Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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Le certificazioni sanitarie di idoneità all'esercizio di attività sportive (di Emanuele Indraccolo, Professore Associato di Diritto privato nell’Università degli Studi di Salerno.)


The paper analyses the rules concerning medical certifications required for sporting activities, as foreseen by the law. The analysis focuses on the evolution of this rules and aims to prove that the criteria presently required to differentiate the various certifications seem to be inconsistent with Articles 2, 3 and 32 of Italian Costitution. It is also criticized the use of dubious categories of sport activity as «professional», «agonistical», «non-agonistical», «recreational» or «amateur». It is necessary, therefore, to better regulate the field, even with the contribution of the Olympic Committee and sports federations, with the aim of ensuring an effective protection to the athlete as a person, based on the nature of the sport activity concretely practiced.

SOMMARIO:

1. Delimitazione del piano d’indagine. Sport e salute: art. 32 Cost. quale criterio per l’individuazione delle diverse tipologie di tutela - 2. Profili introduttivi: la recente evoluzione della normativa in materia di certificazioni di idoneità alla pratica sportiva - 3. Segue. Le varie tipologie di tutela, secondo le definizioni offerte dal legislatore: «attività professionistica», «attività agonistica», «attività non agonistica», «attività di particolare ed elevato impegno cardiovascolare» e «attività ludico-motoria e amatoriale» - 4. Rilievi critici. Il dubbio concetto di «agonismo» quale discrimen tra diverse tipologie di certificazioni: profili di illegittimità costituzionale - 5. Necessità di un intervento normativo e regolamentare, per garantire, in base alla natura dell’attività concretamente prestata, un’effettiva tutela della persona-atleta - NOTE


1. Delimitazione del piano d’indagine. Sport e salute: art. 32 Cost. quale criterio per l’individuazione delle diverse tipologie di tutela

Le questioni che coinvolgono la tutela della salute della persona-atleta sono molteplici e rilevano sotto svariati profili, anche in ragione della circostanza, oramai pacifica in dottrina [1], della rilevanza costituzionale dello sport, fra l’altro alla luce degli artt. 2 e 32 Cost. Ogni disposizione coinvolta nella disciplina dei concreti rapporti, quindi, dev’essere sempre letta alla luce di tali princìpi, in modo da dirimere eventuali dubbi interpretativi che dovessero sorgere. Si pensi, ad esempio, alle delicate questioni connesse alla lotta contro il doping. Quest’ultima è nobilmente giustificata, in primo luogo, dalla necessità di tutela del bene primario «persona» e, soltanto secondariamente, dalla realizzazione del deteriore interesse a che le competizioni sportive si svolgano lealmente. È evidente, dunque, che il corretto bilanciamento degli interessi di volta in volta coinvolti, quantomeno in sede disciplinare, dovrebbe privilegiare il primo aspetto rispetto al secondo, influenzando, così, la scelta dell’interprete in fase applicativa. Ciò spiega – semplificando – il motivo per il quale sarebbe irragionevole vietare l’assunzione di sostanze (come i c.dd. integratori doping free), le quali, incidendo positivamente sul benessere psico-fisico della persona, contribuiscano indirettamente a migliorare le prestazioni dell’atleta. Ulteriori aspetti rilevanti per ben comprendere i rapporti tra sport e tutela della salute emergono nelle complicate questioni relative alla responsabilità per lesioni subite nell’esercizio della pratica sportiva [2]. Analogamente, nel settore giuslaburistico i profili di responsabilità potrebbero riguardare il datore di lavoro sportivo [3], ogniqualvolta si riscontri, in concreto, questo genere di rapporto (a prescindere, ovviamente, dalla qualificazione federale della categoria nella quale è prestata l’attività [4]). La materia è disciplinata, a livello primario, dall’art. 7 della legge 23 marzo 1981, n. 91, in virtù del quale «l’attività sportiva professionistica è svolta sotto controlli medici, secondo norme stabilite dalle federazioni sportive nazionali ed approvate, con decreto del Ministro della sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente [continua ..]


2. Profili introduttivi: la recente evoluzione della normativa in materia di certificazioni di idoneità alla pratica sportiva

A livello primario, il principale riferimento normativo, al quale s’ispirano le più recenti modifiche che saranno oggetto della presente trattazione, è la legge 26 ottobre 1971, n. 1099, relativa alla «Tutela sanitaria delle attività sportive». L’art. 2, in particolare, dispone che «la tutela sanitaria si esplica mediante l’accertamento obbligatorio, con visite mediche di selezione e di controllo periodico, dell’idoneità generica e della attitudine di chi intende svolgere o svolge attività agonistico sportive. Con decreto del Ministro per la sanità, sentito il Comitato olimpico nazionale italiano, vengono emanate, entro sei mesi dalla data di pubblicazione della presente legge, le norme regolamentari volte a disciplinare le modalità di esercizio della tutela per le singole attività sportive, con particolare riferimento all’età, al sesso ed alla qualifica dilettantistica o professionistica di coloro che praticano le rispettive attività, nonché a prevedere i casi in cui sono obbligatorie le visite prima e dopo le gare in relazione al rischio ed al carico al quale viene sottoposto l’atleta». L’art. 1 attribuisce alle Regioni il cómpito di disciplinare tali tutele, specificando che esse devono legiferare secondo «un programma le cui finalità e contenuti corrisponderanno ai criteri di massima fissati dal Ministero della sanità con il concorso delle regioni stesse». Il legislatore è più volte intervenuto per modificare la disciplina relativa alle certificazioni sanitarie per l’esercizio della pratica sportiva «non agonistica» [7], suscitando numerosi dubbi di carattere interpretativo e applicativo [8]. Le disposizioni attualmente vigenti sono il frutto di un primo impulso, decisamente garantista, che aveva notevolmente aumentato le fattispecie per le quali si richiedeva l’obbligo di certificazione sanitaria, e di un successivo revirement del legislatore. In un primo momento (probabilmente sulla scia emotiva connessa alla morte del calciatore Piermario Morosini, deceduto il 14 aprile 2012 a séguito di un malore patito durante la partita del Campionato di Serie B fra Pescara e Livorno, e ai numerosi episodi analoghi, non oggetto, tuttavia, di identica risonanza mediatica), il legislatore aveva mostrato di voler corroborare il sistema [continua ..]


3. Segue. Le varie tipologie di tutela, secondo le definizioni offerte dal legislatore: «attività professionistica», «attività agonistica», «attività non agonistica», «attività di particolare ed elevato impegno cardiovascolare» e «attività ludico-motoria e amatoriale»

Dalla descrizione testé operata emerge che sono previste diverse certificazioni, effettuate ad esito di esami medici ai quali deve sottoporsi ciascun atleta per poter svolgere la propria attività, diversamente modulate in base alla qualifica dell’attività prestata dall’atleta medesimo. A) In àmbito professionistico, tali accertamenti sono più frequenti (devono essere rinnovati ogni sei mesi), decisamente minuziosi e sono disciplinati anche da specifiche regole emanate dagli enti sportivi, in conformità con il principio di sussidiarietà[9]. L’accuratezza dei controlli consente di diminuire sensibilmente il rischio di malori accusati durante la pratica sportiva e ciò è dimostrato, com’è facilmente intuibile, dalla minor frequenza di tali episodi, rispetto a quanto invece accade nel settore «non professionistico». Il concetto di «professionismo» è disciplinato dall’art. 2, legge n. 91/1981, in virtù del quale «sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’àmbito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica». I riferimenti normativi sono, giova ribadirlo, l’art. 7, legge n. 91/1981 e il m. 13 marzo 1995 e successive modificazioni e integrazioni. B) Nelle categorie che non rientrano fra quelle individuate sub A), la disciplina muta, secondo un ulteriore criterio, a parere di chi scrive, discutibile: l’agonismo. Il m. 18 febbraio 1982, all’art. 1, prevede che «la qualificazione agonistica a chi svolge attività sportiva è demandata alle federazioni sportive nazionali; o agli enti sportivi riconosciuti». In tal caso, «l’accertamento di idoneità, relativamente all’età ed al sesso, per l’accesso alle singole attività sportive agonistiche viene determinato […] sulla base della valutazione della maturità e della capacità morfofunzionale e psichica individuale, [continua ..]


4. Rilievi critici. Il dubbio concetto di «agonismo» quale discrimen tra diverse tipologie di certificazioni: profili di illegittimità costituzionale

I criteri sinora utilizzati dal legislatore, per «graduare» l’approfondimento degli accertamenti sanitari prodromici allo svolgimento in sicurezza dell’attività sportiva, non paiono soddisfacenti. Un sistema congegnato sul concetto di «agonismo», in particolare, è assolutamente inidoneo a garantire adeguata tutela [14], in tutti quei casi nei quali l’attività concretamente svolta dall’atleta sia di intensità tale da compromettere la sua integrità psico-fisica, in presenza di patologie o disfunzioni diagnosticabili. Per altro, si consideri che il concetto stesso di agonismo, come fatto proprio dal legislatore, non corrisponde affatto all’effettivo significato del termine in questione. Si è già avuto modo di segnalare [15] che l’agonismo è, in realtà, elemento soggettivo, attinente alla sfera psicologica della persona e riconducibile esclusivamente al suo foro interno; esso attiene all’intima condizione di ciascun atleta e, come tale, è inidoneo a costituire criterio di differenziazione tra i diversi tipi di attività e di disciplina. L’agonismo incarna l’anima o il fine autentico dello sport moderno (o post-moderno) [16]; tuttavia esso, in concreto, può non sussistere ai massimi livelli ed essere invece presente finanche nello «sport amatoriale». Per agonismo si deve intendere la foga con la quale è svolta un’attività al fine di superare l’avversario, lo spirito combattivo del partecipante, l’in­ten­sità con la quale egli profonde le proprie energie psico-fisiche. Ne deriva che non si può certo ravvisare agonismo, ad esempio, in una partita di calcio per beneficenza, organizzata dalla FIFA e disputata dai campioni più blasonati del mondo; ciò sebbene gli atleti in questione siano ai massimi livelli e l’incontro sia svolto nel­l’àm­bito della più importante federazione sportiva internazionale. D’altra parte, perfino una partita di calcio organizzata estemporeneamente su una spiaggia tra turisti potrebbe essere caratterizzata, in concreto, da un elevato livello di agonismo, qualora i partecipanti intendano fermamente vincere gli avversari [17]. Circostanza, quest’ultima, che non può mutare, evidentemente, la natura dell’attività in [continua ..]


5. Necessità di un intervento normativo e regolamentare, per garantire, in base alla natura dell’attività concretamente prestata, un’effettiva tutela della persona-atleta

In conclusione, il nostro legislatore sembrava aver intuito, prima del discutibile revirement, l’importanza della tutela della salute della persona-atleta; con l’art. 2, d.m. 24 aprile 2013 era stato fatto un importante passo in avanti verso la corretta attuazione degli artt. 2 e 32 Cost. nel fenomeno sportivo. Particolarmente apprezzabile era l’e­sten­sione della tutela anche al di fuori dello «sport ufficiale» [24] e il conseguente obbligo per qualunque organizzatore di negare la partecipazione a coloro i quali non potessero ottenere la prescritta certificazione di idoneità. Parimenti condivisibile, poi, era il richiamo, al comma 5, alla concreta valutazione dell’attività da svolgere. Irragionevole, infatti, sarebbe un obbligo di certificazione, per un’attività sportiva che, ancorché svolta ai massimi livelli, non determini uno stress psico-fisico tale da mettere in pericolo la salute della persona. «Esigenze di semplificazione», legate alla necessità di «non gravare cittadini e Servizio sanitario nazionale di ulteriori onerosi accertamenti e certificazioni», hanno però indotto il legislatore, come specificato, a tornare sui propri passi e vanificare il processo di «adeguamento costituzionale» della disciplina prevista in materia. L’art. 4, d.m. 24 aprile 2013 è, tuttavia, sopravvissuto. Anche in questa ipotesi, pur mantenendosi la criticabile limitazione della tutela alle sole competizioni patrocinate da CONI, Federazioni, Discipline associate ed Enti di promozione sportiva riconosciuti, il legislatore ha avuto il merito di non rinviare soltanto alle regole endoassociative sportive e di indicare, in via meramente esemplificativa, alcuni tipi di attività per le quali è opportuna una certificazione ad hoc. Da qui è opportuno ripartire. In un settore così delicato, non è pensabile un sistema di tutele congegnato su definizioni meramente formali e costellato di limitazioni del tutto irragionevoli. È allora da accogliere con grande favore la recente apertura del legislatore secondario verso valutazioni che, prescindendo da tali criteri, tengano in giusta considerazione la particolare tipologia di attività sportiva, in relazione alle condizioni della singola persona. Del resto, questo è l’indirizzo in base al quale, sin dal citato art. 2, legge n. [continua ..]


NOTE