Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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CONI e federazioni sportive nel dibattito politico-parlamentare del secondo dopoguerra (di Enrico Landoni, Professore Associato di storia contemporanea presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi e Campus.)


This paper analyses the relationship between sports and politics in Italy, focusing attention on the strong ideological and cultural obstacles that have often prevented political leaders to fully understand the importance of physical activity. The reasons for the reluctance is shown throughout the history of republican parties to intervene, except in a limited cases or merely for reasons of urgency, in the field of sports and in particular on technical and internal structure of the federations and then on their relations with CONI. The work addresses the evolution of the relation between sports and politics in Italy by giving a critical overview from the 40ies to nowadays.

SOMMARIO:

1. La mancata liquidazione del CONI e la scelta della continuità dinamica - 2. La malintesa autonomia dello sport: un utile alibi per la politica - 3. «Sport»: una parola troppo scomoda per il nascente ministero del Turismo e dello Spettacolo - 4. La mancata discussione sui progetti di riordino del CONI e delle federazioni - 5. Per un nuovo protagonismo della politica: l’indagine conoscitiva sulla situazione e le prospettive dello sport in Italia - 6. Sempre sull’onda dell’emergenza: l’impossibilità di un intervento orga­nico e strutturale in materia di sport - NOTE


1. La mancata liquidazione del CONI e la scelta della continuità dinamica

Sempre piuttosto complicata, nella storia dell’Italia unita, è stata la relazione tra sport e politica, a causa soprattutto delle forti ubbie di ordine ideologico-culturale, che hanno impedito in più occasioni alla classe dirigente del nostro Paese e soprattutto alle forze di opposizione di comprendere appieno l’importanza dell’attività motoria e di maturare così nei suoi riguardi un atteggiamento obiettivo e neutrale, scevro cioè sia da inutili paure sia da malcelate finalità strumentali.

Quello ad esempio nutrito dal movimento socialista nei confronti dello sport fu infatti di assoluta ripulsa e di ferma condanna ideologica, emblematicamente riassunto dagli ordini del giorno approvati in occasione del terzo congresso della Federazione giovanile socialista (FGS), che si svolse a Firenze tra il 18 ed il 20 settembre 1910, con tanto di raccomandazione «a mettere in guardia i lavoratori da quella specie di sport che tende a rovinargli il fisico ed il morale» [1] e di protesta «contro certi giornali i quali oltre a pubblicare rubriche dello sport si fanno promotori di gare sportive» [2].

Al bando quindi tutte queste degenerate manifestazioni in cui – come scrisse Angelica Balabanoff sull’organo di stampa del Partito socialista (PSI) – «il sentimento di solidarietà, non solo di classe, ma umano in generale, viene colpito nel modo più bestiale» [3], con buona pace naturalmente di quanto proprio in risposta ai «sedicenti rivoluzionari» [4] della FGS molto acutamente il riformista Ivanoe Bonomi aveva voluto affermare in difesa dell’etica e della cultura dello sport: «Chi non sa preparare il suo corpo a resistere agli egoismi inferiori, e non sa schiudere la propria anima all’esaltazione del coraggio vittorioso, non è un rivoluzionario, è soltanto un inetto ed un pigro» [5].

Questa di Bonomi, peraltro destinato di lì a breve ad essere espulso dal PSI insieme a Leonida Bissolati e ad Angiolo Cabrini, restò così una posizione assolutamente minoritaria tra le file del movimento socialista, recisamente antisportivo.

E tutt’altro che sereno per la verità nei confronti dello sport fu poi, soprattutto agli esordi, anche l’atteggiamento assunto dal governo Mussolini, che, per effetto della riforma dell’ordinamento scolastico attuata dal ministro competente, Giovanni Gentile [6], cancellò infatti l’educazione fisica dall’offerta formativa fino a quel momento direttamente garantita dal dicastero della Pubblica Istruzione, disponendo altresì il licenziamento del personale di ruolo in servizio presso le scuole medie da qualsiasi incarico di docenza [7]. L’insegnamento di questa disciplina venne infatti delegato all’Ente nazionale per l’educazione fisica (ENEF), istituito ai sensi del regio decreto 15 marzo 1923, n. 684, con una doppia finalità: il conseguimento di un importante risparmio e la fascistizzazione delle nuove generazioni, che non fu certo però questo ente dall’incerto profilo scientifico-culturale a realizzare, prima della sua liquidazione per manifesto fallimento tra il 1925 ed il 1927 [8].

Maturò dunque non a caso proprio in questo torno di tempo ai vertici del governo la decisione di cambiare completamente strategia in materia di sport, lavorando su un doppio binario. Il primo fu quello dell’intervento diretto, destinato a culminare, in questa prima fase, nella costituzione di nuovi strumenti di promozione dello sport fascista, come l’Opera nazionale dopolavoro (OND) [9], l’Opera Nazionale Balilla (ONB) [10] e i Gruppi Universitari Fascisti (GUF) [11]. A rappresentare il secondo fu invece l’irreggi-mentazione delle strutture già esistenti, con particolare riferimento naturalmente alle società sportive, alle Federazioni e al Comitato Olimpico Nazionale (CONI), di cui fu cambiato lo Statuto proprio nel 1927 [12]. Per effetto di questa generale revisione, lo sport italiano, privato di qualsivoglia autonomia, oltre che di ogni residuo barlume di democrazia interna, come il sacrosanto principio dell’eleggibilità delle cariche in seno ai suoi organismi, veniva quindi posto alle dipendenze del Partito nazionale fascista (PNF), che, attraverso i nuovi Enti provinciali fascisti dello sport, poteva ora esercitare a livello territoriale un controllo politico sulle società sportive, proponendone, se del caso, alle federazioni di riferimento soppressioni, fusioni forzate e modifiche statutarie e di organigramma. Al centro fu invece istituito l’Ufficio sportivo del PNF, con il delicato compito di fare da tramite fra il vertice nazionale del partito, il CONI e le Federazioni provinciali fasciste, a cui, secondo lo statuto-tipo delle società sportive, sarebbe spettata la designazione di tutti i dirigenti dei sodalizi attivi sul territorio di competenza, che sarebbero stati quindi ufficialmente nominati dalle federazioni sportive di riferimento ed infine autorizzati ad entrare in carica, previa ratifica dell’Ufficio sportivo del PNF [13].

Per quanto ipertrofico e ridondante, quello posto in essere dal regime nei confronti del movimento sportivo fu dunque un modello di controllo ed ingerenza straordinaria­mente efficace e funzionale in particolare al perseguimento degli obiettivi propagandistici sottesi a questa strategia di consolidamento e penetrazione tra le file dell’universo associativo e federale, che venne poi portata a definitivo compimento solo con l’av­vento alla guida del PNF di Achille Starace [14], contestualmente infatti presidente del Comitato olimpico nazionale, e con il varo infine della legge 16 febbraio 1942, n. 426. Si realizzò proprio con l’entrata in vigore di questo importantissimo provvedimento, peraltro destinato a rappresentare per molti anni ancora dopo la caduta del fascismo la legge fondamentale dello sport in Italia, il coronamento di una complessa e articolata politica di intervento in ambito sportivo per mezzo soprattutto del CONI, che, nel bel mezzo della guerra, venne allora ricostituito e riordinato, sotto forma di ente pubblico dotato di personalità giuridica e posto alle dipendenze del PNF, con il duplice compito di organizzare e potenziare lo sport nazionale, nella direzione del «perfezionamento atletico, con particolare riguardo al miglioramento fisico e morale della razza» [15].

Non deve allora stupire che, alla caduta del governo Mussolini e nel pieno quindi della guerra di Liberazione, di fronte ad una tale strumentalizzazione dello sport e delle sue istituzioni, i partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN), con particolare riferimento al PSI, non solo nutrissero nei loro confronti un atteggiamento di sospetto e sfiducia, ma puntassero proprio alla definitiva liquidazione di un intero paradigma organizzativo, di cui il CONI in particolare costituiva il retaggio più pericoloso. Di qui, nel giugno del 1944, la designazione alla sua guida, con il ruolo di reggente e commissario liquidatore appunto, del trentaduenne avvocato socialista di Torino, Giulio Onesti, che scelse però di non dare assolutamente seguito alle disposizioni politiche impartitegli da Pietro Nenni in particolare, ritenendo fondamentale l’apporto di quei dirigenti, che pure avevano direttamente lavorato alle dipendenze di Mussolini e del PNF, come Ottorino Barassi, Bruno Zauli e Alberto Bonacossa, ed indispensabile al contempo per le sorti dello sport italiano la sopravvivenza del CONI medesimo [16].

Onesti era insomma convinto che la nuova Italia democratica ed antifascista non avrebbe potuto fare a meno di una simile fucina di atleti e tecnici di vaglia, depositaria peraltro di un inestimabile patrimonio di cultura e competenza. In luogo del suo annientamento, più utile senz’altro, dal suo punto di vista, sarebbe stata allora la rifondazione, in un quadro di continuità dinamica rispetto al recente passato fascista. Del CONI sarebbe stato cioè essenziale salvaguardare la configurazione tecnico-operativa, l’unità ed in particolare il ruolo di centrale di coordinamento di tutte le attività federali, eliminando finalmente però qualsivoglia forma di ingerenza diretta nei suoi riguardi da parte dell’apparato statale e quindi dei partiti.

Della bontà di questo complessivo disegno e della scelta in particolare di non voler procedere alla liquidazione del CONI Onesti riuscì allora a persuadere il presidente del consiglio in carica, Ivanoe Bonomi, che, da convinto sostenitore dello sport, come già visto, non esitò quindi a garantirgli un pieno sostegno politico. Quello a cui lo stesso Onesti avrebbe poi fatto diretto riferimento, parlando dell’esito di un importante colloquio avuto proprio con lo statista mantovano nel novembre del 1944 al suo storico capoufficio legislativo al Foro Italico, Tonino De Juliis, che nel 2001, sulla base della testimonianza raccolta, ha poi così ricostruito il discorso fatto da Bonomi al commissario straordinario del CONI in quell’occasione: «Sa, avvocato, fa bene a difendere lo sport. Anch’io l’ho difeso quando lei non era ancora nato. Prima che fossi espulso dal partito socialista, scrissi pure un articolo dal sapore sarcastico contro la strenua opposizione dei socialisti allo sport» [17].

Si tratta naturalmente di quel pezzo del 1910 apparso sia su La Gazzetta dello Sport sia sull’Avanti! cui si è già fatto riferimento e che, a distanza di oltre trent’anni dalla sua prima stesura, tornava quindi di assoluta attualità, rivelandosi ora puntuale nel sottolineare i gravi limiti di analisi e comprensione ancora una volta evidenziati nei confronti dello sport dai socialisti, ormai pronti dunque a prendere definitivamente le distanze da Onesti, che non solo non aveva provveduto a liquidare il CONI, ma stava battendosi con tutte le sue forze per mettere definitivamente a tacere le voci del dissenso accolte ed amplificate dall’allora reggente del CONI ALTA ITALIA, Alessandro Frigerio.

Interprete del fortissimo desiderio di cambiamento nutrito dalla gran parte delle società sportive del Nord, ricostituitesi in molti casi dopo la Liberazione, questo giovane avvocato milanese finì per entrare inevitabilmente in rotta di collisione con Onesti, sostenendo delle tesi assolutamente antitetiche al modello della continuità dinamica ormai sposato dalle autorità politiche e sportive di Roma. Particolarmente pericolosa agli occhi di Onesti dovette apparire allora la richiesta di un nuovo ordinamento sportivo, radicalmente diverso cioè da quello previsto dalla legge 16 febbraio 1942, n. 426, maggiormente rispettoso dell’autonomia e delle prerogative tecniche delle federazioni ed in grado soprattutto di porre fine a quella «macchinale e ipertrofica politica di accentramento a Roma di ogni ufficio di comando e di direzione atletica» [18], che, secondo Frigerio, aveva oppresso per l’intera durata del ventennio mussoliniano gli sportivi dell’Alta Italia.

Quello della normalizzazione di queste spinte centrifughe ed eterodosse si pose dunque per Onesti come un problema di assoluta urgenza, da risolvere inizialmente con gli strumenti del dialogo e della diplomazia politico-sportiva, che si rivelarono tuttavia insufficienti. Il modus vivendi siglato tra CONI di Roma e CONI ALTA ITALIA nel luglio del 1945 fu infatti unilateralmente denunciato nell’ottobre dello stesso anno da Onesti [19], che, forte del pieno sostegno garantitogli dai vertici federali dell’Italia centro-meridio­nale e soprattutto dall’establishment politico della Capitale, decise allora di puntare dritto alla prova di forza contro Frigerio, riuscendo a sconfiggerlo definitivamente il 27 luglio 1946, in occasione della seconda riunione del Consiglio Nazionale del CONI svoltasi a Milano [20], dopo averlo per così dire stanato e messo in assoluta minoranza già durante la prima sessione del massimo consesso sportivo italiano, svoltasi nel giugno precedente.

Allora Frigerio era stato infatti l’unico a sostenere l’esigenza di una complessiva abrogazione della legge fascista del 1942, propedeutica ad un generale riordino del com­parto sportivo, in nome di una discontinuità e di una coerenza politico-norma­tiva [21], che Onesti invitava invece a mettere da parte o comunque a subordinare, con spirito pragmatico, alla prevalente esigenza di continuità ed ordine espressa dal movimento sportivo, parlando in questi termini: «Noi abbiamo ora una situazione di fatto ed una situazione di diritto. La situazione di diritto è quella concretata dalla legge del 1942, legge che fu emanata nel periodo fascista, come in periodo fascista sono stati emanati tutti i Codici e le regole che oggi ci governano. In contrasto con queste che sono le disposizioni legislative delle quali noi ci siamo avvantaggiati per la parte utile e proficua per lo sport, c’è una situazione di fatto […] e cioè la democratizzazione di tutto l’ambiente sportivo. Voi siete il frutto delle elezioni che sono in contrasto, naturalmente, con la vecchia legge […]. Nel periodo fascista Mussolini aveva determinato, nell’interesse dello sport, la pro­mulgazione di questa legge […]. Non ci facciamo illusioni. Una nuova legge deve andare a tutti i Ministeri, a tutti i Gabinetti. Basta che un burocrate si impunti e una nuova legge viene rinviata di mesi e mesi […]. Ed ora due parole sulla legge del ’42. Signori, molte volte, senza un profondo esame, si criticano delle cose in blocco, senza esaminare sostanzialmente se ci possa essere qualcosa di buono, anche nelle cose criticate […]. Praticamente ci mette in condizioni di essere parificati ad altre organizzazioni dello Stato […]. Con l’abrogazione completa, generale, della legge non avremmo che una liquidazione di questo CONI. Saremmo, è vero, indipendenti, ma avremmo fatto veramente gli interessi delle Federazioni e degli sportivi?” [22].

Naturalmente no per Onesti, che, sulla scorta di questo autentico capolavoro di chiarezza, sintesi ed eloquenza, riuscì a convincere tutti i neoeletti presidenti federali e a fare in modo soprattutto che, una volta definita l’utilità della sostanziale conservazio­ne di quell’impianto normativo ed organizzativo funzionale alle esigenze dello sport, la politica si astenesse di lì in poi dal varare qualsivoglia provvedimento organico di riforma del settore e di riordino quindi del CONI stesso e delle federazioni [23]. Di qui l’as­sunto della specificità e dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, nel quale lo Stato non avrebbe più dovuto ingerirsi, salvo naturalmente correggerne i retaggi normativi incompatibili con il nuovo ordine politico ed assicurare comunque allo sport italiano, visto il venir meno di un diretto impegno di ordine politico e finanziario soprattutto a suo sostegno, le risorse necessarie al suo sviluppo.

In questo quadro va dunque anzitutto inserito il varo del Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 11 maggio 1947, n. 362, che, nel confermare l’assetto del CONI stabilito dalla legge fondamentale del 1942, di cui venivano aboliti gli artt. 6,7,8, riguardanti in particolare la dipendenza delle massime cariche sportive da Mussolini e dal PNF, introduceva il principio dell’eleggibilità da parte delle società di tutti i presidenti federali, chiamati a far parte del Consiglio Nazionale del CONI, e della de­mocratica designazione quindi del suo presidente [24]. E deve poi essere ricordata l’im­portanza del d.lgs. 14 aprile 1948, n. 496, attraverso cui il quarto ministero De Gasperi riuscì a porre rimedio alle nefaste conseguenze provocate dall’art. 17 d.lgs.lgt. 8 marzo 1945, n. 76, con cui erano stati tagliati tutti i contributi statali precedentemente erogati al CONI [25], assicurando così allo sport italiano quel particolarissimo sistema di autofinanziamento incentrato sull’esercizio esclusivo da parte del CONI del Totocalcio e l’utilizzo diretto quindi dei proventi derivanti dalla sua gestione, al netto di un’imposta del 16% da versare all’erario [26].


2. La malintesa autonomia dello sport: un utile alibi per la politica

Proprio su questa base fu così costruito quell’unicum economico-tecnico-organiz­zativo rappresentato dal modello sportivo italiano, per cui, a fronte di un indennizzo economico, o, per meglio dire, di quella rendita sicura rappresentata dalla percentuale trattenuta sul movimento complessivo delle schedine giocate, lo Stato appaltava il varo di politiche attive nel comparto esclusivamente al CONI, che nel ruolo quindi di supplente della politica era autorizzato ad agire in assoluta autonomia ed indipendenza, disponendo delle entrate del Totocalcio.

Alla luce di questa ricostruzione non è dunque difficile comprendere le ragioni della ritrosia e della riottosità mostrate nel corso dell’intera storia dell’Italia repubblicana dai partiti ad intervenire, se non in modo disorganico e limitato o per mere ragioni di urgenza, in tema di sport ed in particolare sugli assetti tecnico-organizzativi interni alle federazioni e sul fronte quindi dei loro rapporti con il CONI. In diversi casi addirittura l’intervento della politica si è limitato ex post ad elevare al rango di legge princìpi, prassi e norme da tempo in vigore in taluni settori dello sport, come nel ciclismo, nell’atletica pesante, nell’automobilismo, nel motociclismo e nel pugilato, senza peraltro rivelarsi chiaro, efficace e risolutivo. Questo è il caso in particolare della legge 28 dicembre 1950, n. 1055, con cui meritoriamente i partiti tentarono per la prima volta di affrontare la delicatissima questione della tutela sanitaria delle attività sportive, salvo appunto limitarsi a fotografare l’esistente, ratificando de iure una situazione di fatto e sollevando peraltro non pochi dubbi e perplessità sull’effettiva autonomia ed imparzialità della Federazione medico-sportiva (FMSI), che, ufficialmente incaricata ora per conto dello Stato, essendo un organismo vigilato dall’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica della Presidenza del Consiglio, di vigilare su tutte le attività organizzate e svolte sotto l’egida del CONI, proprio dalla massima istituzione sportiva italiana doveva comunque dipendere [27]. Non mancò dunque in sede di dibattito parlamentare chi, come il deputato democristiano Armando Sabatini, osò – probabilmente anche a ragione – sottolineare l’inopportunità di un sistema di vigilanza basato sulla sostanziale dipendenza del controllore dal controllato, quel CONI responsabile ultimo in effetti di tutte le norme inerenti all’attività agonistica in Italia e all’impiego degli atleti, proprio ora che il potere pubblico aveva scelto di intervenire legislativamente in questa complessa materia. Sarebbe stato dunque più utile e coerente, a suo avviso, disporre che la Federazione medico-sportiva, pur continuando ad appartenere alla grande famiglia delle istituzioni sportive, fosse per così dire emancipata, sulla base di una deroga speciale, dall’obbligo di affiliazione al CONI, e messa alle dipendenze esclusive dell’amministrazione dello Stato, ovvero a quelle dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica [28]. Tale proposta, così come formulata, non fu però accolta, proprio in difesa dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento sportivo nazionale, solo parzialmente limitate dalla concessione all’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica della facoltà di affidare, se del caso, i poteri riservati alla FMSI ad altra organizzazione medico-sportiva [29].

All’art. 3 la legge 28 dicembre 1950, n. 1055 prescriveva in particolare l’obbligo del­l’idoneità medico-sportiva per tutti gli atleti, professionisti e dilettanti, che praticassero un’attività sportiva agonistica e abituale a titolo retribuito. Il possesso di apposito certificato medico era altresì imposto ai «dilettanti puri», dediti alla pratica del pugilato, del­l’atletica pesante, degli sport motoristici e del ciclismo, così come del resto già prescrivevano i rispettivi regolamenti federali [30]. Il nuovo provvedimento approvato dal parlamento, su iniziativa del governo, non faceva altro che ratificare dunque le norme già presenti e attive all’interno dell’ordinamento sportivo, senza aggiungere sostanzialmente nulla di nuovo, al di là di principi sacrosanti e straordinariamente importanti assurti ora al rango di legge dello Stato, alla politica già avviata dal CONI. Ad esso peraltro, proprio in questo torno di tempo, toccò operare con straordinario impegno sul fronte dell’im­piantistica sportiva, mettendo così in evidenza soprattutto in questo ambito, nella sua attività di supplente della politica, tutta la particolarità del modello italiano [31].

Colpisce cioè che il legislatore nemmeno su un tema di interesse pubblico e tra l’altro non così direttamente legato all’attività tecnico-agonistica di esclusiva competenza olimpico-federale, come quello della costruzione di infrastrutture di servizio all’utenza sportiva e non solo, non abbia avvertito né il dovere né l’urgenza di intervenire con un proprio provvedimento organico e autonomo, riservandosi piuttosto di delegare anche a tale riguardo ogni incombenza al CONI, nella convinzione che, con i proventi di quel giacimento considerato evidentemente inesauribile come il Totocalcio, il Foro Italico potesse fare se non tutto, quasi.

Proprio attraverso il prelievo di una quota parte dei proventi derivanti dal gioco delle celeberrime schedine fu infatti possibile, da parte del CONI, contribuire alla costituzione del fondo di dotazione della Gestione speciale provvisoria per il credito sportivo, che, attivato nel 1953 presso la Banca nazionale del lavoro (BNL), avrebbe dovuto provvedere al finanziamento dei progetti di costruzione di nuovi impianti sportivi presentati da enti pubblici locali. La sua attività si rivelò straordinariamente importante fino a tutto il 1955, quando, per effetto del gran numero di richieste presentate e di fondi quindi erogati, la Gestione andò in sofferenza e si rese allora necessario, direttamente su proposta del CONI, dare vita ad una nuova struttura, chiamata di fatto ad operare nel solco della precedente, ma dotata di personalità giuridica propria, di piena autonomia operativa e della fisionomia organizzativa dell’ente di diritto pubblico.

Nacque così, ai sensi della legge 24 dicembre 1957, n. 1295 [32], l’Istituto per il credito sportivo (ICS), che il direttore de La Gazzetta dello Sport, Giuseppe Ambrosini, ebbe allora a definire «la chiave per risolvere il grave problema degli impianti sportivi» [33]. E davvero tale si rivelò in effetti questo nuovo ente, che, finanziato da un nuovo fondo di dotazione garantito equamente da CONI e BNL, da un fondo di garanzia conferito integralmente dal Foro Italico, per un importo di 2,5 miliardi di lire e quindi da altre entrate straordinarie, fu in realtà oggetto di interessanti rilievi durante l’acceso dibattito parlamentare.

Fu in particolare il gruppo socialista alla Camera, attraverso Giovanni Pieraccini, a porre il problema della mancanza di un disegno strategico, chiaro e organico in materia di sport, ravvisando peraltro nella scelta di dare vita addirittura ad un nuovo ente pubblico, dotato quindi di un pesante e costoso apparato burocratico, una profonda incoerenza rispetto alla decisione, pur discutibile a suo avviso, assunta nell’immediato secondo dopoguerra di individuare nel CONI la centrale operativa unica di coordinamento di tutte le politiche attive in ambito sportivo [34]. Di qui allora la proposta di modificarne l’ordinamento, al fine di inserire tra le nuove competenze spettanti al Foro Italico anche quella del credito sportivo, così da rendere peraltro più semplice, puntuale e diretto il controllo su questa materia così delicata da parte del parlamento e del governo in particolare, che, attraverso la Presidenza del Consiglio, esercitava pur sempre infatti nei confronti del CONI, ai sensi del decreto-legge 2 agosto 1943, n. 704 [35].

Questa proposta, che conteneva oggettivi elementi di linearità e coerenza, in relazione alla natura e all’assetto dell’ordinamento sportivo nazionale, suggerendo un mirato intervento sulla configurazione del CONI, fu però recisamente cassata, più sul­l’onda dell’urgenza, per la verità, che sulla base di solide ragioni di ordine giuridico ed economico. Nel corso del dibattito parlamentare, al cospetto dei membri delle commissioni Interni e Finanze riunite, fu infatti il democristiano Carlo Russo a sottolineare l’assoluta necessità di un’approvazione entro Natale o comunque non oltre fine anno del provvedimento di iniziativa governativa così com’era, al fine di non ostacolare, rallentandone l’iter, la pianificazione tecnico-operativa degli interventi da attuare in vista dei Giochi di Roma del 1960 [36].


3. «Sport»: una parola troppo scomoda per il nascente ministero del Turismo e dello Spettacolo

E fu proprio l’importante appuntamento olimpico a riportare al centro della discussione politico-parlamentare e sull’altare della cronaca, per così dire, la questione sport, con particolare riferimento alle peculiarità, positive e negative evidentemente, del modello italiano, e all’esigenza quindi di un rinnovato impegno di governo e parlamento su questo delicato fronte, sul duplice binario finalmente dell’elaborazione di un’ampia ed articolata strategia politica, da un lato, e del riordino tecnico di CONI e federazioni sportive, dall’altro. A dettare la linea al riguardo fu dalle pagine della rosea Giuseppe Ambrosini, che, in una lunga recensione della monumentale opera realizzata a sei mani da Bruno Zauli, Dagoberto Ortensi e Ario Luti, Civiltà Sportiva. Organizzazione dello sport nel mondo, ebbe ad esprimersi in questi termini, circa la necessità di un nuovo consapevole ed organico contributo di analisi ed elaborazione in tema di sport: «Non credo sia necessario insistere sulla dimostrazione che la crescente diffusione, l’incessante e sempre più profondo inserimento dello sport nella vita moderna sono fattori di così vasta portata umana, nazionale, sociale, morale ed economica che l’ordi­namento strutturale e il disciplinamento funzionale dell’attività sportiva assumono ogni giorno maggiore importanza e la loro razionalità condiziona i frutti che dallo sport un Paese può trarre. Né di ulteriore dimostrazione necessita la rispondenza di tale struttura e di tale disciplina alle condizioni, alle caratteristiche, alle esigenze materiali e spirituali del momento di ogni popolo. Questa rispondenza […] deve essere cura del legislatore e del governante, e costituisce l’obiettivo che essi devono cercare di raggiungere nel campo dello sport […]; costituiscono, cioè, la base di quella politica dello sport che, ben distinguendosi ed aborrendo dalla politica nello sport, non può mancare a un’attività che oggi influisce e incide […] su ogni altra e dà un aspetto nuovo alla civiltà moderna» [37].

Tutt’altro che casuali furono naturalmente i tempi e i temi di questo autorevole intervento, la cui pubblicazione sulle pagine de La Gazzetta dello Sport giunse infatti nel bel mezzo dell’acceso dibattito parlamentare sul disegno di legge del governo, riguardante l’istituzione del ministero del Turismo e dello Spettacolo, nella cui originaria denominazione, rettificata in sede di discussione a Palazzo Madama, avrebbe dovuto essere contenuta anche la voce Sport.

Per i partiti questa fu dunque l’occasione utile per tornare a discutere appunto sulla «via italiana allo sport», per così dire, mettendo a confronto il nostro modello organizzativo con quello dei principali Paesi del mondo sviluppato e giungendo a conclusioni molto differenti. Per la destra missina ad esempio, il solo fatto che in tutta Europa le politiche attive in tema di sport fossero elaborate ed attuate direttamente dallo Stato, attraverso i dicasteri della Sanità o dell’Istruzione o, in ultima istanza, dalla Presidenza del Consiglio, costituiva un motivo di per sé valido per procedere in Italia ad una complessiva ridefinizione del ruolo e delle competenze del CONI e, di conseguenza, al recupero da parte del governo, non certo in chiave nostalgica ma per evidenti esigenze di ordine politico, di prerogative e funzioni a cui la politica colpevolmente, subito dopo la guerra, aveva scelto di rinunciare. Di qui dunque, secondo il senatore Amedeo D’Albora, l’esigenza di procedere all’immediata istituzione di un nuovo ministero del Turismo, dello Spettacolo e dello Sport [38].

E favorevole a questa proposta si dichiarò allora anche il senatore del gruppo misto Renato Chabod, fratello del grande storico Federico, sportivo assiduo ed alpinista appassionato, sostenendo che ovunque nel mondo gli importanti avvenimenti sportivi rappresentassero in realtà delle straordinarie attrattive turistiche e che quindi, anche in Italia, l’abbinamento di sport e turismo fosse «non soltanto opportuno, ma necessario» [39].

Di tutt’altro avviso, sia pure con diversi accenti al suo interno, era invece il gruppo socialista, tra le cui file il più duro e critico nei confronti del disegno di legge del governo fu senza dubbio il senatore Luigi Sansone, che così infatti si espresse in aula: «Già questo veder riuniti il turismo, lo spettacolo e lo sport riecheggia un’eredità cattiva, quella del Minculpop» [40].

A favorire, quanto meno tra le file della maggioranza, la convergenza sulla proposta del governo e quindi la sua successiva approvazione contribuì allora l’intervento dell’autorevole esponente democristiano Silvio Gava, che suggerì la cancellazione della parola «sport» dall’intitolazione del nascente dicastero, al duplice scopo di non urtare l’universo sportivo, geloso della sua autonomia, e di sgombrare il campo quindi da ogni possibile equivoco e dalla tentazione di alcuni settori della politica di ingerirsi direttamente nelle vicende di questo comparto [41].

Uscì pertanto dal Senato, con il decisivo apporto di Gava, la bozza semidefinitiva del disegno di legge poi approvato anche a Montecitorio [42], naturalmente non senza distinguo e voci critiche, come quelle del missino Achille Cruciani, da un lato, convinto dell’assoluta necessità di un riordino e di un ridimensionamento del CONI e di un intervento diretto e attivo dello Stato in tema di sport [43], e del socialista Alberto Jacometti, dall’altro, che volle insistere sull’inutilità dell’istituzione di un nuovo ministero, competente, sia pure molto superficialmente, in materia di sport, in mancanza di un’ef­fettiva conoscenza delle sue vere problematiche e di un’adeguata visione d’insieme al riguardo da parte della politica [44]. A conclusione del suo duro atto d’accusa, il deputato socialista sottolineava dunque come fino ad allora la classe dirigente del Paese si fosse limitata a strumentalizzare lo sport, considerandolo, come nel caso dell’istituzione di questo nuovo dicastero, un mero terreno di conquista, utile alla coltivazione delle clientele e funzionale alla distribuzione di poltrone e prebende, così da renderlo «giungla, e mercato degli alani, il peggiore, il più subdolo e il più corrotto dei commerci» [45].

Al netto della vis polemica e della carica emotiva, quello di Jacometti fu senza dubbio allora un intervento lucido ed importante, perché contribuì ad aprire un nuovo inquietante squarcio sulla non più tollerabile mancanza di visione ed elaborazione della politica in tema di sport, alla vigilia peraltro delle Olimpiadi, e sulla necessità quindi di un ripensamento complessivo di ruoli, funzioni, competenze e prerogative di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo in tale ambito. Questo generoso appello cadde però nel vuoto e quella del dibattito attorno alla natura e alle prerogative del ministero del Turismo e dello Spettacolo, cui il legislatore si limitò infatti ad assegnare i compiti di blanda vigilanza sul CONI spettanti fino ad allora alla Presidenza del Consiglio dei ministri, senza nemmeno dare vita al suo interno ad una specifica Direzione Sport, si rivelò così un’occasione persa. Nulla cambiò e, a giustificazione del mantenimento dello status quo, intervenne allora il relatore alla Camera del disegno di legge governativo, Roberto Lucifredi, che, citando Santi Romano e la teoria della pluralità degli ordinamenti normativi, così si espresse: «Noi, studiosi di diritto, ben conosciamo la teoria […] che Santi Romano perspicuamente ebbe a delineare. Il mondo dello sport ha appunto un proprio ordinamento normativo, che gli stessi sportivi si danno e di cui sono estremamente gelosi […]. L’ordinamento giuridico dello Stato deve recepire questi ordinamenti e rispettarli, salvo che siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume. Io sono convinto che tanto meno lo Stato interverrà in questo settore, tanto maggiore sarà il servizio che noi renderemo alla causa dello sport» [46].


4. La mancata discussione sui progetti di riordino del CONI e delle federazioni

Dotta ed eloquente fu allora l’arringa difensiva di Lucifredi, dei cui argomenti cardine i fatti stessi, nel corso del tempo, si sarebbero in realtà incaricati di dimostrare la sostanziale infondatezza. Queste parole intanto però facevano da pietra tombale ad ogni ipotesi di riforma del sistema e dunque anche di riordino del CONI e delle federazioni, che pure diversi parlamentari continuarono a caldeggiare e richiedere nel corso degli anni Sessanta attraverso proposte di legge estremamente interessanti, sebbene destinate a rimanere lettera morta.

Tutt’altro che rassegnati alla prospettiva del disimpegno della politica, questi rappresentanti dei partiti provarono infatti a coinvolgere i colleghi in una discussione sul futuro dello sport nel Paese e sulla necessità in particolare di ridefinire mission e governance delle sue istituzioni, alla luce dell’importantissima esperienza olimpica, che, a loro avviso, dopo aver contribuito a far assurgere lo sport a fenomeno di straordinario rilievo pubblico, oltre che a indiscusso bisogno sociale, avrebbe in un certo senso dovuto continuare a vivere nella coscienza collettiva del Paese, con il decisivo apporto del legislatore.

In questo quadro, fu in particolare il deputato democristiano Vittorio Cervone a rompere il ghiaccio, presentando come primo firmatario, in data 17 febbraio 1961, la primissima proposta di legge post-olimpica di riordino del CONI e delle federazioni sportive, naturalmente corredata di una relazione introduttiva, meritevole di particolare attenzione, laddove soprattutto sottolineava l’inadeguatezza della legge fondamentale del 1942, denunciava il mancato inserimento dell’attività sportiva nell’alveo democratico e poneva quindi l’esigenza di riconfigurare complessivamente l’assetto del CONI, garantendo maggiore autonomia alle federazioni, che non avrebbero più dovuto rappresentare suoi semplici organi, e aprendo le porte agli enti di promozione.

Di qui dunque, all’art. 3 della proposta poi deferita alla commissione Interni della Camera, ma mai discussa, la ridefinizione del ruolo delle federazioni, chiamate ora a collaborare con il CONI, specie ai fini della preparazione olimpica degli atleti, non con un ruolo subalterno, ma sulla base di autonome prerogative tecniche e di indirizzo, e, all’art. 4, l’ufficiale inserimento tra gli organismi dirigenti del Foro Italico dell’As­semblea Nazionale, chiamata, tra le altre cose, a garantire un’adeguata rappresentanza a tutti i soggetti attivi in ambito sportivo, ad impartire al Consiglio Nazionale le direttive di ordine generale cui attenersi nel corso del quadriennio olimpico e ad approvare eventuali modifiche allo statuto-regolamento del CONI [47].

Quella da combattere all’interno della grande galassia dello sport italiano, secondo i firmatari di questa proposta di legge, era insomma una battaglia a sostegno del pluralismo e della democrazia, che il CONI da solo non era stato in grado di garantire, soprattutto di fronte all’emergere di istanze e forze nuove, ascoltate e coinvolte molto opportunamente proprio in questo torno di tempo solo da alcune lungimiranti e illuminate Giunte Comunali, su tutte quella di Milano. Qui il lavoro svolto dall’assessore Gian Franco Crespi si rivelò decisivo per rilanciare il ruolo attivo della politica a sostegno dello sviluppo dello sport, tanto da diventare un importante modello di riferimento nazionale, destinato ad essere studiato, ammirato ed imitato [48].

Ad ispirarvisi fu sicuramente Alberto Jacometti, che, insieme ai colleghi socialisti Bensi, Borghese, Calamo, Colombo, Ferri, Matteotti e Pieraccini, il 20 maggio 1961 presentò alla Camera una proposta di riordino del CONI e delle federazioni, incentrata sulla valorizzazione dei Comitati Provinciali della massima istituzione sportiva nazionale, chiamati a farsi carico delle istanze specifiche dei vari territori e a dialogare con le associazioni e gli enti di promozione, sulla nuova attribuzione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dei poteri vigilanza sull’operato del CONI e al parlamento di un importante ruolo di controllo sul suo bilancio e sulle politiche attuate in tema di sport sociale e per tutti, e sull’esigenza di rendere più solido, in seno al Foro Italico, il lavoro di analisi e documentazione propedeutico alla fase dell’intervento operativo.

In quest’ottica venne così suggerita la costituzione, all’interno del Consiglio Nazionale, di sette apposite commissioni, tante quante le macro-aree d’azione e competenza del Foro Italico, vale a dire lo sport d’élite e professionistico, con l’auspicio di una più chiara regolamentazione del profilo giuridico-economico degli atleti, la promozione dello sport tra i giovani, lo sviluppo della pratica motoria nelle scuole, i rapporti con le Forze Armate, lo sviluppo dell’impiantistica sportiva, l’incremento dello sport amatoriale e la tutela della salute. Con riferimento invece al profilo e alle prerogative delle federazioni, ne veniva caldeggiata, ai sensi dell’art. 10 della proposta di legge, la piena autonomia dal CONI sul duplice piano della gestione amministrativa e della loro conduzione tecnica, tanto che a ciascuna di esse veniva richiesto di procedere alla emanazione di norme proprie, atte a regolamentare lo status di professionista dei loro rispettivi atleti di punta, nel rispetto della loro «autonoma funzionalità» [49].

Quello posto in essere da questo gruppo di deputati socialisti fu dunque il coraggioso tentativo di affrontare e risolvere, nel rispetto chiaramente dell’autonomia del­l’ordinamento sportivo, il problema già grave – e successivamente destinato ad esplodere – del professionismo nello sport, valorizzando al riguardo le competenze, le prerogative e, in un certo senso, la sovranità delle singole federazioni, che da organi direttamente dipendenti dal CONI, pur nel rispetto di un vincolo di lealtà, coordinamento e formale subordinazione, sarebbero dovute diventare partner e interlocutori paritari del Foro Italico.

Più squisitamente politiche erano invece le finalità sottese alla proposta di legge presentata come primo firmatario dal deputato Franco Servello, il 21 luglio 1961. Per il Movimento sociale (MSI) si poneva cioè non tanto il problema del riordino delle federazioni, di cui veniva comunque proposta una tripartizione all’interno dello stesso Consiglio Nazionale del CONI tra quelle «praticanti sports olimpici», «non praticanti sports olimpici» e «raggruppanti gli ausiliari necessari alla pratica degli sports agonistici», dotate di solo potere consultivo, quanto piuttosto quello della valorizzazione delle legittime prerogative di intervento, analisi, controllo ed elaborazione della politica nei confronti dello sport e del CONI in particolare, che, così come si legge all’art. 17 della proposta di legge, avrebbe dovuto interloquire e collaborare con un nuovo organismo consultivo, il Comitato Parlamentare per lo Sport, chiamato ad esprimere il proprio parere sul bilancio preventivo elaborato dal Foro Italico e «sull’impostazione generale dell’attività sportiva» [50].

Che la politica dovesse rivendicare per sé uno spazio di rilievo sul fronte dell’a­nalisi, dell’elaborazione e della collaborazione con le istituzioni sportive era opinione condivisa anche dal monarchico milanese Cesare Degli Occhi, sportivo appassionato in gioventù, amante di cavalli e corse e notissimo in questo settore per essere stato a suo tempo capo della tifoseria demonteliana, a San Siro [51]. E molto di questo spirito ambrosiano, dei valori e degli obiettivi cioè che proprio in quel torno di tempo caratterizzavano importanti settori della comunità sportiva del capoluogo lombardo, confluì allora nella proposta di legge presentata il 16 novembre 1962 alla Camera dal leader del movimento monarchico milanese [52], che disse infatti di aver attinto rilevanti spunti e suggestioni dal lavoro di elaborazione svolto da un’apposita commissione nominata dal Panathlon Club di Milano e dall’Associazione vecchi universitari sportivi [53], con particolare riferimento al tema dell’autonomia delle federazioni, al profilo del presidente del CONI e alla questione della netta distinzione tra attività dilettantistica e sport professionistico.

Condividendo appieno questa impostazione, Degli Occhi volle dunque insistere sulla necessità della definitiva emancipazione delle federazioni dal giogo burocratico che le teneva funzionalmente ed amministrativamente dipendenti dal CONI, nel quadro di una piena autonomia tecnico-operativa e sulla scorta di un assetto organizzativo leggero e flessibile, di carattere non certamente pubblicistico. E proprio come nelle grandi imprese private, i loro massimi dirigenti avrebbero dovuto operare da manager moderni e preparati, dotati certo di un imprescindibile bagaglio di esperienze tecnico-sportive, ma anche e soprattutto di più specifiche competenze di ordine amministrativo, legale, economico-finanziario e commerciale, necessarie peraltro a garantire un’ef­ficace vigilanza sulla netta distinzione tra attività dilettantistica e sport professionistico, ritenuta essenziale dal primo firmatario della proposta di legge per assicurare, da un lato, la diffusione e la promozione dello sport, dall’altro, la regolamentazione di un settore in crescita e caratterizzato da molte zone d’ombra. In piena coerenza con questo modello, secondo Degli Occhi infine, il Consiglio Nazionale del CONI avrebbe potuto eleggere alla sua presidenza un dirigente non necessariamente appartenente a questo stesso consesso e non direttamente legato quindi al mondo della politica sportiva e della burocrazia federale [54].

Quella del manager sportivo apparve insomma allora come la figura di riferimento e fiducia, cui affidare le sorti dello sport italiano e delegare soprattutto il compito di programmarne una crescita armonica e costante sul triplice piano tecnico-agonistico, economico e culturale. La stessa auspicata e contenuta dalla proposta di riordino del comparto illustrata il 15 dicembre 1963 dai deputati liberali Alberto Giomo e Giovanni Botta, che vollero ripresentare l’articolato di legge a suo tempo redatto da Degli Occhi, nella speranza che il favorevole clima d’inizio legislatura potesse agevolarne l’iter [55].

Il progetto non fu invece mai discusso e finì dunque per approdare in quel grande porto delle nebbie, destinato ad ospitare analoghe proposte in materia, cadute nel dimenticatoio di una politica nazionale assente, distratta ed insensibile, perché comunque convinta dell’inopportunità di un intervento organico e diretto in tema di sport. A questo avrebbe dovuto pensare esclusivamente il CONI, ora peraltro dotato, ai sensi della legge 29 settembre 1965, n. 1117, meglio nota del «fifty-fifty», di risorse aggiuntive sul fronte della gestione del Totocalcio, da cui il CONI avrebbe potuto infatti ricavare un’entrata netta pari appunto a quella ottenuta dall’erario mediante l’imposta unica sul movimento complessivo generato dal gioco a pronostici più famoso d’Italia, ovvero il 26,5%.

Ciò avrebbe naturalmente comportato un sensibile aumento degli oneri e delle competenze per il CONI, a cui il legislatore aveva infatti appena deciso di appaltare nuovi impegnativi lavori all’interno di quel grande cantiere aperto rappresentato dallo sport italiano, con molte speranze e ambizioni, mettendolo nelle condizioni economiche – così come si legge nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge d’iniziativa, tra gli altri, dei deputati Brodolini, Evangelisti e Matteotti, per i gruppi socialista, democristiano e socialdemocratico, presentata a Montecitorio il 27 maggio 1964 – «di fronteggiare le crescenti necessità di erogazioni per lo sport» [56].

Di queste nuove responsabilità Onesti, consapevole peraltro dei drammatici bisogni di un movimento complessivamente ancora gracile, si mostrò subito disposto ad accettare il carico, chiedendo come contropartita il pieno sostegno della politica. Quello apertamente invocato, insieme alla richiesta di un più puntuale intervento a livello scolastico-educativo, all’interno del famoso Libro Bianco dello Sport [57], dato alle stampe dal CONI nel 1966 e contenente i lineamenti di un imponente piano di investimenti a sostegno dell’impiantistica, da realizzare naturalmente con i proventi della legge del «fifty-fifty», con il concorso dell’Istituto per il credito sportivo e nel rispetto delle previsioni di spesa inserite all’interno del capitolo XIV del Piano quinquennale del programma di sviluppo economico 1966-1970 varato dal governo. Così scriveva infatti Onesti nell’introduzione a questo importante lavoro di analisi ed elaborazione: «È doveroso rammentare che l’educazione fisico-sportiva, il tempo libero, è un diritto e compito dello Stato. Sino ad oggi il CONI, allo scopo di incoraggiare e stimolare questi postulati tuttora negletti per ragioni di carattere economico e sociale, si è sobbarcato anche compiti che esulavano dalla sua competenza» [58].

Si poneva dunque, secondo il Presidentissimo del CONI, l’esigenza di porre fine a questa situazione di costante ed insostenibile supplenza nei confronti della politica, che il Foro Italico invitava ora ad assumere un ruolo maggiormente responsabile, sulla base di un nuovo modello identificabile non certo nella cogestione del comparto sportivo, bensì nella più equilibrata suddivisione di oneri e competenze soprattutto sul piano della programmazione degli interventi infrastrutturali e sul fronte dell’elaborazione di una politica generale d’indirizzo e prospettiva, chiaramente comprensiva dell’indi­viduazione di quei problemi nodali da aggredire, comprendere e risolvere, secondo una scala di priorità.


5. Per un nuovo protagonismo della politica: l’indagine conoscitiva sulla situazione e le prospettive dello sport in Italia

A cogliere allora l’urgenza di questo radicale mutamento di approccio della politica nei confronti dello sport auspicato da Onesti fu soprattutto il democristiano Concetto Lo Bello, che, positivamente impressionato dalle importanti iniziative assunte sul fronte della promozione sportiva e della valorizzazione del cosiddetto sport di base e per tutti da alcune Giunte locali, con particolare riferimento a quella di Milano, decise di presentare, con l’appoggio di Democrazia Cristiana (DC), Partito socialdemocratico (PSDI), Partito liberale (PLI) ed anche del gruppo missino, una proposta di legge tesa a valorizzare il ruolo dello Stato in tema di formazione, cultura ed impiantistica sportiva in particolare.

Illustrato in aula il 12 aprile 1973, questo provvedimento, che constava di undici articoli, conteneva, in estrema sintesi, i capisaldi fondamentali di una vera e propria ri­voluzione culturale, destinata a rovesciare la piramide dei valori e soprattutto dei pregiudizi, attraverso i quali, sino ad allora, cittadini ed istituzioni avevano guardato allo sport ed ai cosiddetti grandi campioni.

Si poneva in particolare, per Lo Bello, l’esigenza di una complessiva palingenesi dello sport di base e dilettantistico, accompagnata dalla divulgazione di un nuovo messaggio educativo, incentrato sull’importanza dell’abituale e frequente esercizio fisico e sulla necessità di ridefinire il significato del titolo di sportivo, troppo spesso ingiustamente attribuito a chi si limitava ad assistere dal vivo o attraverso la televisione, nelle vesti di tifoso, alle varie competizioni agonistiche. Così recitava infatti la relazione introduttiva al provvedimento in questione: «C’è un fatto che, in ogni modo, contraddistingue la situazione dello sport oggi in Italia ed è l’inadeguatezza degli sforzi finora attuati per la promozione dell’educazione fisica e sportiva che è fondamento di elevazione materiale ed etica dei cittadini in ogni società civile […]. Allo stato attuale, nel nostro Paese, funzionano circa 5.700 palestre scolastiche, mentre il numero delle scuole secondarie statali supera le 12.000 unità […]. A queste insufficienze dell’educa­zio­ne sportiva fa acceso contrasto l’ampiezza di mezzi di cui dispone lo sport professionistico. Alla ricchezza finanziaria di queste organizzazioni si accompagnano inoltre for­midabili strumenti di suggestione, volti a favorire i fenomeni non sempre apprezzabili del tifo, più che la pratica e l’educazione sportiva. Il risultato è la diffusa tendenza che si fa strada nella psicologia dei cittadini a confinare lo sport in una prospettiva retorica e sempre più lontana […]» [59]. Di fronte a questo delicato problema insomma, lo Stato non avrebbe più potuto rinunciare ad un intervento diretto, sia sotto il profilo educativo e culturale, sia sul fronte della dotazione infrastrutturale [60].

E fu proprio Lo Bello dunque, con la sua importante iniziativa, a scuotere la politica, svegliandola dal sopore nel quale era ormai da troppo tempo caduta, e a creare soprattutto le condizioni per l’avvio della prima importante iniziativa d’analisi e approfondimento delle complesse problematiche inerenti al fenomeno sportivo da parte del parlamento: l’indagine conoscitiva sulla situazione e le prospettive dello sport in Italia [61].

Promosso dalla commissione Affari Interni della Camera dei Deputati, presieduta, per l’intera durata della sesta legislatura, da Antonio Cariglia, questo fondamentale lavoro di studio, condotto tra il marzo del 1973 ed il novembre del 1974, in collaborazione naturalmente con numerosi esperti del settore, rappresenta in tema di educazione fisica e sport un vero e proprio unicum nella storia della Repubblica Italiana, per profondità, ampiezza e complessità. Allo scopo di effettuare una ricognizione davvero comple­ta del panorama sportivo nazionale e di ricavarne dunque una valutazione d’insieme chiara ed esaustiva, la seconda commissione permanente della Camera decise infatti di avvalersi del contributo di tutti i principali protagonisti del settore, tra cui i direttori dei tre quotidiani sportivi nazionali, i presidenti di diverse federazioni, i dirigenti degli enti di promozione, il presidente del Comitato Olimpico Nazionale, i rappresentanti di comuni, province e regioni, i direttori dei Centri di medicina dello sport di Roma e Milano e soprattutto alcuni docenti e studenti dell’Istituto superiore di educazione fisica della Capitale.

Davvero tanti furono quindi i temi trattati nel corso delle audizioni calendarizzate dall’ufficio di presidenza della commissione. Una delle più interessanti fu senza dubbio quella del presidente del CONI, che, nella seduta del 17 maggio 1973, fu chiamato a parlare delle peculiarità del modello sportivo italiano, dando modo ai deputati presenti di comprenderne pregi, difetti e limiti, come quelli sottolineati in quella stessa sede dal comunista Giuseppe Iperico, che denunciò la natura egemonica del ruolo svolto in ambito sportivo dal CONI e gli aspetti fondamentali della sua vecchia legge istitutiva [62], solo marginalmente modificata nel 1947 e direttamente responsabile, a suo avviso, dell’ab­dicazione dello Stato dall’esercizio di specifiche funzioni di indirizzo e coordinamento sul fronte dello sport agonistico e dilettantistico [63].

A riflettere proprio su queste anomalie dell’ordinamento sportivo italiano, sulle specifiche competenze del CONI e sulle iniziative potenzialmente in grado di risollevare le sorti dello sport di base furono quindi, nel corso dell’audizione del 23 ottobre 1974, anche Aldo Notario, Giovanni Montella, Ugo Ristori, Enrico Guabello e Renato Pastore, presidenti, nell’ordine, di Centro sportivo italiano (CSI), Centro Libertas, Unione italiana sport popolare (UISP), Associazione italiana culturale e sport (AICS) e Associazione centri sportivi italiani (ACSI).

I dirigenti di tutti gli enti di promozione convocati si dichiararono concordi innanzitutto nel ritenere quanto meno equivoco l’assetto giuridico del Comitato olimpico nazionale, denunciandone lo strapotere tecnico ed organizzativo, con particolare chiarezza espositiva e, nello specifico caso di Notario, anche con l’ausilio di arditi, ancorché efficaci, paragoni. Disse infatti, tra le altre cose, il presidente del CSI: «La prima affermazione lapalissiana che posso fare alla commissione Interni della Camera è che in Italia vi è una grave carenza di legislazione sportiva. L’unica legge sportiva operante a livello nazionale è la legge-delega del 1942 istitutiva del CONI. Non a caso l’ho chiamata legge-delega perché praticamente al CONI si è delegata tutta la materia sportiva. Questa legge in effetti è stata aggiornata nel 1945-1946, ma si è trattato di modifiche soltanto formali per cui la situazione reale è che il CONI, di fatto oggi è, usando un termine di confronto, l’IRI dello sport. Ma è l’IRI dello sport con un grosso equivoco, che non ha alle spalle una copertura politica: l’IRI infatti ha il ministero delle Partecipazioni Statali per cui la sua linea viene elaborata nella sede politica propria: Parlamento-Governo-Ministero interessato. Per lo sport si tratta invece di una delega totale, che contiene anche un secondo equivoco, perché pur essendo il CONI di fatto l’IRI dello sport, non esprime nel suo contesto le forze associative che via via nella vita democratica del Paese si sono andate formando nel dopoguerra […]. Questa vacanza ha permesso che non vi fosse una politica sportiva nella sede propria, cioè: partiti, parlamento e governo, ove la formazione della volontà politica si esprime attraverso un processo di partecipazione. La politica del CONI, avvenuta implicitamente per delega, non poteva che essere una politica sostitutiva con una delega non chiara e i mezzi non sufficienti […]» [64].

Carente era in particolare, ad avviso di Ristori, la politica di sviluppo e promozione del cosiddetto sport per tutti, che proprio in quel torno di tempo stava assumendo, soprattutto su scala europea, un grandissimo rilievo socio-culturale, poi ufficialmente sancito dall’importante raccomandazione del 24 settembre 1976 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa [65]. E tutt’altro che soddisfacente, secondo il direttore del Corriere dello Sport, Mario Gismondi [66], appariva poi anche quella riguardante il coordinamento dei programmi e delle iniziative inerenti esclusivamente all’attività agonistica, ri­spetto a cui, visto lo straordinario rilievo ormai acquisito dal fenomeno sportivo sul piano sociale ed economico in particolare, lo Stato non si sarebbe più potuto permettere il lusso di rimanere alla finestra, abdicando al proprio naturale ruolo di indirizzo e riservandosi di intervenire solo in casi di estrema necessità ed urgenza.


6. Sempre sull’onda dell’emergenza: l’impossibilità di un intervento orga­nico e strutturale in materia di sport

In questo modo sarebbero infatti rimaste inevase questioni cruciali per l’armonico sviluppo dello sport spettacolare e di alto livello, come quella in particolare del profilo giuridico ed economico del rapporto esistente tra atleta, società di riferimento e federazione di categoria, di cui governo e parlamento, dopo lunghi anni di colpevole inazione, nell’estate del 1978, dovettero occuparsi sull’onda dell’emergenza, senza avere quindi il tempo di analizzare il problema in tutti i suoi molteplici aspetti e di risolverlo in modo organico e strutturale.

L’intervento della politica si rese allora necessario per neutralizzare l’iniziativa assunta a Milano da un giovane «pretore d’assalto», Giancarlo Costagliola, che, dando seguito ad un esposto presentato dal presidente dell’Associazione italiana calciatori (AIC), il 4 luglio aveva disposto la perquisizione domiciliare dei locali del complesso alberghiero «Leonardo da Vinci» di Bruzzano, dove erano in pieno svolgimento le trattative del cosiddetto calciomercato, sospese quindi a tempo indeterminato [67]. A giustificare quest’intervento così clamoroso ed inatteso, destinato peraltro a produrre devastanti effetti sull’industria del calcio e relativo indotto, era, secondo il magistrato, la grave violazione delle leggi in vigore riguardanti il collocamento e l’avviamento al lavoro, che vietavano in particolare l’esercizio della mediazione, nell’ambito della complessa disciplina del lavoro subordinato, cui, in mancanza di norme specifiche e chiare, era per Costagliola comunque riconducibile la prestazione sportiva continuativa, garantita dal calciatore al presidente della società di appartenenza, dietro regolare compenso mensile contrattualizzato.

Si poneva quindi l’assoluta necessità di porre fine a quell’ignominioso «mercato delle vacche» [68], così come ebbe a definirlo il presidente dell’AIC, Sergio Campana, retto e gestito da figure professionali di dubbia moralità e soprattutto non previste né riconosciute dall’ordinamento sportivo, in grado di condizionare società e atleti, così da alterare la regolarità delle trattative, per dare vita invece ad un nuovo quadro di legalità, basato su regole certe, trasparenza e vigilanza della federazione di riferimento, ma anche della politica, viste la straordinaria popolarità e l’indubbia rilevanza pubblica e sociale raggiunte dal calcio in Italia.

Sia per le istituzioni sportive sia per quelle politiche era giunta l’ora insomma di un duro «esame di coscienza» [69], così come molto opportunamente Gino Palumbo sulla rosea scelse di intitolare il suo lungo editoriale dedicato alla vicenda, sottolineando la necessità di maggiore trasparenza nel mondo del calcio, per cui certo, in nome della sua popolarità, non sarebbe stato assolutamente possibile richiedere l’istituzione di un porto franco, e, sostenendo, più in generale, che tutto l’universo sportivo, che pur rappresentava del Paese «una delle aree più sane» [70], non avrebbe potuto «pretendere di sottrarsi a controlli e verifiche» [71].

E se dunque l’autonomia garantita all’ordinamento sportivo, in mancanza di controlli e vigilanza, si era trasformata in anarchia e licenza, peraltro destinate ad ostacolare lo sviluppo di una solida cultura sportiva e la diffusione di modelli e valori credibili agli occhi della pubblica opinione, sarebbe spettato allora alla politica intervenire con puntualità, definendo quanto meno le linee guida e la cornice generale di riferimento cui le singole federazioni sportive avrebbero dovuto attenersi, per inquadrare i rispettivi atleti, spiegare una volta per tutte con chiarezza la natura del rapporto e degli obblighi esistenti tra tesserati, società affiliate e i medesimi organismi federali e illustrare, laddove effettivamente tale fenomeno esistesse al loro interno, le caratteristiche del «lavoro sportivo».

Ancora una volta non fu però quella dell’intervento organico e strutturale la strada seguita dai partiti, che, terrorizzati dall’idea che il massimo campionato nazionale di calcio potesse saltare in virtù dell’inopinato intervento della magistratura, optarono in­fatti per la decretazione d’urgenza, ovvero per l’ennesimo provvedimento settoriale e limitato, funzionale alla mera risoluzione del caso di specie e della semplice emergenza. Si giunse così al varo del decreto 14 luglio 1978, n. 367 [72], poi convertito nella legge 4 agosto 1978, n. 430, che, escludendo l’applicabilità delle norme sul collocamento al trasferimento dei calciatori, permetteva l’immediato ripristino delle trattative e ribadiva soprattutto l’assoluta autonomia e specificità dell’ordinamento sportivo, senza però definire organicamente né la natura del rapporto esistente tra atleti e società né il ruolo specifico delle federazioni, al di là di quanto previsto dai rispettivi statuti e regolamenti [73]. A ciò avrebbe dovuto provvedere entro un anno un’apposita commissione da costituirsi presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e composta, tra gli altri, dal ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, dal ministro del Turismo e dello Spettacolo e da rappresentanti del CONI e delle categorie interessate, così come previsto dall’ordine del giorno del governo approvato in sede di conversione del decreto, di cui veniva di fatto recuperato l’art. 2, poi soppresso all’interno delle legge n. 430 [74].

Nominato da Giulio Andreotti e presieduto dal sottosegretario Franco Evangelisti, questo organismo, dopo aver convocato ed ascoltato in audizione i presidenti di tutte le federazioni, i rappresentanti delle società sportive interessate e numerosi atleti professionisti, fu in grado di produrre, più o meno nei tempi previsti, uno schema di disegno di legge, funzionale alla regolamentazione della complessa disciplina inerente al profilo professionale, economico e giuridico del rapporto esistente tra atleta e società ed anche alla natura della prestazione sportiva, svolta nell’ambito delle manifestazioni ufficiali riconosciute ed organizzate dalla varie federazioni interessate. Il progetto d’iniziativa del ministro del Turismo e dello Spettacolo, Bernardo D’Arezzo, di concerto con il ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, con il ministro delle Finanze, Francesco Reviglio, e col ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Vincenzo Scotti, venne presentato il 26 ottobre 1979 a Palazzo Madama, dove fu poi definitivamente approvato il 4 marzo 1981, dopo essere stato modificato a Montecitorio [75].

Proprio qui, in sede di dibattito, venne posta l’attenzione sull’assoluta necessità di un intervento organico e complessivo in tema di governance dello sport, resa, se possibile, ancora più evidente dallo stesso provvedimento in discussione, che, utile ai fini della rapida soluzione dello specifico problema del professionismo sportivo, attribuiva di fatto un nuovo particolare rilievo alle federazioni, chiamate ora infatti, tra le altre cose, ad emanare le norme per la qualificazione dello sportivo professionista, a fissare parametri e coefficienti della indennità di preparazione e promozione degli atleti, e a concedere o revocare l’affiliazione alle società sportive. Di qui dunque l’esigenza di un riordino complessivo delle competenze e del profilo giuridico delle federazioni, così come auspicato dallo stesso relatore del provvedimento in discussione, il democristiano Michele Zolla, che in commissione Interni ebbe ad esprimersi in questi termini, il 4 febbraio 1981: «Tutte queste sono attività di rilevanza nell’ambito dell’ordinamen­to generale dello Stato, non solo nell’ambito dell’ordinamento sportivo, sì che sorge necessario il problema della definizione delle federazioni sportive. Attualmente secondo la legge istitutiva del CONI esse sono organi dello stesso e gestiscono l’attività sportiva di competenza in quanto tali. Ma lo sviluppo della loro attività, i rapporti che ad essi si imputano, la loro stessa natura di organismi risultanti dalla volontà di più società richiedono una migliore definizione della loro figura giuridica» [76].

Sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda furono quindi gli interventi del comunista Rino Serri, del liberale Alfredo Biondi e soprattutto del democristiano Concetto Lo Bello, che, nell’apprezzare la soluzione individuata allo specifico problema del professionismo sportivo, non esitò a chiedere al governo di procedere, in tempi anche brevi, «al riordinamento generale della legislazione sportiva» [77].

Più che un punto d’approdo, la legge 23 marzo 1981, n. 91, che pure aveva finalmente portato a compimento un lungo lavoro di analisi ed elaborazione sulla natura dello sport professionistico e sulle nuove responsabilità affidate alle federazioni in tema di vigilanza e controllo sulle società sportive [78], avrebbe dovuto rappresentare allora il primo atto di un ambizioso processo di revisione organica dell’intero ordinamento sportivo nazionale, da attuare sulla scorta di una defatigante, paziente e meticolosa attività di ascolto, studio e comprensione delle istanze e dei problemi che caratterizzavano il settore.

Maturò così, in questo nuovo clima, l’idea di organizzare la prima Conferenza Nazionale dello Sport, sotto il coordinamento del ministero del Turismo e dello Spettacolo, retto da Nicola Signorello, che, insieme a Franco Evangelisti, rappresentava allora il plenipotenziario di Giulio Andreotti in tema di sport, e con la collaborazione del CONI. Vi parteciparono il presidente del Comitato olimpico internazionale (CIO), Juan Antonio Samaranch, i massimi dirigenti del movimento sportivo italiano, oltre a numerosi esponenti politici, tra cui il Capo dello Stato, Sandro Pertini, rappresentanti degli enti di promozione e dell’associazionismo, l’allora presidente della Rai, Sergio Zavoli e alcuni atleti in attività, che, tra il 10 ed il 13 novembre 1982, si avvicendarono sul palco del centro congressi dell’Auditorium della Tecnica, nella sede di Confindustria, dopo aver lavorato, ciascuno secondo le proprie disponibilità, all’interno di apposite commissioni di studio, insediatesi già nel marzo precedente, allo scopo di preparare i corposi dossier riguardanti in particolare lo sport nella scuola, il ruolo degli enti locali e delle regioni in ambito sportivo, la tutela sanitaria dell’atleta, ruolo e na­tura delle associazioni sportive, lo sviluppo dell’impiantistica, l’immagine dello sport nei media e gli importanti nessi esistenti tra sport e cultura nella società moderna [79].

Sulla scorta di un’analisi così minuziosa, era ambizione di Signorello favorire l’e­mergere di una nuova visione complessiva del fenomeno sportivo, essenziale ai fini dell’individuazione degli strumenti culturali e normativi idonei a governarlo nella sua complessità. Fine ultimo della Conferenza Nazionale era dunque quello di fornire al governo e al parlamento – così come ebbe ad esprimersi il ministro del Turismo e dello Spettacolo in apertura di lavori – «uno strumento operativo globale» [80], che fosse in grado «di dare avvio, in tempi brevi e in forme adeguate, all’attuazione del progetto stesso» [81]. La riforma dell’ordinamento sportivo, mediante una proposta di legge-quadro d’iniziati­va governativa, costituiva, a suo avviso, «lo strumento idoneo a questo scopo» [82].

Non però secondo il CONI, il cui presidente, Franco Carraro, non mancò di manifestare tutta la propria irritazione nei confronti del malcelato tentativo, posto in essere, a suo avviso, dal governo e dai partiti, di limitare pericolosamente l’autonomia e l’indi­pendenza delle istituzioni sportive, attraverso la proposta appunto di una legge quadro d’iniziativa ministeriale. A margine della prima giornata dei lavori della Conferenza, Carraro rilasciò dunque queste piccate dichiarazioni: «Il CONI è fortemente contrario alla costituzione di un ministero o di un sottosegretariato per lo sport o di un consiglio o di un comitato o di un qualunque inutile organismo, mentre ritiene necessaria l’ado­zione di provvedimenti concreti per la diffusione della sport nella scuola, per la costruzione di impianti sportivi e per un’assistenza alle migliaia di società dilettantistiche che costituiscono la base e la forza del movimento sportivo italiano che deve e vuole conservare la propria autonomia operativa e di finanziamento» [83].

Per il Foro Italico dunque quello del varo di interventi disorganici, limitati e mirati alla risoluzione delle singole problematiche di volta in volta denunciate dal comparto avrebbe dovuto continuare a rappresentare il solo accettabile modus operandi della politica in ambito sportivo. Di qui allora l’esigenza, da parte di Signorello, di chiarire l’equivoco, facendo questo intervento nel corso della popolarissima trasmissione Rai Il processo del lunedì: «Non ho mai parlato, neanche come ipotesi, della costituzione di un consiglio o di un comitato per lo sport […]. L’autonomia del CONI e delle federazioni è fuori discussione e resta intangibile. Lo strumento operativo indicato nella mia relazione non è altro che la legge quadro. E per riforma dell’ordinamento sportivo si deve intendere la precisa attribuzione di ruoli e competenze che dovrà essere stabilita appunto dalla legge quadro. E sarà appunto questo inquadramento legislativo, che potrà offrire al CONI la strada più rapida e legittima per uscire dalla gabbia del parastato ed acquistare una nuova, più dinamica ed efficiente figura giuridica» [84].

Abile fu allora il ministro democristiano a gettare acqua sul fuoco, pur mantenendo però con fermezza e coerenza il punto, quello relativo cioè all’esigenza di una riforma complessiva dell’ordinamento, al di là delle paure del CONI, che semmai avrebbe dovuto apprezzare l’impegno assunto dal governo di sburocratizzarne e alleggerirne l’as­setto organizzativo ed amministrativo, mettendo mano ai nefasti effetti provocati dalla legge 70 del 20 marzo 1975, riguardante il riordino degli enti pubblici non economici e responsabile quindi dell’inserimento del CONI stesso nel ginepraio del parastato.

I lavori della Conferenza poterono dunque riprendere con gli interventi previsti in tema di scuola, impiantistica, finanziamento delle attività sportive e autonomie locali in un clima di ritrovata armonia, destinata però a durare davvero poco, visto il riemergere del duro confronto-scontro tra politica e istituzioni sportive, che fu del resto, alla fine, il vero leitmotiv dell’evento. A dare fuoco alle polveri fu in particolare l’assesso­re allo Sport della Regione Piemonte, il socialista Michele Moretti, che all’interno di un’articolata relazione, da cui poi tutti gli altri componenti della commissione Sport e Regioni avrebbero preso le distanze, rivendicò per la politica e le Regioni in particolare, ai sensi del d.P.R. 616/1977, un ruolo centrale e pressoché esclusivo in tema di promozione e sviluppo delle sport, caldeggiando in questi termini una riforma complessiva e soprattutto il ridimensionamento operativo ed economico del CONI: «I soggetti naturali su cui si poggia effettivamente la diffusione dello sport nel nostro Paese non possono essere altri se non le Regioni e le varie forme associative in cui si esprime la domanda sociale. Nel contempo ciò significa un inevitabile contenimento di altri enti che, pur perseguendo interessi ragguardevoli, non hanno tuttavia titolo per assumere ruoli di protagonismo in questo grande e generale processo di sviluppo. Ci si riferisce ovviamente in primo luogo al CONI, il quale avrà ben ragione di vantare i suoi 8 milioni di iscritti, ma certamente è poca cosa rispetto al ruolo delle Regioni, le quali si dirigono alla totalità dell’intera popolazione nazionale. Tale diversità di consistenza deve essere tenuta presente e deve tradursi in una corretta proporzione sul piano finanziario. Ne deriva insomma che da un lato occorre ridimensionare le pretese del CONI riconducendolo alla sua naturale figura di ente settoriale, d’altro lato occorre fermarlo in quelle sue iniziative che tendano a confondere le acque cercando di accreditarlo per una presenza più ampia e generale» [85].

Per quanto dure e senza dubbio ingiuste nei confronti della meritoria attività di supplenza svolta dal CONI, chiamato a coprire i troppi vuoti lasciati da una politica di­stratta e assente, quelle di Moretti non possono essere considerate semplici parole «dal sen fuggite», o, peggio ancora, contumelie all’indirizzo del Foro Italico. Vanno semmai interpretate alla stregua di un violento scossone assestato alla politica, invitata finalmente a recuperare dignità, iniziativa e prerogative ingiustamente appaltate al CONI, nel rispetto di un’equivoca e discutibile autonomia dell’ordinamento sportivo, usata per troppo tempo dai partiti come alibi per giustificare l’ignoranza, l’inadeguatezza e la pavidità, di cui avevano dato prova negli ultimi trentacinque anni, pensando che nel garantire lo sviluppo del Totocalcio potesse esaurirsi e concentrarsi ogni efficace politica pubblica di sostegno allo sport. Per questo, secondo il deputato repubblicano Mauro Dutto, che prese la parola il 12 novembre, all’indomani delle polemiche innescate dalla dura relazione dell’assessore Moretti, «il CONI doveva essere ricondotto in un sistema nel quale gli indirizzi sullo sport fossero effettivamente affidati al Parlamento» [86].

Se dunque ruvide e spigolose, ancorché oneste intellettualmente, furono le riflessioni proposte da alcuni rappresentati dei partiti e della politica, ancora più dure si rivelarono, al termine della Conferenza, le prese di posizione del CONI, che si mostrò indisponibile e chiuso nei confronti di qualsivoglia proposta di modifica dello status quo normativo, economico ed organizzativo riguardante il comparto sport. Per Carraro, la natura volontaristica e democratica della militanza sportiva di tutti i dirigenti di base era incompatibile con ogni possibile forma di coordinamento dall’alto della politica. «Ecco perché – concluse allora il successore di Giulio Onesti – le federazioni sportive ed il CONI rivendicano la propria autonomia. Perché ritengono che l’alterna­tiva ad essa costituirebbe una rivoluzione del modello attuale, con uno sport non più libero, ma bensì diretto dallo Stato […], privo dei connotati del volontariato […]” [87].

Quella della Conferenza Nazionale dello Sport, al di là della ricchezza e della profondità degli studi prodotti all’interno di specifici ambiti e su questioni di carattere particolare, si rivelò così, sul piano generale e delle relazioni tra sport e politica, un’oc­ca­sio­ne perduta. Fu impossibile in particolare dare seguito in tempi rapidi, ben diversamente da quanto previsto ed auspicato dal ministro Signorello, ad una riforma complessiva del settore.

È tuttavia curioso osservare che, dopo questo fallimento, il primo a proporla, una volta dismessi i panni del presidente del CONI e vestiti quelli del ministro del Turismo e dello Spettacolo, sia stato poi proprio Franco Carraro, cui evidentemente il cambio di prospettiva e funzione permise di mettere meglio a fuoco i limiti e i problemi di quel modello organizzativo, solo fino a pochi anni prima considerato ineguagliabile e perfetto. Presentato il 10 aprile 1989 alla Camera dei Deputati, il disegno di legge quadro del governo in materia di sport, che prevedeva, tra le altre cose, la valorizzazione del ruolo svolto dagli enti locali in tema di impiantistica, la responsabilizzazione dello Stato sul triplice fronte dello sviluppo dello sport nelle Forze Armate, della promozione dello sport per tutti e della tutela dell’associazionismo e la ridefinizione di alcuni aspetti dell’inquadramento del personale CONI e del rapporto esistente tra federazioni e società ad esse affiliate, non fu in realtà mai discusso [88].

Addirittura un decennio fu dunque necessario perché la politica riuscisse ad approntare il riordino complessivo del CONI e delle federazioni sportive nazionali, lungamente atteso ed invocato. A questo approdo non si giunse però sulla scorta di un dibattito ampio ed articolato riguardante specificamente il mondo dello sport, pur nella sua complessità e pluralità di voci e istanze, né tanto meno d’iniziativa del parlamento, luogo naturalmente deputato al confronto tra partiti, bensì nel quadro della delega concessa al governo per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59, meglio nota come Bassanini semel, che all’art. 11 in particolare prevedeva, tra le altre cose, la razionalizzazione dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio e dei ministeri e il riordino degli enti pubblici.

Dello sport e della sua governance furono allora considerati solo gli aspetti di funzionamento e di cornice, per così dire, del tutto compatibili con lo spirito, i limiti e i contenuti di questa delega, e quindi, attraverso il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, fu realizzata una riforma di sistema indubbiamente importante sul piano formale ed istituzionale, ma piuttosto povera sul fronte dei contenuti e dell’analisi dei problemi di prospettiva, al di là dell’importante attribuzione di un profilo privatistico alle federazioni [89].

E se alla realizzazione dell’invocato provvedimento-quadro in materia di riordino delle istituzioni sportive si giunse in mancanza di un adeguato coinvolgimento del parlamento e di un vero confronto sul merito con i diretti protagonisti dell’universo sportivo, al di là di qualche formale audizione, ancora più impressionante non può che apparire allora la scelta di porre fine per sempre al modello, che per oltre mezzo secolo aveva fatto dell’organizzazione sportiva italiana un unicum mondiale, compiuta dal Governo nel 2002. Colpisce cioè che l’eliminazione di fatto di quella storica autonomia rivendicata, ottenuta e difesa talvolta non senza miope rigidità come un totem dal­l’universo sportivo, in mancanza di un’analisi obiettiva, critica e dinamica della sua utilità da parte degli stessi sportivi, da un lato, e di un apporto di qualità da parte della politica, dall’altro, sia stata decisa e attuata nell’ambito della conversione in legge, la nu­mero 178 dell’8 agosto, di un decreto «recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’eco­nomia anche nelle aree svantaggiate» [90].

Appare con ciò del tutto evidente lo iato esistente tra contenuto e contenitore, tra la portata storica cioè degli interventi previsti dal governo, con particolare riferimento alla costituzione di CONI Servizi s.p.a., incaricata di realizzare gli obiettivi strategici e i compiti istituzionali dell’ente pubblico CONI, e all’introduzione, con la crisi del Totocalcio, del finanziamento diretto dello Stato a sostegno dello sport, e la banalità di un «provvedimento omnibus», responsabile dell’immiserimento, sul piano simbolico, di queste svolte così importanti prodotte dalla politica, incapace quindi fino alla fine di dedicare allo sport una vera legge organica, frutto di una disamina seria, specifica e approfondita della materia.

E con un ulteriore intervento di semplice maquillage normativo, il d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, disposto ai sensi della legge 6 luglio 2002, n. 137, che introduceva di fatto una nuova piccola riforma dell’ordinamento, venne successivamente modificato ed integrato il provvedimento del 1999, attraverso il quale era stato disposto il riordino complessivo delle federazioni e del CONI in particolare, di cui ora venivano rafforzate centralità e prerogative all’interno della governance dello sport, in virtù del suo ruolo di «confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate» [91].

Quella attuata dai partiti, anche dopo la drammatica cesura del 1992-1994 e l’inizio quindi di una nuova stagione politico-istituzionale, ha così continuato a essere, in ambito sportivo, una politica disorganica e disarticolata, caratterizzata da brusche frenate e inopinate accelerazioni, priva di una chiara e coerente visione d’insieme, schiacciata sulla mera contingenza e fortemente condizionata soprattutto dalle situazioni di emergenza e dall’esigenza di congelare lo status quo, rinviando le possibili soluzioni strutturali di anno in anno.


NOTE

[1] Federazione giovanile socialista italiana, Resoconto del III Congresso Nazionale, Firenze 18-20 settembre 1910, Roma, 1911, pp. 69-71.

[2] Ibidem.

[3] A. Balabanoff, Lo sport, i giovani e la coscienza rivoluzionaria, in Avanti!, 11 ottobre 1910.

[4] I. Bonomi, Lo Sport e i giovani, in La Gazzetta dello Sport, 3 ottobre 1910, già pubblicato sull’or­gano di stampa del Psi il 29 settembre 1910.

[5] Ibidem.

[6] G. Gentile, Il problema scolastico del dopoguerra, Napoli, 1919. Si veda inoltre Id., Il fascismo al governo della scuola: novembre ’22 – aprile ’24. Discorsi e interviste raccolti e ordinati da Ferruccio E. Boffi, Palermo-Milano-Napoli-Bologna-Genova-Torino-Firenze, 1924. Sulla riforma Gentile e le conseguenze didattico-educative della sua entrata in vigore si vedano in particolare G. Gonzi, La scuola in Italia dalla riforma Gentile ai nostri giorni, Parma, 1990, pp. 17-39; G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, 1995, pp. 304-367; M.G. De Santis, La politica scolastica dal fascismo al primo dopoguerra. Dalla riforma Gentile ai programmi del 1945, Cassino, 1996, pp. 31-47; P. Veronesi, La riforma Gentile tra educazione e politica: le discussioni parlamentari, Ferrara, 1996; V. Pirro, La riforma Gentile e il fascismo, Firenze, 1973, pp. 429-437, estratto da Giornale critico della filosofia italiana, a. LII, fasc. 3, luglio-settembre 1973.

[7] S. Finocchiaro, L’educazione fisica, lo sport scolastico e giovanile durante il regime fascista, in M. Canella, S. Giuntini, (a cura di), Sport e fascismo, Milano, 2009, pp. 119-132.

[8] L. Ferretti, La storia dell’E.N.E.F., in «Il Ginnasta», a. XXXIX, n. 20-21, 30 ottobre – 15 novembre 1927. Si vedano inoltre E. Landoni, La ginnastica sale in cattedra. L’educazione fisica nell’ordina­mento scolastico italiano dall’Unità ad oggi, Milano, 2011, pp. 49-64. L. Ferretti, La storia del­l’E.N.E.F., in Il Ginnasta, a. XXXIX, n. 20-21, 30 ottobre-15 novembre 1927; A. Ponzio, La palestra del Littorio, Milano, 2009, pp. 55-99.

[9] E. Carotenuto, Dal dopolavoro italiano all’ENAL (passando per l’Opera Nazionale Dopolavoro fascista), Mercogliano, 2002.

[10] C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, 1984.

[11] L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista, 1919-1943, Torino, 2003.

[12] Perché lo sport deve essere controllato dal Partito, in Il Regime Fascista, 19 dicembre 1926.

[13] Foglio d’Ordini del Pnf del 2 marzo 1927 e Un ufficio sportivo alla direzione del partito, in Il Popolo d’Italia, 15 marzo 1927.

[14] Sulla figura e il ruolo di Starace in seno al regime si vedano C. Galeotti, Achille Starace e il vademucum dello stile fascista, Soveria Mannelli, 2000; E. Landoni, U.N.I.R.E. l’ippica italiana: una difficile impresa per il fascismo, Milano, 2010, pp. 170-201.

[15] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1942-02-16;426.

[16] E. Landoni, Milano capitale dello sport. Dalla Liberazione al centro-sinistra, Milano, 2008, pp. 31-32. Su Giulio Onesti e le vicende relative al suo esordio alla guida del CONI si veda anche T. De Juliis, Dal culto dell’indipendenza all’eredità rinunciata, Roma, 2000, pp. 14-62.

[17] Cfr. T. De Juliis, Il Coni di Giulio Onesti da Montecitorio al Foro Italico, Roma, 2001, p. 133.

[18] Sport agli sportivi, niente due Coni, decentramento: queste sono le idee e i propositi del Commissario del C.O.N.I. Alta Italia, in La Gazzetta dello Sport, 6 luglio 1945.

[19] In alto mare e senza bussola. Il Commissario del C.O.N.I. a seguito dell’o.d.g. dei reggenti denuncia l’accordo col C.O.N.I.-Milano, ivi, 9 ottobre 1945.

[20] Archivio degli Organi Collegiali del CONI (AOCConi), Atti del Consiglio Nazionale, verbale della seconda riunione, 27 luglio 1946. Si veda anche Con larga maggioranza Onesti Presidente del C.O.N.I., in La Gazzetta dello Sport, 28 luglio 1946.

[21] AOCConi, Atti del Consiglio Nazionale, verbale della seconda riunione, 27 luglio 1946, intervento di Alessandro Frigerio.

[22] AOCConi, Atti del Consiglio Nazionale, verbale della prima riunione, 19 giugno 1946, intervento di Giulio Onesti.

[23] E. Landoni, Milano capitale dello sport, cit., pp. 42-51.

[24] http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario;jsessionid=97jGIubvBsEOjvy0IUgIDA__.ntc-as3-guri2a?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1947-05-27&atto.codice­Redazionale
=047U0362&elenco30giorni=false.

[25] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1945/03/27/045U0076/sg;jsessionid=w+oNG36HG5VIyTJeLvbAIg
__.ntc-as2-guri2b.

[26] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:1948-04-14;496~art6. Sull’avvento del Totocalcio e il rapporto degli italiani con il gioco si vedano in particolare G. Imbucci, Il gioco: Lotto, Totocalcio e lotterie. Storia dei comportamenti sociali, Venezia, 1997; Gioco pubblico in Italia: storia, cultura e mercato, a cura di G. Imbucci, Venezia, 1999; M. Pedroni, The «banker» State and the «responsible» enterprises. Capital conversion strategies in the field of public legal gambling, in Rassegna Italiana di Sociologia, a. LV, n. 1, gennaio-marzo 2014, pp. 71-97.

[27] http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stampati/pdf/14970001.pdf (seduta del 23 luglio 1950).

[28] http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stencomm/11/Leg/Serie010/1950/1006/stenografico.pdf (seduta del 6 ottobre 1950).

[29] Ibidem.

[30] Ibidem.

[31] G. Zanetti, In formidabili cifre l’attività del C.O.N.I., in La Gazzetta dello Sport, 30 dicembre 1950.

[32] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1957;1295.

[33] G. Ambrosini, Collaborare per uno sport più elevato, in La Gazzetta dello Sport, 31 dicembre 1957.

[34] http://legislature.camera.it/_dati/leg02/lavori/stencomm/0104/Leg/Serie010/1957/1129/stenografico.pdf (seduta del 29 novembre 1957 commissioni riunite I-IV).

[35] Ibidem.

[36] Ibidem.

[37] G. Ambrosini, Civiltà sportiva, in La Gazzetta dello Sport, 17 giugno 1959.

[38] Senato della Repubblica, III Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconti delle discussioni 1959, vol. 8, dalla 118a alla 139a seduta, 13 maggio – 10 giugno 1959, Tipografia del Senato, Roma 1959, seduta del 19 maggio 1959, intervento di Amedeo D’Albora, pp. 5508-5510.

[39] Ivi, seduta pomeridiana del 20 maggio 1959, intervento di Renato Chabod, p. 5863.

[40] Ivi, seduta antimeridiana del 20 maggio 1959, intervento di Luigi Sansone, p. 5831.

[41] Ivi, seduta pomeridiana del 20 maggio 1959, intervento di Silvio Gava, p. 5894.

[42] Legge 31 luglio 1959, n. 617. http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:Legge:1959-07-31;617.

[43] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stenografici/sed0177/sed0177.pdf#page=44&zoom=100,0,0&toolbar=1 (seduta dell’8 luglio 1959).

[44] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stenografici/sed0175/sed0175.pdf#page=1&zoom=100,
0,0&toolbar=1 (seduta del 7 luglio 1959).

[45] Ibidem.

[46] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stenografici/sed0179/sed0179.pdf#page=1&zoom=100,
0,0&toolbar=1 (seduta del 9 luglio 1959).

[47] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stampati/pdf/28380001.pdf (seduta del 17 febbraio 1961).

[48] Comune di Milano, Ripartizione Sport-Turismo-Giardini, Prima assemblea dello sport milanese. 13-14-20 febbraio 1960, Atti Ufficiali, Tip. Tamburini, Milano 1960; Il Comune organizza lo sport giovanile, in Il Giorno, 4 maggio 1963.

[49] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stampati/pdf/30380001.pdf (seduta del 20 maggio 1961).

[50] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stampati/pdf/32340001.pdf (seduta del 21 luglio 1961).

[51] Giuseppe De Montel, appassionatissimo proprietario di purosangue, è stato il primo italiano a vincere nel 1929 con Ortello la corsa-faro del galoppo mondiale, vale a dire il Prix de l’Arc de Triomphe. Fu, per un certo periodo, il principale avversario di Federico Tesio e quindi della Razza Dormello Olgiata. Dopo la guerra, a raccoglierne l’eredità sportiva e le insegne fu la signora Bianca Verga, proprietaria della scuderia Razza Ticino. Dello splendido complesso liberty allestito da De Montel a ridosso dell’ippodro­mo del galoppo di San Siro oggi non restano che i ruderi, in stato di assoluto abbandono lungo via Fetonte. Si veda in proposito M. Fossati, Razza campione, fine di un’epoca, in la Repubblica, 13 agosto 1992; Id., De Montel, un pezzo di storia da salvare, ivi, 9 novembre 2003.

[52] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stampati/pdf/42520001.pdf (seduta del 16 novembre 1962).

[53] http://www.panathlon.net/organizzazione_leggi.asp?lingua=italiano&tabellaMenuOrizzontale=storia&id_menuorizzontale=12&id_sottomenuorizzontale=0&id=14.

[54] http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stampati/pdf/42520001.pdf (seduta del 16 novembre 1962).

[55] http://legislature.camera.it/_dati/leg04/lavori/stampati/pdf/08370001.pdf (seduta del 15 dicembre 1963).

[56] http://legislature.camera.it/_dati/leg04/lavori/stampati/pdf/14240001.pdf (seduta del 27 maggio 1964).

[57] CONI, Libro Bianco dello Sport, CONI, Roma 1966.

[58] Ivi, p. 5.

[59] http://legislature.camera.it/_dati/leg06/lavori/stampati/pdf/20210001.pdf (seduta del 12 aprile 1973).

[60] A questo specifico riguardo, il presente provvedimento, nel predisporre un piano d’intervento di durata decennale, così prescriveva agli artt. 1 e 3: «ART. 1. Il Ministero dei lavori pubblici è autorizzato a provvedere alla esecuzione degli impianti sportivi previsti dal presente piano decennale. Il limite per gli impegni da assumere annualmente è stabilito in lire 130 miliardi. ART. 3. Le categorie di opere che possono essere eseguite a norma dell’art. 1 sono: 1) piscine coperte; 2) palestre polisportive coperte; 3) impianti all’aperto con attrezzature di atletica leggera, pallacanestro e pallavolo». Ibidem.

[61] Camera dei Deputati, Segretariato Generale, Situazione e prospettive dello sport in Italia. Indagine conoscitiva della II Commissione Permanente (Affari Interni), n. 24, indagini conoscitive e documentazioni legislative, Stabilimenti Tipografici C. Colombo, Roma 1979.

[62] Il riferimento va naturalmente alla legge 16 febbraio 1942, n. 426, successivamente modificata per effetto dell’entrata in vigore del r.d.l. 2 agosto 1943, n. 704, del d.l. 11 maggio 1947, n. 362, e delle leggi 22 dicembre 1951, n. 1379 e 31 luglio 1959, n. 617.

[63] Camera dei Deputati, Segretariato Generale, Situazione e prospettive dello sport in Italia. Indagine conoscitiva della II Commissione Permanente (Affari Interni), cit., pp. 84-85.

[64] Ivi, p. 131.

[65] http://www.rpcoe.esteri.it/RPCOE/Menu/Approfondimenti/Attivit%c3%a0/Attivit%c3%a0.htm.

[66] Camera dei Deputati, Segretariato Generale, Situazione e prospettive dello sport in Italia. Indagine conoscitiva della II Commissione Permanente (Affari Interni), cit., p. 195.

[67] Cfr. Un pretore ha ascoltato l’appello di Campana, in La Gazzetta dello Sport, 5 luglio 1978; G. Gandolfi, Calcio-mercato «arrestato» dai carabinieri, in La Stampa, 5 luglio 1978.

[68] Federazione impotente di fronte ai mediatori, in La Gazzetta dello Sport, 5 luglio 1978.

[69] G. Palumbo, Un esame di coscienza, ivi.

[70] Ibidem.

[71] Ibidem.

[72] http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/304049.pdf (trasmesso da Montecitorio alla presidenza di Palazzo Madama il 27 luglio 1978).

[73] http://www.camera.it/_dati/leg07/lavori/stampati/pdf/23190002.pdf (presentato alla presidenza il 15 luglio 1978).

[74] Così infatti recitava questo specifico articolo del decreto 367 del 14 luglio 1978: «Con legge da emanarsi entro un anno dall’entrata in vigore del presente decreto […], sarà adottata una disciplina organica che, nel rispetto dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, tuteli adeguatamente gli interessi sociali, economici e professionali degli atleti. Ai fini di cui al comma precedente è costituita, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, una commissione nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e di quello del turismo e dello spettacolo, con la collaborazione del Comitato Olimpico Nazionale (CONI) e delle categorie interessate». http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/304049.pdf.

[75] Nasce una nuova professione lo «sportivo» a tempo pieno, in La Gazzetta dello Sport, 5 marzo 1981; M. Mulinacci, Con questa legge risolti i più pressanti problemi del calcio, ivi; Due anni e mezzo di iniziative parlamentari, ivi.

[76] http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stencomm/02/Leg/Serie010/1981/0204/stenografico.pdf (seduta del 4 febbraio 1981).

[77] Ibidem.

[78] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:Legge:1981-03-23;91.

[79] Conferenza Nazionale dello Sport. Roma 10-13 novembre 1982, Ministero del Turismo e dello Spet­tacolo, Roma, 1984. Si vedano inoltre Sette commissioni per esaminare il problema sport, in l’Unità, 6 marzo 1982; F. de Felici, La Conferenza dello sport è un’occasione da far valere, ivi, 10 marzo 1982.

[80] Conferenza Nazionale dello Sport. Roma 10-13 novembre 1982, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, cit., intervento del Ministro Signorello, p. 30.

[81] Ibidem.

[82] Ibidem.

[83] Dichiarazioni di Franco Carraro raccolte da Mario Pennacchia in La cronaca di un equivoco risolto in poche ore, in La Gazzetta dello Sport, 11 novembre 1982.

[84] Dichiarazioni di Nicola Signorello a Il Processo del Lunedì raccolte da Mario Pennacchia, ivi.

[85] M. Pennacchia, Com’è caduto il nuovo assalto all’autonomia del Coni, in La Gazzetta dello Sport, 12 novembre 1982.

[86] Conferenza Nazionale dello Sport. Roma 10-13 novembre 1982, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, cit., intervento dell’on. Dutto, p. 87.

[87] Ivi, intervento conclusivo di Franco Carraro, p. 143.

[88] http://legislature.camera.it/_dati/leg10/lavori/stampati/pdf/38040001.pdf (seduta del 10 aprile 1989).

[89] E. Landoni, La ginnastica sale in cattedra. L’educazione fisica nell’ordinamento scolastico italiano dall’Unità ad oggi, cit., pp. 154-163.

[90] http://legxiv.camera.it/parlam_/leggi/02178l.htm.

[91] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2004;015.