stato di salute per poter continuare a gareggiare.

A conclusioni necessariamente differenti dovrebbe giungersi nei casi di simulazione involontaria da parte dell’atleta paziente. Si tratta delle ipotesi in cui l’atleta proprio per la sua prestanza fisica ha raggiunto una soglia del dolore più elevata rispetto agli ordinari standard, tale da impedire un agevole e corretto accertamento delle sue condizioni di salute.

Non si potrà in queste ipotesi ravvisare un concorso colposo in capo all’atleta per una mera simulazione involontaria, né si potrebbe esonerare il medico sportivo da responsabilità: la valutazione di quest’ultimo non può prescindere dallo stato e dalle caratteristiche della salute dell’atleta.

Al più la condotta del paziente potrebbe essere valutata per attenuare, o escludere, la responsabilità del medico quando le conoscenze tecniche non avrebbero potuto consentire al professionista una diagnosi sullo stato di salute dissimulato dall’atleta. La giurisprudenza [78] in un caso di responsabilità di medico sportivo di bordo ring ha escluso la responsabilità del sanitario per la morte del pugile avvenuta a distanza di alcune ore dopo la fine di un combattimento. Le condizioni buone di salute del pugile subito l’incontro avevano, infatti, indotto il sanitario a disporre un lungo periodo di riposo, ma non anche l’esecuzione di ulteriori accertamenti, escludendosi l’ipotesi una lesione celebrale.

Considerate le circostanze concrete, per il medico sarebbe stato impossibile, o comunque troppo difficile, prevedere un così repentino peggioramento delle condizioni di salute tale da portare alla morte dell’atleta.


7. Riflessioni conclusive

L’analisi condotta sulle responsabilità dei medici sportivi manifesta quella che è stata definita da autorevoli studiosi la crisi del diritto e delle categorie generali [79]. Il legislatore, prima, e la giurisprudenza, poi, hanno elaborato veri e propri microsistemi della responsabilità civile, caratterizzati da regole ad hoc soprattutto in tema di accertamento e valutazione della colpa, ma anche di risarcibilità e quantificazione dei danni. Questo iter di allontanamento dai principi generali della responsabilità civile ha caratterizzato la disciplina della responsabilità sanitaria, divenuta un sottosistema autonomo, frutto di un’opera di ingegneria sociale [80], commissionata quasi interamente agli interpreti, il cui compito è divenuto quello della traslazione e della allocazione del danno. Cosicché, le regole elaborate in tema di accertamento della colpa e del nesso di causalità avevano dapprima l’obiettivo di rendere più agevole l’esercizio del diritto del paziente al risarcimento del danno, ritenuto parte debole del rapporto; in seguito, hanno perseguito il fine di arginare il fenomeno della c.d. medicina difensiva, scoraggiando pretestuose azioni risarcitorie nei confronti dei sanitari.

La gestione del sottosistema di responsabilità così concepito ha finito per produrre paradigmi normativi e regole giurisprudenziali diversi che delineano nuovi articolati standard di condotta e più puntuali criteri di valutazione della condotta del debitore e del danneggiante, modellati sulle singole specializzazioni mediche e sanitarie. In questo sistema un unicum è rappresentato dal medico sportivo, le cui responsabilità e i cui doveri sono caratterizzati non solo da una molteplicità di fonti, ma anche da una rilevante variabilità di letture interpretative, tali da conferire alla attività di questo specialista un elevato grado di incertezza e di incalcolabilità [81].


NOTE

[1] Ma si tratta di una prospettiva comune anche ad altri settori del diritto civile, cominciando dalla disciplina del contratto di vendita, che, anche sotto le spinte del diritto europeo, tende sempre più alla fram­mentazione del sistema e all’individuazione di specifici fatti o dati soggettivi che costituiscono i presupposti per l’applicazione di uno statuto di norme piuttosto che di un altro. Ma pensiamo anche alle declinazioni della proprietà e al proliferare delle ipotesi di nullità di protezione, che determinano uno scostamento rispetto al paradigma tradizionale della nullità.

[2] Legge 8 marzo 2017, n. 24, contenente “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 2017, n. 64.

[3] Sembra possibile ravvisare nella novella un intento qualificatorio: il legislatore ha espressamente qualificato la responsabilità del medico come extracontrattuale e quella della struttura sanitaria come contrattuale. Questa pretesa qualificatoria, o forse questo tentativo ordinatorio del legislatore, non tiene conto che l’ordinamento civilistico si fonda sul sistema delle fonti delle obbligazioni, regolate dall’art. 1173 c.c., e non delle responsabilità che ne costituiscono una conseguenza. Come noto il codice civile del 1942 riprende la classica tripartizione delle fonti delle obbligazioni elaborata da Gaio, per cui le obbligazioni derivano “da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle secondo l’ordina­mento giuridico”; l’individuazione del regime di responsabilità applicabile alla relativa violazione dipende dalla fonte dell’obbligazione violata. La responsabilità sarà, dunque, contrattuale se la fonte dell’obbli­gazione violata è il contratto, sarà extracontrattuale se la fonte dell’obbligazione risarcitoria è il fatto illecito. Il legislatore, nel caso della responsabilità sanitaria, sembra proporre un diverso ordine logico: anziché muovere dalla fonte dell’obbligazione per ricavarne lo statuto della responsabilità applicabile alla relativa violazione, muove dallo statuto della responsabilità da applicare alla violazione di un’obbligazione per qualificarne la fonte. Il legislatore non si è espresso, quindi, nel senso della qualificazione del fatto quale contrattuale o meno, ma ha individuato con norme imperative lo statuto di norme applicabili a un determinato fatto: rappresentato dagli artt. 1218 e 1228 c.c. per quanto riguarda la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata; rappresentato dall’art. 2043 c.c. nel caso dell’esercente la professione sanitaria.

[4] Elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle associazioni tecnico scientifiche iscritte nell’elenco ad hoc costituito presso il Ministero della Salute e pubblicate secondo la procedura prevista al comma 3 dell’art. 5 della legge Gelli-Bianco.

[5] Cass. 11 novembre 2019, n. 28994, in Guida al dir., 2020, 1, p. 105.

[6] Cass. 8 novembre 2019, n. 28811, in CED Cassazione, 2019.

[7] Orientamento confermato da Cass. 11 novembre 2019, n. 28986, in Guida al dir., 2020, 1, p. 118, ma già espresso da Cass. 7 marzo 2019, n. 6593, in Il caso.it, 2019.

[8] Cass. 11 novembre 2019, n. 28990, in Danno e resp., 2020, 1, p. 27.

[9] Pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 9 gennaio 1951, n. 6 e contenente norme sulla “Tutela sanitaria delle attività sportive”.

[10] La legge 23 dicembre 1978, n. 833, pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 1978, n. 360, istitutiva del servizio sanitario nazionale, individua quali obiettivi da perseguire, tra l’altro, “la tutela sanitaria delle attività sportive”. L’art. 14 della citata legge attribuisce alle unità sanitarie locali anche il compito di assicurare la “medicina dello sport e alla tutela sanitaria delle attività sportive”. Competenza che, fino alla costituzione delle USL da parte delle Regioni, ai sensi dell’art. 61, “continuerà ad essere assicurata, con l’osservanza dei principi generali contenuti nella legge 26 ottobre 1971, n. 1099 e delle normative stabilite dalle singole federazioni sportive (...)”. In seguito, la legge è stata integrata e modificata con il decreto del Ministero della Sanità del 18 febbraio 1982, contenente “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 1982, n. 63.

[11] Il tesseramento costituisce l’atto formale con il quale una Federazione Sportiva Nazionale conferisce l’abilitazione all’esercizio dell’attività sportiva agonistica nelle competizioni e gare ufficiali. La funzione del tesseramento consiste nell’identificare i soggetti che a vario titolo partecipano all’organizzazio­ne sportiva. Sono, quindi, tesserati non solo gli atleti, ma anche tutti quei soggetti che le federazioni individuano nell’ottica delle esigenze di ordine e di buon funzionamento dell’apparato sportivo volto alla realizzazione degli scopi propri del CONI. Sulla natura giuridica del rapporto di tesseramento non vi è unanimità in giurisprudenza e dottrina. Pur tuttavia sembra preferibile l’orientamento espresso da Cass., Sez. Un., 1° ottobre 2003, in Foro Amm. Cons. Stato, 2003, p. 93. Si rinvia a A. CINQUE, Tesseramento, in A. PIAZZA, A. ZIMATORE (a cura di), Repertorio Ragionato del Collegio di Garanzia dello Sport, Roma, 2019, p. 841 ss.

[12] L’art. 6 del d.m. citato, recita che: “Il medico sociale, specialista in medicina dello sport, è il responsabile sanitario della società sportiva professionistica e, in questa veste, deve essere iscritto in apposito elenco presso la federazione sportiva di appartenenza”.

[13] L’art. 5 del citato d.m. stabilisce che “La scheda sanitaria degli sportivi professionisti autonomi di cui all’art. 3, comma 2, della legge 23 marzo 1981, n. 91, è redatta dal medico di fiducia dell’atleta, scelto tra i medici specialisti in medicina dello sport. La scheda sanitaria, aggiornata con la periodicità di cui all’art. 1, è conservata dall’atleta che ne deposita il duplicato prodotto dal proprio medico di fiducia presso la federazione sportiva di appartenenza. (...)”.

[14] L’art. 7, invece, dispone tra l’altro che: “1) Il medico sociale provvede, per conto della società sportiva, alla istituzione ed all’aggiornamento della scheda sanitaria, curandone la compilazione sulla base delle risultanze degli accertamenti eseguiti alle scadenze stabilite ed in ogni altro momento si verifichi un rilevante mutamento delle condizioni di salute dell’atleta. 2) Ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 della legge 23 marzo 1981, n. 91, il medico sociale assume la responsabilità della tutela della salute degli atleti professionisti legati da rapporto di lavoro subordinato con la società sportiva”.

[15] Sul punto, si consenta rinviare a G. PACIFICO, L’idoneità alla pratica sportiva agonistica e non agonistica: normativa nazionale di riferimento, in C. BOTTARI, R. NICOLAI, G. PACIFICO (a cura di), Sport e sanità, Bologna, 2008, p. 87 ss.

[16] Regolamento del Settore Sanitario FIP, ratificato dalla Giunta Nazionale del CONI con delibera del 26 ottobre 2018, n. 426.

[17] In questo senso, l’art. 44 delle NOIF della Federazione Italiana Giuoco Calcio precisa che: “Tale sanitario assume la responsabilità della tutela della salute dei professionisti di cui al comma 1, ed assicura l’assolvimento degli adempimenti sanitari previsti dalle leggi, dai regolamenti e dalla normativa federale. In particolare, il medico sociale responsabile sanitario provvede a sottoporre i medesimi professionisti agli accertamenti clinico – diagnostici previsti dalla scheda sanitaria di cui al successivo comma 4), con periodicità almeno semestrale, nonché in ogni altro momento si verifichi un rilevante mutamento delle condizioni di salute del professionista”. Il Regolamento Esecutivo della Federazione Italiana Pallacanestro prevede, all’art. 48, la possibilità per la federazione di tesserare medici dello sport e comunque l’obbligo della presenza di un medico di servizio durante la disputa delle gare dei campionati nazionali, maschili e femminili, e dei campionati regionali (art. 72). Il Regolamento Sanitario della Federazione Italiana Nuoto distingue, poi, tra medico federale (art. 3), nominato dal Consiglio federale e componente della Commissione Medica Federale; medico sociale (art. 7), nominato dal Consiglio direttivo del sodalizio affiliato con il compito di supervisionare sull’osservanza di leggi e regolamenti in materia sanitaria e svolgere attività di informazione e prevenzione; medici addetti alle squadre nazionale, che effettuano attività di consulenza su atleti di squadre nazionali (art. 4); e medici di settore (art. 5), che organizzano controlli, visite e tengono informati i medici federali dello stato di salute degli atleti. Analoga distinzione si rinviene nel regolamento sanitario della Federazione Pugilistica Italiana (agli artt. 3, 4 e 5).

[18] Sembra utile rammentare che la Federazione medico sportiva italiana (FMSI) è la Federazione medica del CONI, che raggruppa i medici dello sport ed è deputata alla tutela della salute di atleti e di chiunque pratichi attività sportiva.

[19] Cass., Sez. Un., 22 gennaio 1999, n. 589, in Corr. giur., 1999, 4, p. 441, ha mosso due critiche alla riconducibilità del rapporto tra medico, paziente e struttura sanitaria al contratto a favore di terzi. In primo luogo, nelle ipotesi in cui il medico è un pubblico dipendente, non vi è un contratto tra l’ente gestore del servizio pubblico ed il medico, ma solo un rapporto di pubblico impiego. In secondo luogo, anche nelle ipotesi in cui tra medico e struttura vi è un contratto di lavoro, “il soggetto danneggiato che agisce non aziona il contratto esistente tra l’ente ed il medico, di cui egli sarebbe il terzo beneficiario (cioè in senso lato il contratto di lavoro) ma aziona il diverso "contratto" intervenuto tra lui e l’ente gestore per ottenere la prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario, ma parte contrattuale, ovvero propone un’azione di responsabilità extracontrattuale per la lesione di un suo diritto soggettivo assoluto, quale è il diritto alla salute”. Riflessioni analoghe sono state fatte nella sentenza sulla configurabilità della figura del contratto con effetti protettivi nei confronti di un terzo, elaborata dalla dottrina tedesca, che “si avrebbe ogni qualvolta da un determinato contratto sia deducibile l’attribuzione al terzo di un diritto non al conseguimento della prestazione principale, come accade sicuramente nel caso del paziente, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitare danni al terzo medesimo”.

[20] Alle osservazioni critiche mosse dalla giurisprudenza di legittimità si aggiunge la considerazione che, secondo le teorie tradizionali, la fattispecie del contratto a favore di terzi sussiste solo ove il diritto del terzo trovi il suo esclusivo fondamento nel contratto (U. MAJELLO, Contratto a favore del terzo, in Dig. civ., IV, Torino, 1989, p. 241). Al contrario, non si avrebbe contratto a favore di terzo quando il diritto sorga per legge, o il terzo ricavi solo qualche vantaggio dal contratto o benefici dell’intera prestazione realizzata nei suoi confronti – ad esempio, un trasporto o una cura medica – ma non acquisti la titolarità del diritto. Seguendo tale impostazione la giurisprudenza ha reputato che il diritto del cittadino alle prestazioni di assistenza farmaceutica in regime convenzionale è un diritto soggettivo perfetto nascente dal contratto in favore di terzi instauratori tra le USL ed i farmacisti convenzionati ed azionabile nei confronti di entrambe le parti del rapporto. Così, Pret. Napoli, 13 ottobre 1986, in Rass. dir. farm., 1987, p. 248.

[21] Approvato dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri nel 2014 e modificato nel 2018.

[22] Disciplina specifica è prevista per il rilascio della certificazione di idoneità allo svolgimento di attività sportiva ad elevato impegno cardiovascolare, contenuta nel d.m. 24 aprile 2013 e per l’attività sportiva agonistica praticata da atleti disabili (CIP), regolamentata dal decreto del Ministro della Sanità 4 marzo 1993 e successive integrazioni legislative.

[23] L’attività professionistica è disciplinata dalla legge 23 marzo 1981, n. 91, pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 27 marzo 1981, n. 91. La legge definisce l’ambito soggettivo di applicazione all’art. 2 ove prevede che “Sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.

[24] L’attività agonistica non professionistica è disciplinata dal decreto del Ministero della Sanità del 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 1982, n. 63. Il decreto ministeriale rimette alle federazioni sportive il compito di definire l’attività sportiva agonistica, non professionistica, prescrivendo, in ogni caso, che si sottopongano “previamente e periodicamente al controllo dell’idoneità specifica allo sport che intendono svolgere o svolgono”. Peraltro, il decreto, all’allegato 1, contiene un complesso elenco degli accertamenti che i medici sportivi devono effettuare in relazione allo sport praticato.

[25] Le attività sportive non agonistiche sono definite dal decreto del Ministero della sanità 24 aprile 2013 che ha abrogato il precedente decreto 28 febbraio 1983, come quelle attività praticate dai seguenti soggetti: a) gli alunni che svolgono attività fisico-sportive organizzate dagli organi scolastici nell’am­bito delle attività parascolastiche; b) coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società sportive affiliate alle federazioni sportive nazionali o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI e che non siano considerati atleti agonisti al sensi del decreto ministeriale 18 febbraio 1982; c) coloro che partecipano ai Giochi della gioventù, nelle fasi precedenti quella nazionale”. D. DURANTI, L’attività sportiva come prestazione di lavoro, in Riv. it dir. lav., 1983, I, pp. 699-700; G. VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, in Giust. civ., 1993, II, p. 209; V. FRATTAROLO, Il rapporto di lavoro sportivo, Milano, 2004, p. 20; M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, Torino, 2004, p. 53 ss.; G. GIUGNI, La qualificazione di atleta professionista, in questa Rivista 1986, p. 169 e ss.; M. DEL­L’OLIO, Lavoro sportivo e diritto del lavoro, in Dir. lav., 1988, I, p. 323.

[26] L’attività ludico – motoria, disciplinata principalmente dall’art. 2 del d.m. 24 aprile 2013 e dall’art. 7, comma 11, d.l. 13 settembre 2012, n. 158. Alle categorie elencate è opportuno, per ragioni di completezza, fare riferimento, altresì, alla attività sportiva di particolare ed elevato impegno cardiovascolare. La certificazione per le attività sportive ad elevato impegno cardiovascolare è oggetto della specifica disciplina contenuta nel d.m. 24 aprile 2013. In questi casi il rilascio del certificato di idoneità è subordinato alla rilevazione della pressione arteriosa, di un elettrocardiogramma basale, uno step test, nonché ad altri eventuali accertamenti ritenuti utili e opportuni a giudizio del medico.

[27] C. CASTRONOVO, Pluralità degli ordinamenti, autonomia sportiva e responsabilità civile, in Europa e dir. priv., 2008, p. 545.

[28] Vedi l’art. 2, comma 2, Statuto del CONI, in www.coni.it.

[29] Sul punto, si rinvia a G. AGRIFOGLIO, Le responsabilità del medico sportivo, Torino, 2010, p. 126. Secondo autorevole Dottrina, ancorata alla tesi dell’esistenza di un rapporto contrattuale tra paziente e medico, in questi casi si dovrà procedere ad un’interpretazione del contratto per accertare se la conoscenza ed il rispetto di tali regole da parte del medico sia o meno entrata a far parte dell’obbligazione da questi assunta. La disciplina generale dell’interpretazione del contratto consente, infatti, di poter risalire alla specifica e comune intenzione delle parti e di avere una visione complessiva e globale degli interessi effettivamente in gioco nel rapporto contrattuale (C. SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992; G. ALPA, L’interpretazione del contratto, Milano, 1983; N. IRTI, L’inter­pretazione del contratto nella dottrina italiana, Padova, 2000).

[30] Art. 2, comma 2, Statuto del CONI.

[31] Si rinvia a A. CINQUE, Principi e regole dell’ordinamento sportivo, in A. PIAZZA, A. ZIMATORE (a cura di), Repertorio ragionato del Collegio di Garanzia dello Sport, cit., p. 278 ss.

[32] Vedi E. QUADRI, Il codice deontologico medico ed i rapporti tra etica e diritto, in Studi in onore di P. Schlesinger, Milano, 2004, p. 185.

[33] Sul punto, si consenta rinviare a G. AGRIFOGLIO, op. ult. cit., p. 129.

[34] Si rimanda a G. AGRIFOGLIO, op. ult. cit., p. 130.

[35] La questione richiama le dogmatiche riflessioni sul ruolo delle fonti private, su cui si rinvia a R. MONTINARO, Fonti private di produzione normativa e mercato, in N. dir. civ., 2017, 2, p. 29 ss.; G. MORBIDELLI, Autonomia privata e fonti del diritto, in Autonomia privata e fonti del diritto. Atti del convegno tenutosi a Firenze il 16 maggio 2019, Milano, 2019, p. 27 ss.; N. IRTI, Il problema delle fonti in diritto privato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, p. 699; ma anche G. SANTORELLI, Sussidiarietà e regole di validità dei contratti sportivi, in M. NUZZO (a cura di), Principio di sussidiarietà nel diritto privato, I, Torino, 2014, p. 241 ss.; F. RICCI, Potere normativo dei privati, clausole generali e disciplina dei contratti, in M. NUZZO (a cura di), op. cit., p. 593 ss.

[36] G. DI LORENZO, Clausola sulla diligenza, in M. CONFORTINI (a cura di), Clausole negoziali. Profili teorici e applicativi di clausole negoziali tipiche e atipiche, Torino, 2017, p. 913 ss.; M. FRANZONI, Violazione del codice deontologico e responsabilità civile, in Danno e resp., 2013, p. 121 ss.; G. CERDONIO CHIAROMONTE, Norme deontologiche e responsabilità contrattuale dell’avvocato nel recente dibattito, in N. giur. civ., 2012, p. 695; ID., L’obbligazione del professionista intellettuale. Tra regole deontologiche, negoziali e legali, Padova, 2008; F. GALGANO, Deontologia forense e pluralità degli ordinamenti giuridici, in Contr. e impr., 2011, p. 287 ss.; A. D’ANGELO, Diritto deontologico e giurisdizione degli ordini professionali, in Danno e resp., 2001, p. 612 ss.

[37] Come noto, gli usi si distinguono in normativi (opinio legis ac necessitatis) e negoziali (prassi contrattuali per materia o per territorio), ma soltanto i secondi potrebbero derogare a norme dispositive di legge, sulla base di una presunta volontà delle parti. L’art. 1374 c.c. farebbe riferimento agli usi normativi (quelli negoziali troverebbero disciplina nell’art. 1340 c.c.): norme non scritte, costantemente reputate vincolanti ed applicate da una determinata cerchia di soggetti. Gli usi normativi non possono prevalere sulla legge e trovano applicazione quando siano espressamente richiamati (A. ASQUINI, Integrazione del contratto con le «clausole d’uso», in Scritti giuridici in onore di Antonio Scialoja per il suo XLV anno d’insegnamento, III, Diritto civile, Bologna, 1953, p. 25; ID., Le clausole d’uso dell’art. 1340, in Riv. dir. cost., 1950, II, p. 455).

[38] È noto che il testo contrattuale deve essere interpretato con i criteri indicati negli artt. 1362-1371 c.c. Tali regole sono dominate dal principio della gerarchia, inteso nel senso che le norme (artt. 1362-1365 c.c.) che mirano ad accertare e ricostruire la volontà espressa dai contraenti, secondo i canoni ermeneutici dell’autonomia e della totalità (interpretazione soggettiva), hanno la precedenza su quelle (artt. 1367-1371 c.c.) che mirano a risolvere il problema interpretativo nel quadro delle vedute correnti nel­l’ambiente sociale in cui il negozio è sorto (interpretazione oggettiva). Pertanto, il giudice potrà far ricorso al secondo gruppo di norme solo quando il primo gruppo non sia valso a dare un significato privo di dubbi e ambiguità alla clausola o al contratto. In questo senso si potrebbe, quindi, affermare che in prima istanza il contratto andrà interpretato ricercando la comune intenzione delle parti, che di certo non potrà nel caso in oggetto, prescindere dal rispetto delle regole sportive; laddove tale criterio non sia sufficiente si potrebbe ricorrere alle regole sportive quali usi interpretativi. Si veda G. AGROFOGLIO, op. cit., p. 126; sul tema in generale v. F. CARRESI, Dell’interpretazione del contratto, in Comm. Scialoja, Brancasub artt. 1362-1371, Bologna-Roma, 1992, p. 2 ss.

[39] Le pratiche generali alle quali si riferisce questa regola legale sono le pratiche degli affari, cioè gli usi negoziali (C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Milano, 1987, p. 410). Gli usi negoziali assolvono, infatti, anche una funzione specificamente interpretativa, come criterio di chiarimento delle clausole ambigue. (G. OPPO, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, p. 90).

[40] Il riferimento è a Cass. 28 luglio 1981, n. 4845, in Giust. civ., 1982, I, p. 2412; Cass. 17 marzo 2015, n. 5216, in rivistadirittosportivo.coni.it, 2016. Per un approfondito esame del tema si rinvia a M.P. PIGNALOSA, Ordinamento sportivo e fonti private, in Jus Civile, 2017, 6, p. 646 ss.

[41] L’orientamento porterebbe ad una sostanziale equiparazione tra le regole sportive e norme imperative, benché tramite il riferimento alla meritevolezza. Le norme sportive, frutto di autonomia privata, assurgerebbero al rango di norme imperative la cui inosservanza determinerebbe l’invalidità del contratto posto in essere, “finendo in questo modo per individuare un’ipotesi di nullità speciale non solo diversa, ma anche più gravosa rispetto a quella statale”, M.P. PIGNALOSA, op. cit., p. 648. In giurisprudenza hanno espresso orientamento contrario, tra le altre, Cass. 27 gennaio 2010, n. 1713, in Mass. giust. civ., 2010, p. 111; in dottrina si rinvia a A. FEDERICO, L’elaborazione giurisprudenziale del controllo di meritevolezza degli interessi dedotti nei contratti c.dd. sportivi, in Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° Convegno Nazionale della Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, 27-28-29 marzo 2008, Napoli, 2009, p. 371.

[42] Tra le tante, si veda Cass. 9 maggio 2017, n. 11208, in CED Cassazione, 2017.

[43] Ai sensi dell’art. 5 della legge Gelli, le linee guida devono essere elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati, nonché dalle società scientifiche e associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in un apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della Salute. A tal proposito la Federazione Medico Sportiva Italiana è tra le associazioni scientifiche accreditate presso il Ministero della Salute.

[44] Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017-22 febbraio 2018, n. 8770, in Guida al dir., 2018, 12, p. 28 ss., con nota di G. AMATO, Conclusione giusta in linea con la norma e contro le negligenze.

[45] In questo senso, Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017-22 febbraio 2018, n. 8770, cit. Nel medesimo senso si è espressa anche, nel caso Tarabori, la Cass. pen., 20 aprile-7 giugno 2017, n. 28187, in Dir. pen. cont., 2017, 6, p. 280 ss., con nota di C. CUPELLI, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio; e la sentenza Cavazza Cass. pen., 19 ottobre-31 ottobre 2017, n. 50078, in Dir. pen. cont., 7 novembre 2017, con nota di C. CUPELLI, Quale (non) punibilità per l’imperi­zia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite.

[46] In questo senso, Cass. 9 maggio 2017, n. 11208, in N. dir. civ., 2017, 2, p. 127 ss.

[47] Si veda il decreto del Ministero della Salute, 8 agosto 2014, rubricato “Linee guida di indirizzo in materia di certificati medici per l’attività sportiva non agonistica”.

[48] È nota la disputa dottrinale sulla distinzione tra colpa specifica e generica, su cui si sinteticamente ricorda la distinzione tra una lettura topologica, che esprime una piena valorizzazione del luogo ordinamentale nel quale trova collocazione la regola cautelare: “positivo” per le norme che fondano la colpa specifica, “sociale” per le regole di colpa generica (S. GROSSO, Grado della colpa e linee guida: una ventata d’aria fresca nella valutazione della colpa medica, in Cass. pen., 2014, p. 1681); ed una lettura tipologica, che pone attenzione al tipo di regola cautelare che viene in rilievo, alle relative caratteristiche, e che prescinda dunque dalla fonte di riferimento. Un tale approccio giunge ad evidenziare come anche le regole scritte, positive, possano avere un contenuto generico, indeterminato, “elastico”, idoneo a fondare una colpa che di specifica (F. GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 92 ss.).

[49] Quali i protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico elaborati dal COCIS nel 2017.

[50] Cass. pen., 9 giugno 1981, n. 9367, in Foro it., 1982, 6, p. 268 e in Giust. pen., 1983, 3, p. 146, secondo la quale nei reati colposi il giudice deve accertare e valutare, oltre alla efficienza causale del comportamento dell’imputato, anche l’eventuale sussistenza di cause poste in essere dalla vittima (nella specie: la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità per omicidio colposo del medico della società sportiva Perugia e del direttore del centro tecnico della Figc per la morte, avvenuta nel corso di una partita, del giocatore di calcio Renato Curi, ritenuto idoneo all’attività sportiva, nonostante una riscontrata ma non diagnosticata anomalia cardiaca, va annullata con rinvio per omessa valutazione di un eventuale concorso colposo dell’atleta, che, al fine di poter giocare, aveva taciuto le sofferenze fisiche sopportate). La colpa professionale del sanitario (medico della società sportiva Perugia e direttore del centro tecnico della Figc per la morte, avvenuta nel corso di una partita, del giocatore di calcio Renato Curi, ritenuto idoneo all’attività sportiva, nonostante una riscontrata ma non diagnosticata anomalia cardiaca) deve essere valutata con larghezza e comprensione per le peculiarità proprie dell’esercizio dell’arte medica in generale e di quelle relative ai casi concreti, ma pur sempre nell’ambito dei criteri dettati dall’art. 43 c.p.

[51] Il reato di falso ideologico (artt. 480-481 c.p.) si configura quando il giudizio diagnostico espresso nel certificato medico si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio stesso che siano non corrispondenti al vero e che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione, secondo Cass. pen. 24 maggio 1977, n. 11482, in CED Cassazione. Il falso ideologico si differenzia a seconda che sia commesso in atto pubblico (art. 479 c.p.) o in certificazione amministrativa (art. 480 c.p.) da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio, ipotesi più grave punita con maggiore severità, rispetto a quella commessa in scrittura privata (art. 481 c.p.) da un medico in regime libero professionale. In merito all’ipotesi eventuale di errore diagnostico del medico nel certificato, si rileva che la Cass. pen. 18 marzo 1999, 3552, in Riv. pen., 1999, 5, p. 464, ha posto la seguente distinzione tra diagnosi falsa e diagnosi errata: è falsa la certificazione che si basa su premesse oggettive non corrispondenti al vero, mentre invece è errata (quindi senza dolo) se risulta inattendibile l’interpretazione data per motivare il giudizio clinico. La legge penale richiede che sia dimostrata l’intenzionalità della condotta illecita per accertare il reato, non essendo prevista nel sistema legislativo vigente la figura del falso documentale colposo.

[52] Sulla applicabilità della disposizione anche al regime della responsabilità extracontrattuale si è espressa la giurisprudenza. Inter alia Cass. 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, p. 600; Cass. 20 novembre 1998, n. 11743, in Mass. giur. it., 1998.

[53] In questo senso R. FRAU, La responsabilità civile sportiva, in P. CENDON (a cura di), La responsabilità civile, vol. X, Torino, 1998, p. 369 ss.

[54] Cass. 8 agosto 2000, n. 10431, in Mass. giur. it., 2000.

[55] Corte cost. 28 novembre 1973, n. 166, in Giur. cost., 1973, p. 1795; Cass. 13 marzo 2007, n. 5846, in Ragiusan, 2007, 281; Cass. 16 aprile 2006, n. 9085, in Giust. civ. mass., 2006. La giurisprudenza tende ad applicare restrittivamente la norma, specie con riferimento ai medici chirurghi: ciò al punto di considerare problemi di speciale difficoltà, soltanto malattie non ancora sufficientemente studiate o oggetto di di­battiti scientifici (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 1093; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Mass. giur. it., 1995; Cass. 10 settembre 1999, n. 9617, in Danno e resp., 2000, 7, p. 730).

[56] Trib. Forlì, 12 giugno 1981, in Foro it., 1982, II, p. 269.

[57] Cass. 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, p. 600 e in Mass. giur. it., 1990; Cass. 20 novembre 1998, n. 11743, in Mass. giur. it., 1998 per cui anche in presenza di responsabilità extracontrattuale del medico (nel caso, dipendente ospedaliero) si applica la limitazione di responsabilità al dolo e alla colpa grave di cui all’art. 2236 c.c. se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

[58] Si veda Cass. 26 marzo 1990, n. 2428, cit.

[59] Cass. 1° febbraio 1991, n. 977, in Giur. it., 1991, 12, p. 1379; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904, in Danno e resp., 2014, 1, p. 33.

[60] Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143, in Ragiusan, 2013, 358. Si rinvia anche a L. LUCHETTI, La responsabilità del sanitario nella soluzione si problemi tecnici di speciale difficoltà, in R. TUCCILLO (a cura di), La responsabilità delle strutture e degli operatori della sanità, Molfetta, 2020, pp. 79-87.

[61] Cass. 28 maggio 2004, n. 10297, in Resp. civ., 2005, p. 396.

[62] Cass. 12 agosto 1995, n. 8845, in Zacchia, 1997, p. 115 e in Mass. giur. it., 1995; Cass. 19 aprile, 2006, n. 9085, in Mass. giur. it., 2006; Cass. 13 gennaio 2005, n. 583, in Mass. giur. it., 2005.

[63] Il riferimento è alla morte del giocatore di basket Luciano Vendemini, che perse la vita durante una competizione. In questo tragico accadimento, il medico sportivo era stato preventivamente avvisato dei problemi di salute dell’atleta, nel dettaglio un soffio al cuore, ma ciononostante non aveva raccomandato ulteriori accertamenti diagnostici e aveva in ogni caso conferito il placet alla partecipazione alla gara sportiva. Venne condannato per omicidio colposo per tale condotta negligente il medico dello sport per aver, senza svolgere accertamenti clinici, rilasciato il certificato attestante le buone condizioni generali e cardio-circolatorie del giocato re poi deceduto, affetto da morbo di Marfan, dal Tribunale di Forlì (sentenza 12 giugno 1981, in Foro it., 1982, II, p. 269).

[64] Cass. 15 dicembre 1972, n. 3616, in Foro it., I, 1973, c. 1475.

[65] Cass. 8 gennaio 2003, n. 85, in Mass. giur. it., 2003.

[66] Cass. 8 gennaio 2003, n. 85, cit.

[67] Il rigore nella valutazione della responsabilità dei medici dello sport ha riguardato non solo l’ele­mento soggettivo della colpa, ma anche il nesso di causalità. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è possibile condannare al risarcimento del danno coloro i quali rilasciano un certificato di idoneità sportiva a un soggetto con delle anomalie cardiache che successivamente decede durante una partita di calcio. Ciò anche quando la condotta colposa del medico sportivo non abbia dato origine al­l’evento lesivo, ma lo abbia favorito o anticipato. Tale orientamento si fonda sull’assunto per cui anche favorire o anticipare l’evento lesivo che la persona era già destinata a patire costituisce condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte, tale da obbligare chi l’ha tenuta al risarcimento del danno, e simile condotta è ravvisabile anche in quella del medico specialista in medicina dello sport, che rilascia un certificato di idoneità a giocare al calcio a livello agonistico ad un soggetto, poi deceduto durante una partita di calcio, trascurando gli esiti non rassicuranti degli accertamenti cardiologici. V. App. L’Aquila 28 novembre 2018, n. 2214, in rivistadirittosportivo.coni.it, 2018.

[68] G. AGRIFOGLIO, op. ult. cit., pp. 137-145.

[69] G. AGRIFOGLIO, op. ult. cit., p. 137.

[70] G. AGRIFOGLIO, op. ult. cit., p. 137.

[71] Il riferimento è al caso del giovane calciatore del Perugia Renato Curi deciso dapprima dal Trib. Perugia 2 maggio 1979, in Foro it., II, 1979, pp. 316-320; poi dalla App. Perugia 26 marzo 1980, in Foro it., II, 1980, pp. 627-636; ed infine da Cass. pen. 9 giugno 1981, n. 9367, in Foro it., 1982, II, pp. 268-280. In questo drammatico episodio il calciatore del Perugia Renato Curi perse la vita stroncato da un attacco di cuore in occasione di una partita di serie A. A seguito della vicenda, furono rinviati a giudizio, per omicidio colposo, sia il medico sociale del Perugia Calcio, che il direttore sanitario e il medico cardiologo del Centro Tecnico Federale della FIGC di Coverciano in quanto, nonostante alcune aritmie cardiache riscontrate dall’atleta, non era stato vietato al calciatore di disputare la partita. Il medico sociale e il direttore sanitario del Centro Tecnico Federale della FIGC furono poi assolti per insufficienza di prova e incertezza circa il nesso di causalità tra morte e omissioni colpose dei medici, mentre il cardiologo venne assolto per non aver commesso il fatto in primo grado. La Corte d’Appello di Perugia ribaltò la decisione condannando per omicidio colposo il direttore sanitario del Centro Tecnico Federale della FIGC a causa della condotta negligente in occasione degli accertamenti sanitari sull’atleta. Infine, la Cassazione, esaminando il caso, si pronunciò su una responsabilità dell’atleta per lo sviamento della diagnosi.

[72] Cass. pen. 9 giugno 1981, n. 9367, cit.

[73] Sul punto, Trib. Perugia, 2 maggio 1979, cit.; App. Perugia 26 marzo 1980, cit.; Cass. pen. 9 giugno 1981, n. 9367, cit.

[74] Il concorso colposo del danneggiato nella causazione del danno è disciplinato dall’art. 1227 c.c. nell’ambito della responsabilità contrattuale. Tuttavia, la giurisprudenza e la dottrina ritengono la regola applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale stante il rinvio operato dall’art. 2056 c.c. (v. Cass. 30 settembre 2008, n. 24320, in Mass. giur. it., 2008). In tal caso il concorso colposo si configura come una omissione, coinvolgendo quindi la necessità di verificare la sussistenza della causalità omissiva, tema lungamente dibattuto dalla dottrina e giurisprudenza penale in materia di reati omissivi impropri (ex art. 40, comma 2, c.p.). La disputa è stata appianata con il ricorso alla c.d. teoria normativa, a tenore della quale per accertare la sussistenza di una responsabilità penale omissiva non è sufficiente richiamare una generica antidoverosità sociale dell’inerzia – dunque un generico neminem laedere – ma è necessario che sia individuabile, caso per caso, un obbligo giuridico di impedire l’evento, che può derivare da una norma o quantomeno da uno specifico obbligo negoziale – c.d. obblighi di protezione –. Trasponendo le tesi alla responsabilità civile si dovrebbe concludere che il concorso colposo del danneggiato potrebbe sussistere solo in ipotesi di colpa specifica e quindi solo ove il danneggiato aveva un obbligo imposto da una norma o da un negozio di compiere una data attività. Tale orientamento, pur condiviso in passato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 30 settembre 2008, n. 24320, cit.), è stato superato da Cass., Sez. Un., 21 novembre 2011, n. 24406, in Nuova giur. civ., 2012, 5, p. 431, che hanno affermato che un comportamento omissivo caratterizzato da colpa generica può fondare il concorso di colpa. Stante la genericità dell’art. 1227 c.c., non si può escludere il concorso colposo nelle ipotesi di violazione da parte del danneggiato di una “norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica”.

[75] Trib. Roma, 20 ottobre 1969, in questa Rivista, 1969, p. 421. Il caso riguardava un pugile che non aveva mai dichiarato di essere affetto dalla sindrome di Meniere ottenendo così il certificato di idoneità alla pratica agonistica.

[76] V. FRATTAROLO, La responsabilità civile del medico sportivo in relazione a stati patologici del­l’atleta. Relazione al convegno sul tema: “La responsabilità civile e penale dei presidenti delle società e dei medici dello sport nella patologia da sport”, Pavia, 15 ottobre 1988, in questa Rivista, III-IV, 1988, p. 358.

[77] Cass. 12 settembre 2013, n. 20904, in Danno e resp., 2014, 1, p. 33.

[78] Il riferimento è al decesso del pugile Angelo Jacopucci avvenuto dopo alcune ore dal termine dell’incontro pugilato in cui era stato sconfitto per K.O. Il caso fu deciso in primo grado dal Trib. Bologna, 28 gennaio 1983, in Foro it. Rep., 1984, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 161, in cui si affermò la responsabilità del medico sportivo. In secondo grado venne esclusa la responsabilità del medico sportivo dalla App. Bologna 18 marzo 1985, in Foro it., II, 1986, pp. 91-92.

[79] N. IRTI, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 1, p. 36.

[80] P.G. MONATERI, Le fonti dell’obbligazione, La responsabilità civile, Torino 1998.

[81] N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016.