Rivista di Diritto SportivoISSN 0048-8372 / EISSN 2784-9856
G. Giappichelli Editore

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La nascita dell´industria sportiva in Italia. Una prima periodizzazione (di Eleonora Belloni, Borsista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell'Università di Siena.)


The aim of the research is trying to describe the history of sports industry in Italy, from its origins to the end of the Second World War, considering its relationships both with Italian economic and sports history. The periodization points out three main phases or steps: the beginning of a sports industry, linked to industrial take-off in Italy (1896-1914); the changes determined by the Great War in sports industry (1914-1918); sports industry as an instrument of sports and economic politics of the fascism (1922-1943).

 

 

SOMMARIO:

Premessa. Industria sportiva e storia d’Italia - 1. Il decollo industriale italiano (1896-1914). L’industria sportiva si organizza - 1.2. Prove di guerra - 2. Tra guerra e dopoguerra (1914-1922). L’industria sportiva si mobilita - 3. Da una guerra all’altra (1922-1945). L’industria sportiva si diversifica - 3.2. L’industria sportiva a servizio dello sport spettacolo - 3.3. Verso una nuova mobilitazione - NOTE


Premessa. Industria sportiva e storia d’Italia

Se è vero che lo sport, nella sua accezione più moderna, può essere considerato uno dei prodotti della società industriale, è altrettanto vero che ogni attività sportiva si avvantaggia e a sua volta alimenta un autonomo e fiorente settore industriale che in molti paesi contribuisce con percentuali rilevanti ai livelli di produzione interna. Ciò è vero ovviamente per gli sport più direttamente industriali, cioè legati a doppio filo a un «oggetto» della produzione: si pensi al ciclismo e, soprattutto, all’automobilismo, dove il prodotto industriale finisce per essere spesso l’attore stesso della prestazione sportiva. Ma anche quegli sport che vedono l’atleta (come singolo o in squadra) protagonista assoluto, richiedono nondimeno per il loro esercizio tutta una serie di prodotti manifatturieri che vanno a formare l’equipaggiamento dello sportivo, e che alimentano una produzione spesso all’avanguardia per tecnica e ricerca dei materiali.

Che sia protagonista o gregario, il prodotto industriale rappresenta dunque un elemento costitutivo del più vasto fenomeno sportivo. Un elemento che, come e forse meglio di altri, può aiutarci a comprendere gli intrecci tra fenomeno sportivo e contesti socio-economici in cui questo si svolge.

Quello che qui si tenterà di fare è risalire alle origini del fenomeno industriale-sportivo in Italia, intrecciando tale ricostruzione con le vicende che hanno visto da una parte il formarsi di un modello capitalistico nazionale, dall’altra il consolidarsi del fenomeno sportivo in Italia.

Si tratta di una prima periodizzazione – necessariamente da verificare alla luce di successivi studi su singoli casi aziendali – che individua tre grandi scansioni temporali sovrapponentisi, non a caso, con classiche periodizzazioni socio-economiche della storiografia sull’Italia contemporanea.

La prima fase è quella che, da un punto di vista economico, segna per il nostro paese l’età del decollo industriale, secondo quelle peculiarità ben note e in gran parte riconducibili al suo percorso di late comer dello sviluppo. Sono gli anni che vanno dalla fine del XIX secolo alla vigilia del primo conflitto mondiale, e che da un punto di vista della storia sportiva vedono un primo istituzionalizzarsi del fenomeno sportivo all’interno del paese [1]. A questi sviluppi corrisponde un parallelo emergere di un iniziale nucleo di industria legata allo sport, con tratti caratteristici che fin da subito ne denotavano la stretta connessione con il modello di sviluppo industriale nazionale e insieme con il modello di diffusione del fenomeno sportivo. Da una parte, una forte dipendenza dal mercato estero per alcuni settori legati a sport tipicamente borghesi che stentavano a prendere campo in Italia; dall’altra, uno sviluppo fin da subito molto marcato nel settore meccanico-automobilistico [2]. Negli anni che precedono la prima guerra mondiale potevano già ben identificarsi cinque grandi «filiere produttive» legate ad altrettanti sport: alpinismo, ginnastica, scherma e, soprattutto, ciclismo e sport meccanici (automobilismo, motociclismo, aeronautica) che più di tutti rappresentavano il volto che il capitalismo italiano stava andando assumendo nella sua fase costitutiva. A queste si affiancavano altre produzioni «minori», molte delle quali, tuttavia – si pensi a quelle legate a tennis, sport invernali, pugilato ed embrionali sport di squadra – ancora totalmente dipendenti da un monopolio produttivo estero, soprattutto inglese, ma anche tedesco, e norvegese e svizzero per gli sport invernali [3]. Parallelamente si era sviluppata una sempre più articolata rete di distribuzione commerciale di tali prodotti, costituita da empori e negozi che coprivano l’intero territorio nazionale, sebbene, come nel caso della produzione, fosse il nord a fare da protagonista. Per finire, così come stava accadendo per il mondo imprenditoriale nel suo complesso, anche il settore sportivo conobbe in questa fase i primi fenomeni di associazionismo a difesa dei propri interessi: nel 1897 sorse a Milano l’Associazione Italiana fra Fabbricanti di Armi, nel 1903 nacque a Torino il Sindacato Italiano del Commercio Sportivo e sempre a Torino, in quel 1910 che vide la costituzione della Confederazione Italiana dell’Industria, nasceva la Lega fra Industriali e Grossisti del Ciclismo, seguita dall’Unione Italiana Fabbriche di Automobili (1912).

La seconda fase è quella segnata dal primo conflitto mondiale e dalla difficile riconversione post-bellica, che per l’Italia segnò anche una crisi politico-sociale che a­vrebbe trovato la sua drammatica soluzione nella caduta delle istituzioni liberali e nel­l’avvento del regime fascista. Se, da una parte, la guerra rappresentò l’interruzione di tanti aspetti della «normalità» quotidiana degli italiani, e a maggior ragione delle loro ancora giovani abitudini sportive, dall’altra segnò un momento chiave per lo sviluppo industriale del paese. Da questa logica non sfuggì, ma anzi ne divenne paradigmatica, l’industria sportiva.

Il terzo periodo, infine, è quello attraversato dal lungo ventennio fascista, che approderà alla partecipazione del paese a un nuovo conflitto mondiale. Come vedremo, lo sviluppo dell’industria sportiva conobbe in questi anni vicende alterne e per certi versi contraddittorie. Contraddizioni in gran parte riconducibili alle incertezze della politica sportiva e più in generale della politica culturale di un regime alla costante ricerca di consenso. Così, ad una prima fase dominata dalle automobili sportive a sostegno di uno sport, come l’automobilismo, che per i suoi valori di modernità, di potenza industriale, di coraggio e di audacia incarnava alla perfezione la retorica del regime [4], ne seguì un’altra che vide l’affermazione dell’industria sportiva «leggera» ad accompagnare la crescita di alcuni sport di squadra, primo tra tutti il calcio.


1. Il decollo industriale italiano (1896-1914). L’industria sportiva si organizza

1.1. Lo sport in vetrina

Uno dei fenomeni che più si lega e al contempo meglio rappresenta la nascente società industriale a cavallo tra XIX e XX secolo è quello delle Esposizioni nazionali e internazionali che periodicamente venivano organizzate con lo scopo dichiarato di met­tere in vetrina quello che di meglio la modernità sociale ed economica aveva da offrire agli occhi curiosi e avidi dei visitatori, in una tensione continua e tipicamente positivista verso un progresso che si credeva inarrestabile. Fenomeno rivelatore da tanti punti di vista – da quello architettonico a quello sociale, da quello di costume a quello delle relazioni internazionali – le esposizioni rappresentano soprattutto uno strumento importante di valutazione della fisionomia degli apparati industriali dei paesi coinvolti.

Comunemente si fa risalire all’Esposizione di Londra del 1851 – culmine e assieme inizio della fine del primato industriale britannico – l’inizio ufficiale dell’epoca delle grandi esposizioni, in quella che da allora sarebbe divenuta una gara tra nazioni che giustifica la definizione di «Olimpiadi del lavoro», efficacemente attribuita alle esposizioni da un osservatore dell’epoca [5]. Definizione che bene rende lo spirito di competizione che sottintendeva queste manifestazioni, fino a divenire, come vedremo, quasi prodromo del confronto ben meno pacifico che avrebbe visto schierati gli uni contro gli altri gli apparati industriali delle grandi potenze a sostegno dei rispettivi eserciti nel primo grande conflitto mondiale.

Se è vero che le esposizioni furono di volta in volta specchio importante di ciò che si voleva mostrare ma anche, paradossalmente, di ciò che si voleva nascondere (si pensi alle più o meno esplicite ambizioni coloniali, alle tensioni sociali, alle divisioni interne ai paesi), si comprende la loro importanza come chiave di lettura di un fenomeno, come quello dello strutturarsi di una nascente industria legata al fenomeno sportivo, di cui a lungo si fece fatica a prendere piena coscienza e a cui quindi si tardò a riconoscere completa legittimazione.

Il primo banco di prova importante per l’industria dell’Italia unita fu l’Esposizione di Milano del 1881 [6]. Nell’occasione l’industria sportiva non veniva ancora riconosciuta come categoria a sé stante, ma era solo indirettamente rappresentata all’interno del Gruppo II «Industrie meccaniche» (e si pensi soprattutto all’industria ciclistica) [7] e del Gruppo X «Arte militare e nautica» (in particolare veniva segnalata nel catalogo ufficiale l’esposizione di armi da scherma della ditta Perez di Verona) [8].

Poco cambiava tre anni dopo, all’Esposizione generale italiana di Torino del 1884: non si parlava espressamente di industria sportiva, che era quindi di nuovo rappresentata solo indirettamente all’interno delle sezioni XIX «Meccanica di locomozione e navigazione» e XXIII «Prodotti delle industrie manifatturiere». L’evento torinese ospi­tava tuttavia una Esposizione del Club Alpino Italiano, anch’essa suddivisa in sezioni di cui la prima, «Alpinistica e prodotti industriali relativi all’alpinismo» (21 le aziende presenti), rappresentava una prima importante novità in tema di legittimazione dell’in­dustria legata all’attività sportiva [9].

Nel 1894, a Milano, venne organizzata una manifestazione espositiva dove per la prima volta si decideva di sostituire il modello ormai classico dell’esposizione generale con una serie di esposizioni speciali [10]. Erano passati dieci anni dall’esposizione torinese: un decennio in cui il paese si era indiscutibilmente anche se lentamente avviato sulla strada del suo «decollo industriale». L’evento milanese non mancò di fotografare il cambiamento in atto. Anche per quanto riguardava il settore sportivo. Tra le altre, infatti, le Esposizioni riunite di Milano accolsero una Esposizione dello sport e delle «industrie relative», che vide la partecipazione di oltre 400 espositori [11]. L’Esposizio­ne, riunita in un apposito padiglione, fu animata da tornei di lawn-tennis e di scherma, gioco del pallone, esibizioni di ginnastica, corse podistiche, gare ciclistiche e regate sul lago di Como. Come per le altre esposizioni, anche per quella dello Sport venne nominata una apposita giuria con il compito di assegnare i premi finali. È interessante annotare innanzi tutto le diverse sezioni di cui venne composta la giuria, perché ci danno una fotografia immediata di cosa fosse lo sport in Italia nel 1894: ippica, caccia, tiro a segno, velocipedismo, pattinaggio, canottaggio, ginnastica, scherma, alpinismo, colombofilia, giochi sportivi, piscicoltura. Come si vede, mancano ancora del tutto gli sport di squadra, genericamente inclusi nella categoria «giochi sportivi», mentre compaiono discipline che oggi faremmo fatica a far rientrare nell’ambito sportivo (caccia, colombofilia, pesca). La produzione industriale esposta faceva di conseguenza riferimento alle predette categorie, come mostrano anche le cronache rintracciabili nelle pubblicazioni ufficiali [12]. Come già era accaduto a Torino nel 1884, anche a Milano fu presente una sezione dedicata al Club Alpino Italiano e alla produzione industriale legata all’alpinismo, a proposito della quale, se da una parte veniva riconosciuta la dipendenza dal monopolio tedesco, dall’altra si sottolineava il primato italiano in tema di calzature [13].

Per finire, una intera sezione era riservata all’industria del ciclismo, non a caso nell’anno che proprio a Milano avrebbe visto la nascita del Touring Club Ciclistico Italiano. La città lombarda si sarebbe affermata da quel momento come capitale della bicicletta, con oltre 6.000 velocipedi circolanti nel 1895, oltre 11.000 nel 1899. Fu sempre Milano ad ospitare, nel 1895, l’Esposizione ciclistica internazionale, con 170 espositori tra costruttori e produttori di accessori, di pneumatici e di abbigliamento ciclistico [14]. E sarà la stessa città ad ospitare il primo nucleo importante di industria ciclistica, con nomi destinati a fare la storia della produzione del settore: Prinetti & Stucchi, Atala, Maino, Dei, Frejus, Legnano e, ovviamente, Edoardo Bianchi. Lo stesso percorso di graduale emancipazione dal monopolio estero venne compiuto anche dall’industria dell’indotto, e in particolare da quella degli pneumatici, dove la supremazia della Dunlop iniziò ad essere incalzata dall’affermazione della Pirelli. Non è azzardato sostenere che la bicicletta fu la vera protagonista dell’esposizione sportiva del 1894, ammirata e celebrata da addetti ai lavori e visitatori, così come l’industria ciclistica che ormai poteva vantare bilanci milionari [15]. Interessante che tra i premi da assegnare figurassero alcune medaglie messe a disposizione dalla Camera di commercio milanese espressamente riservate «agli articoli di miglior produzione e di più largo consumo ed esportazione»; previsti anche speciali diplomi di benemerenza per operai e capi-officina «che avranno efficacemente cooperato al miglioramento dei prodotti esposti» [16].

Il cammino dell’industria sportiva nazionale era ormai segnato. L’Esposizione nazionale di Torino del 1898 accolse tra le sue sezioni una espressamente riservata a «Educazione fisica e sport» (Divisione X, a sua volta suddivisa in: Sezione I «Gare e concorsi di educazione fisica», Sezione II «Club Alpino», Sezione III «Caccia e Pesca»), e tra i vari congressi organizzati nei mesi dell’evento ve ne fu uno dedicato al ciclismo. Industrie sportive erano inoltre rappresentate nelle categorie «Macchine di locomozione e nautica» (Divisione V, Sezione III) e «Guerra e marina» (Divisione V, Sezione IV) [17].

Nel 1906, di nuovo a Milano, si tenne l’Esposizione internazionale [18]. La manifestazione accolse una mostra dell’automobilismo e del ciclismo, che a detta degli organizzatori risultò una delle più riuscite dell’intera esposizione, e dove ancora una volta emerse il peso dell’industria sportiva all’interno di due dei settori emergenti dell’in­dustrialismo italiano. La presenza dell’industria sportiva era completata dalla mostra di canotti e da quella di aeronautica (corredata da ben 28 concorsi che si tennero nei mesi dell’esposizione).

La prima, importante, vetrina per l’industria sportiva, come del resto per l’intero apparato industriale nazionale, fu tuttavia rappresentata dall’Esposizione delle industrie e del lavoro che si tenne a Torino nel 1911 nel quadro delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Unità. La presenza dell’industria sportiva ci permette di fissare una «fotografia» del livello raggiunto dal settore alla fine del primo decennio del Novecento.

Nella monografia illustrata curata dal Touring Club Italiano a presentazione del­l’Esposizione bene veniva spiegato il senso dell’evento, che nell’auspicio dei suoi organizzatori doveva fornire «un’idea precisa di tutto il movimento morale e materiale della Nazione nostra, rispecchiando tutti i più vari problemi che interessano la vita nostra». Tra questi, «gli sports che della vita odierna sono così gran parte, venendo fino a quelle manifestazioni che – come l’automobilismo e l’aviazione – ieri ancora erano compresi nel campo sportivo ed oggi ne sono ormai completamente usciti per entrare in quello assai più vasto della vita pratica» [19].

Se, dunque, nelle intenzioni dei suoi stessi organizzatori, l’Esposizione doveva rappresentare una vetrina di ciò che di più meritevole il paese aveva fatto, in tutti i settori, nei suoi primi cinquanta anni unitari, tanto più rilevante appare il fatto che, per la prima volta, l’industria sportiva venisse riconosciuta e legittimata come tale, trovando un suo riconoscimento come settore peculiare al­l’interno del quadro produttivo nazionale.

Alle industrie sportive veniva dedicato un intero padiglione, al Pilonetto, a cui si aggiungeva il Villaggio del Club Alpino Italiano [20].

L’industria sportiva era classificata come «gruppo IX», a sua volta diviso in «Ginnastica, Podismo, Atletismo, Scherma, Giuochi» (classe 55), «Tiro a segno e a volo» (classe 56), «Rowing, Yachting, Nuoto» (classe 57), «Alpinismo» (classe 58), «Ippica in genere, Corse al galoppo, Trotto, Raids» (classe 59), «Automobilismo, Motociclismo, Autoscafi» (classe 60), «Ciclismo, Turismo» (classe 61). Le più rappresentate erano di gran lunga le industrie automobilistiche e motociclistiche: le aziende italiane del settore erano 47 su un totale di 141, e ovviamente erano presenti i nomi più noti della nascente industria meccanica (Alfa, Isotta Fraschini, Fiat, Lancia, Bianchi). Da notare, inoltre, come l’Italia quasi da sola esaurisse il settore alpinistico (10 imprese su 13 totali). In totale, le industrie sportive italiane presenti all’Esposizione furono 111: una cifra che, partendo dal presupposto di una presenza importante ma non totalizzante dell’industria italiana a Torino (si può pensare che molte industrie, soprattutto lontane dal capoluogo piemontese, avessero rinunciato a partecipare), già ci dà un’idea importante della consistenza raggiunta dal settore. La provenienza geografica rispecchiava il triangolo industriale, con una prevalenza di imprese piemontesi (soprattutto torinesi), lombarde e (sebbene in misura minore) liguri, che diveniva praticamente assoluta nel caso di industrie ciclistiche, automobilistiche e motociclistiche.

L’Esposizione di Torino fu una grande festa; e lo sport vi contribuì, mettendo in vetrina i progressi fatti dalla nazione, anche in questo campo, nei suoi primi cinquant’anni di vita unitaria. Per il momento lo sport era ancora il volto pacifico attraverso cui gli Stati nazionali scelsero di rappresentare se stessi e la lotta tra le nazioni. Ma per quanto ancora sarebbe stato così? Nuvole dense di avvenimenti nefasti incominciavano ad addensarsi all’orizzonte. La grande festa dello sport celebrata a Torino avrebbe ben presto lasciato il posto alla carneficina consumatasi sui campi di battaglia di tutta Europa, celebrazione tragica di quel militarismo così strettamente legato alle origini della pratica sportiva [21].


1.2. Prove di guerra

Non è un caso che nei mesi successivi le cronache sportive iniziassero a riempirsi di termini che ben poco avevano a che vedere con lo sport, ma che invece bene riflettevano le cronache politico-militari che in quegli stessi mesi celebravano la campagna italiana in Libia.

L’industria sportiva titolava significativamente La fine del letargo un editoriale del marzo 1912 con cui si compiaceva del risveglio dell’industria sportiva italiana dopo la fase di arresto accusata nei mesi precedenti. I toni e i temi dell’articolo non erano tuttavia molto diversi da quelli che, negli stessi mesi, stavano occupando le cronache della stampa nazionale a celebrazione delle imprese italiane in Libia. «Vittoria», «lotta», «potenza» erano i termini più ricorrenti [22].

La campagna di Libia, in effetti, rappresentò un primo banco di prova importante per l’apparato produttivo italiano, e per la stessa industria sportiva. Le operazioni belliche videro, tra l’altro, per la prima volta all’opera l’aviazione militare italiana. L’in­dustria ciclistica e sportiva non mancava di sottolineare come un’applicazione tipicamente sportiva potesse portare «ai più grandi ed insperati benefici e divenire parte integrale dei futuri ordinamenti cui faccia capo la difesa del paese» [23].

Negli stessi mesi, in seguito a una gara pubblica indetta dal Ministero della guerra, la ditta Edoardo Bianchi diveniva la fornitrice ufficiale di biciclette per l’esercito italiano. Si trattava di una fornitura di oltre 12.000 velocipedi ripiegabili, montanti – lo si precisava con orgoglio nazionalistico – gomme Pirelli [24], destinati inizialmente alle compagnie ciclistiche addette ai reggimenti bersaglieri, poi ai battaglioni ciclisti che vennero istituiti proprio in quei mesi [25]. La lotta nelle officine per l’accaparramento dell’importante commessa «non fu meno aspra di quella combattuta nelle strade d’Ita­lia fra i corridori delle varie fabbriche» [26]. Anche perché si trattava di una commessa del valore di circa mezzo milione di lire: una cifra notevole, che contribuì senza dubbio allo sviluppo dell’azienda, in un momento tra l’altro in cui la ditta stava accusando una fase di recessione [27].

A sancire il risveglio celebrato da L’industria sportiva, nel settembre del 1912 veniva organizzata a Bologna, su iniziativa dell’Accademia del pedale volante, una Mostra internazionale delle industrie sportive, quasi a voler stilare un bilancio di «tutto ciò che le industrie hanno fin qui prodotto a sviluppo e perfezionamento di ogni ramo dello sport» [28]. Due gli aspetti interessanti che emergevano. Il primo: l’Accademia del pedale volante (Istituto nazionale pro educazione fisica) si configurava come un’istitu­zione votata a fini prettamente educativi; ed è interessante che fosse un’istituzione di questo tipo, e non un’organizzazione di carattere economico, a promuovere un evento destinato a mettere in mostra i risultati della produzione nazionale in ambito sportivo, cogliendo un non scontato parallelo tra i successi di tale produzione e i risvolti che ciò poteva avere «per un maggior sviluppo della educazione fisica delle nuove generazioni» [29]. Il secondo aspetto è quello relativo alle aziende rappresentate alla mostra. Scorrendo l’elenco delle 15 categorie ammesse, e ignorando il contesto di riferimento, si farebbe fatica a capire se si tratti di una esposizione di industrie sportive o non piuttosto di una mostra di industrie belliche. Si andava infatti dall’industria automobilistica e motociclistica, a quella della bicicletta (specificando che vi erano compresi anche i modelli militari) e dei camion (anche qui si specificava «per trasporti o servizi di guerra»); per poi passare alle più «belliche» industria dell’aviazione, delle armi e perfino delle munizioni!

C’era insomma nell’aria, come avrebbe scritto nel luglio del 1914 Mario Morasso sulla rivista Motori cicli e sports, «una strana tensione guerresca» [30], che bene si avvertiva nelle cronache sportive. Ecco come avrebbe raccontato, qualche mese più avanti, quelle sensazioni provate al GranPrix di Lione:

Era un convegno festivo, erano parchi sterminati di automobili, folle innumerevoli di spettatori, ghirlande di vessilli, grida gioconde, magnifici impeti di velocità. Era un gioco bello e grandioso che tutti seguivano con l’anima palpitante. Ma io vedeva tutt’altra cosa con gli occhi sbarrati e l’animo sgomento. Gli automobili mi apparivano come artiglierie, gli spettatori chiassosi come eserciti urlanti in procinto di azzuffarsi, i vessilli come le bandiere dei combattenti, i concorrenti come avanguardie già impegnate in un’azione mortale. Non era una corsa automobilistica quella, no era la sfida, era il primo scontro, la battaglia [31].

Era come se, attraverso lo sport, le nazioni stessero facendo le prove generali della guerra imminente, e attraverso l’industria sportiva stessero testando e mostrando ai contendenti le forze che sarebbero state in grado di mettere in campo, in una prova di potenza che andava ben al di là del fatto sportivo in sé. «Non vi sembra [continuava ancora Morasso nell’imminenza dell’inizio delle operazioni militari] che queste vittorie sportive abbiano un singolare odore di polvere e che la loro cronaca rassomigli a un bollettino di guerra?» [32]. «Non mai lo sport [concludeva] è stato più vicino e più simile alla guerra» [33].


2. Tra guerra e dopoguerra (1914-1922). L’industria sportiva si mobilita

Queste, dunque, le premesse con cui l’industria sportiva si presentava all’appun­tamento con la mobilitazione bellica. Come per l’apparato produttivo nel suo complesso, anche per l’industria sportiva la guerra si sarebbe rivelata un momento di svolta fondamentale, almeno sotto due punti di vista. Da una parte, le commesse statali rappresentarono per molte imprese, pur costrette a sacrifici di conversione a una produzione bellica spesso molto distante da quella tradizionale, un impulso all’intensifica­zione della produzione e alla sua razionalizzazione (oltre che, ovviamente, un’occa­sione per realizzare ingenti profitti) che si sarebbe tradotto, nel dopoguerra, in una crescita sia dimensionale che qualitativa. Dall’altra, guardando proprio all’aspetto qualitativo, la guerra rappresentò anche la spinta a una svolta tecnologica.

Era ancora una volta la rivista Motori cicli e sports a spiegare bene il ruolo che la guerra avrebbe ricoperto nelle vicende dell’industria sportiva. Se per il momento non si potevano annoverare – e non avrebbe potuto essere altrimenti – importanti novità nei modelli da turismo o sportivi, la guerra però aveva messo in moto una propulsione innovativa i cui risultati, anche in termini sportivi, si sarebbero visti nel dopoguerra. «È tutta una novità palpitante la nostra bella e gagliarda industria! Essa non è mai stata come ora in un periodo di rinnovazione, di espansione, di audace progresso». La guerra aveva improvvisamente spazzato via timori, esitazioni, imbarazzi, introducendo miglioramenti e innovazioni che prima avrebbero richiesto anni di lunghi studi, ponderate riflessioni, arditi calcoli, «fra tanti inceppi, dubbiezze e timidità» [34].

Ovviamente è impossibile verificare questi assunti per ogni azienda interessata. Ma si possono tentare alcune semplificazioni.

Quando si parla di sport e industria in età liberale, il primo pensiero va, come abbiamo visto, all’industria ciclistica. Industria sportiva per eccellenza, il conflitto segnò per questo ramo industriale un momento di svolta, con la definitiva affermazione della ditta Edoardo Bianchi, indotta dal conflitto a una riconversione industriale a scopo militare capace di garantire all’impresa un salto di qualità sia a livello di produzione che di profitti. Un’evoluzione tecnica che, alla fine della guerra, non sarebbe rimasta fine a se stessa ma sarebbe stata riconvertita in industria di pace, e in industria sportiva di pace. Come già era avvenuto nella guerra di Libia, anche durante la Grande Guerra la bicicletta andò in dotazione a diversi corpi militari [35]. Nel 1916 la Bianchi produsse oltre 40.000 cicli e oltre 1.500 motociclette [36]. La necessità di produzione bellica e i profitti garantiti dalla mobilitazione industriale permisero un ampliamento degli stabilimenti e un potenziamento produttivo che difficilmente sarebbero stati pensabili al di fuori della contingenza bellica. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che la guerra significò la generale interruzione delle relazioni commerciali prebelliche, che per l’Italia fu soprattutto interruzione dei rapporti commerciali con uno dei principali paesi importatori, anche dal punto di vista dell’industria sportiva: la Germania. Ebbene, proprio dal mercato tedesco arrivavano nell’anteguerra gran parte delle forniture di parti staccabili per biciclette, settore nel quale l’Italia aveva continuato a mantenere una forte dipendenza dall’estero, pur essendosi ormai emancipata nel mercato del prodotto finito [37]. È ovvio che l’interruzione delle relazioni commerciali determinò una spinta mai prima sperimentata a produrre all’interno gran parte di quelle componenti precedentemente importate, con effetti rilevanti in termini di trasformazioni produttive, qualitative e quantitative, anche in questi settori industriali legati alla produzione ciclistica.

Simile fu la vicenda del settore automobilistico. Nel 1912 in Italia il settore automobilistico era al quinto posto fra le industrie esportatrici, impiegava 30.000 operai e un capitale superiore ai 100 milioni. Alla vigilia della guerra le esportazioni raggiunsero il 45 per cento della produzione totale, colmando almeno in parte i problemi derivanti dalla ristrettezza del mercato interno. Ma, anche in questo caso, fu la guerra a segnare il salto di qualità: superata la difficile congiuntura del 1919, dal 1920 si assisté a una ripresa delle esportazioni, che nel 1922 arrivarono a segnare il 69 per cento dell’intera produzione automobilistica. È indubbio che la Grande Guerra abbia rappresentato un eccezionale volano di sviluppo per l’industria automobilistica italiana: le unità in circolazione, circa 20.000 nel 1914, divennero 80.000 nel 1918; le imprese, 32 nel 1913, erano 53 nel 1917 [38]. Emblematica in tal senso la vicenda dell’Alfa Romeo.

L’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili era nata a Milano nel 1910 in sostituzione della Società anonima italiana Darracq, creata quattro anni prima, nel 1906, su iniziativa di un gruppo di imprenditori in gran parte di origine napoletana, ma con sede a Milano, zona Portello. L’Alfa si caratterizzò fin dall’inizio per l’accento posto sulle vetture sportive, anche per cercare di conquistarsi un mercato ancora in parte lasciato libero dalla forte concorrenza che invece già aveva invaso altri settori. Mentre dunque la Fiat di Giovanni Agnelli intraprendeva la strada dell’industrializzazione di massa, l’Alfa puntava sulle vittorie sportive [39].

L’avventura dell’Alfa nel mondo dello sport risaliva al 1913: in quell’anno era iniziata infatti la costruzione del modello Gran Prix, con il quale per la prima volta la casa automobilistica avrebbe dovuto partecipare a una corsa internazionale. Questo nonostante il fatto che nel 1912 le maggiori industrie automobilistiche italiane avessero raggiunto un accordo con cui si impegnavano a non partecipare a competizioni sportive, almeno in Italia; impegno che, sulla carta, venne ribadito anche nel 1914 [40]. Decisione maturata dalla convinzione che le corse, sebbene rappresentassero uno strumento di miglioramento tecnico o di vendita, finivano spesso per gravare in modo eccessivo sul bilancio e per distorcere l’uso delle risorse interne [41].

Lo scoppio della guerra arrestò tuttavia la costruzione del nuovo modello sportivo Alfa, e fece entrare la casa automobilistica milanese in una crisi gravissima, portandola sull’orlo del fallimento. Alla vigilia del conflitto, nel 1914, gli utili registrati continuavano a viaggiare su livelli molto bassi. Anche per questo motivo il caso dell’Alfa ci aiuta a cogliere, molto meglio di altri, il ruolo avuto dalla mobilitazione nel decidere delle sorti aziendali dell’impresa automobilistica. Nessuno immaginava, in quel difficile inverno del 1914, che proprio la guerra avrebbe impresso all’Alfa quella svolta che nel dopoguerra le avrebbe permesso di dominare i circuiti automobilistici internazionali.

Nell’estate del 1915 la quasi totalità delle azioni veniva ceduta alla Banca italiana di sconto, e la direzione dell’Alfa venne affidata all’ingegnere napoletano Nicola Romeo, che nel dicembre assorbì ufficialmente la casa automobilistica. Nel frattempo, nel luglio, Romeo aveva firmato con il Ministero della guerra due contratti per la fornitura di granate e munizioni: una commessa da 23 milioni di lire, a cui se ne sarebbero aggiunte altre ugualmente cospicue, e soprattutto coperte da ingenti prefinanziamenti.

L’Alfa, appena unita alla Romeo, dovette quindi mettere in atto un grandissimo sforzo produttivo, dando vita a un caso estremo di diversificazione che comportò una riconversione totale della produzione (proiettili e gruppi perforatori), ma anche l’acqui­sto di nuovi macchinari e di nuovi terreni, nonché il reclutamento massiccio di forza lavoro. In tal senso, l’Alfa Romeo interpreta appieno, pur portate all’estremo, alcune caratteristiche che resero la mobilitazione italiana un caso in un certo senso peculiare nel quadro internazionale. Volendo semplificare, si può dire che la mobilitazione italiana fu segnata da una accentuata «confusione», derivante da una serie di ragioni intrinseche, non ultima quella di poter godere degli esoneri e dei privilegi riservati a chi produceva materiale bellico, e che spesso spiega la grande disponibilità alla riconversione produttiva [42]. Tra il 1916 e il 1918, in totale, alla Romeo vennero commissionati 2.536 gruppi perforatori per un importo di 54.869.689 lire, garantendo alla ditta «guadagni favolosi». A ciò andava aggiunto il fatturato derivante dalla produzione di proiettili, stimato intorno agli 80 milioni di lire [43]. Con la fine del 1917 e coi i primi mesi del 1918 iniziava poi la produzione di motori di aviazione e di trattori; si trattava con tutta evidenza di una prima trasformazione in vista della riconversione postbellica. I nuovi settori di produzione portavano altre commesse (circa 8 milioni solo per i motori per aviazione). Il capitale sociale passava dal 1.825.000 del dicembre 1915, al momento della fusione tra Alfa e Romeo, ai 10 milioni del 1917, ai 30 milioni del febbraio 1918, quando la ditta veniva trasformata in società per azioni, ai 50 del luglio 1918 [44].

Nell’immediato dopoguerra le attività produttive vennero concentrate negli stabilimenti della zona Portello. Con l’estate del 1919 veniva ripresa la produzione automobilistica [45] e, con questa, riprendeva anche la partecipazione alle corse, a partire dalla Parma-Poggio Berceto dell’ottobre 1919, con personaggi come Antonio Ascari, Ugo Sivocci, Giuseppe Campari, Giulio Masetti e poi Enzo Ferrari. Fortemente provata dall’occupazione delle fabbriche del 1920 e colpita da gravi problemi di liquidità, l’impresa milanese decise ancora una volta di puntare tutto sull’attività motoristica. Nel 1922 la RL vinse la Targa Florio con Sivocci, il Circuito di Cremona con Ascari, la Coppa della Consuma con Masetti, il Circuito del Savio con Ferrari [46].

Per certi aspetti simile a quello dell’Alfa, ma con risvolti peculiari, il caso della Lancia. La Lancia e C. era nata nel 1906 per iniziativa di Vincenzo Lancia (dapprima collaudatore della Fiat, poi pilota della squadra corse, dove continuerà a correre anche dopo la fondazione della Lancia, dietro pagamento di un cospicuo compenso che lo aiuterà ad aprire la ditta) e Claudio Fogolin.

Gli utili della Lancia, che ammontavano a 700.000 lire nel 1911, salirono l’anno successivo per poi scendere a 467.000 lire nel 1913 e risalire a 766.530 lire nel 1914 [47]. Nel novembre del 1915 la Lancia venne dichiarata stabilimento «ausiliario». Avvantaggiandosi delle cospicue commesse statali che tale status le garantiva, durante la guerra arrivò a produrre 3.000 autocarri e autovetture, sui complessivi 80.300 veicoli prodotti dall’industria automobilistica (56.000 solo dalla Fiat). A tale produzione affiancò inoltre quella di motori per aereo, sebbene con scarsi risultati. Come avvenne per altre industrie, le sperimentazioni tecniche del periodo bellico ebbero una ricaduta importante nel dopoguerra: in questo caso, ad esempio, i miglioramenti tecnici renderanno possibile la costruzione del motore a V che sostituirà il sistema «in linea». Sebbene al termine del conflitto gli stabilimenti della Lancia non risultassero molto ampliati rispetto al 1915, gli utili reali registrati per gli anni 1915-17 erano stati rispettivamente di 1.412.000, 986.999, 3.405.000 [48].

Il caso della Lancia, così come quello dell’Alfa Romeo e di tante altre imprese automobilistiche italiane, più o meno grandi, che presero parte alla mobilitazione industriale conferma l’idea della congiuntura bellica come momento non solo di crescita dimensionale, ma spesso anche di innovazione tecnica. Il dopoguerra vide infatti gran­di progressi nella tecnica applicata all’industria automobilistica, proprio grazie alla guerra che aveva fatto progredire sensibilmente la metallurgia e gli studi sui motori leggeri e veloci destinati ai veicoli militari e all’aviazione. Tra le innovazioni, alberi a camme in testa, freni anteriori, carrozzerie più affusolate e aerodinamiche. Fu su queste basi che si sarebbe imposto il predominio italiano nelle corse automobilistiche degli anni Venti e Trenta, quel primato che la rivista Motori cicli e sports aveva già con entusiasmo pronosticato alla fine del primo anno di guerra [49]. Conclusione di fatto condivisa anche da L’industria sportiva, che già all’inizio del 1916 si era spinta a tracciare una sorta di bilancio degli effetti che la guerra aveva determinato sul sistema produttivo italiano, addirittura contribuendo al compimento del processo di formazione nazionale: «potremo dire che fatta l’Italia e gli Italiani, avremo fatta anche l’indu­stria ed i commerci italiani» [50]. Con particolare riguardo all’industria sportiva veniva sottolineata la straordinaria capacità di risposta alla mobilitazione dimostrata dall’in­dustria automobilistica e da quella aeronautica [51].

I problemi di riconversione alla produzione di pace, che segnarono il destino di gran parte dei settori industriali nel dopoguerra, colpirono certamente anche le aziende legate all’industria sportiva, che come abbiamo visto erano in molti casi prosperate proprio nella particolare congiuntura della mobilitazione bellica. L’esperienza della guerra, tuttavia, non sarebbe andata perduta. Come scriveva L’industria sportiva e del motore in un editoriale del gennaio 1922 tracciando il bilancio della III Esposizione internazionale di motociclismo che si era tenuta a Milano nel dicembre precedente, l’I­talia poteva ormai vantare nel settore dell’industria ciclistica un’emancipazione pressoché totale dalla dipendenza estera [52]. Ma lo stesso poteva dirsi, alla vigilia dell’a­scesa del fascismo, di gran parte dei settori «meccanici» dell’industria sportiva: non solo ciclismo, dunque, ma anche motociclismo (con Guzzi, Gilera e Frera in testa), automobilismo e persino aeronautica.

Il quinquennio 1914-1918 aveva contribuito a consolidare anche in Italia un primo importante nucleo di industria sportiva, concentrata, come abbiamo visto, nei settori della meccanica, e geograficamente collocabile nel triangolo industriale. Uno sviluppo, insomma, che rispecchiava fedelmente il modello dell’industrialismo italiano nella fase del take off.


3. Da una guerra all’altra (1922-1945). L’industria sportiva si diversifica

3.1. Gli anni Venti e il dominio dell’automobile

C’è un episodio che suggerisce anche simbolicamente la misura del peso che il fascismo avrà sulle sorti dell’industria sportiva. Nel 1923 un’Alfa Romeo di nuovo in grave crisi di liquidità e praticamente sull’orlo del fallimento venne salvata attraverso quello che può essere definito un capolavoro di azione diplomatica, di intuizione economica e di audacia politica. Protagonisti: Aldo Finzi, Ugo Ojetti e naturalmente Benito Mussolini. Aldo Finzi, esponente di rilievo del primo fascismo, sottosegretario agli interni e personaggio molto vicino a Mussolini, era anche «uomo di sport»: presidente del CONI dal 1923 al 1925, corridore di moto e appassionato di motori, fu un estimatore delle automobili Alfa Romeo, di cui possedeva un bellissimo esemplare. Ugo Ojetti, scrittore e giornalista di simpatie socialiste in gioventù e poi liberale vicino a Luigi Albertini, era in quegli anni (fino al 1925) presidente della casa automobilistica [53]. Fu lui a scrivere a Finzi perché lo mettesse in contatto con Mussolini, per rappresentargli le difficoltà che stava attraversando l’Alfa Romeo. E il duce si mostrò straordinariamente sensibile alle richieste del presidente, agevolando un’operazione finanziaria che permise il salvataggio dell’Alfa attraverso l’intervento della Banca nazionale di credito, che divenne anche la maggiore azionista [54]. Gli anni che seguirono furono decisivi nell’affermazione del «mito» Alfa: sotto la guida di Vittorio Jano, a capo dell’ufficio progettazione dal 1926 al 1937 in quella che era stata la posizione di Giuseppe Merosi, l’Alfa Romeo si affermò in pochi anni come protagonista pressoché assoluta nelle competizioni internazionali, portando il nome italiano in giro per il mondo e avvalorando definitivamente l’immagine dell’Alfa come casa automobilistica sportiva italiana. Grazie anche alla decisione di Agnelli di abbandonare le corse, l’Alfa Romeo divenne per un periodo l’unica rappresentante italiana nel settore agonistico, alimentando un vero e proprio «mito», sia a livello nazionale che – a partire dalla partecipazione al GP d’Europa di Lione del 1924 – a livello internazionale. Grazie ai successi sportivi, l’Alfa sarebbe divenuta in un certo senso l’automobile «ufficiale» di un regime che voleva presentarsi al mondo come moderno, vincente e imbattibile: un po’ come avvenne per le imprese calcistiche, Mussolini identificò i successi della casa automobilistica milanese con i successi del fascismo, parlando dell’Alfa come del «miglior prodotto nazionale» e sostituendo egli stesso con un’Alfa la Fiat utilizzata in precedenza [55].

Il binomio automobile-sport dominò dunque tutti gli anni Venti, in una fase di generale espansione dell’industria automobilistica italiana che segnò, per alcune case produttrici, una fase aurea di sviluppo [56]. Quelli che vanno dal 1922 al 1939 furono anni di crescita per il settore automobilistico italiano nel suo complesso: si passò dai 16.340 veicoli prodotti nel 1922 ai 77.708 nel 1937, poi scesi a 70.000 nel 1939. Le auto in circolazione passarono dalle 65.484 del 1922 alle 291.463 del 1939 [57]. Numeri bel lontani dal lasciar presupporre quella motorizzazione di massa che pure il regime cercò in ogni modo di inserire nel suo cartellone propagandistico – e che invece si realizzerà solo con il boom economico di fine anni Cinquanta – ma che danno sicuramente la misura di una crescita importante in un settore che aveva e avrà un peso non secondario nel quadro dello sviluppo dell’industria sportiva italiana.

L’automobile prodotto dell’industria sportiva per eccellenza, dunque, ancor più della bicicletta, che pure proseguì la sua ascesa senza soluzioni di continuità (quasi quattro milioni di biciclette registrate nel 1935, contro circa 243.000 auto), e sulla scia delle innovazioni favorite dalla congiuntura bellica continuò anch’essa a dominare le competizioni: ciclisti italiani su biciclette italiane si imposero a livello internazionale, riuscendo a collezionare quattro titoli mondiali tra il 1927 e il 1933, con Binda e Guerra. Ma il ciclismo pagò in qualche modo la sua tradizione di sport «popolare», simbolo di quell’Italia liberale che il fascismo voleva relegare nel passato della storia del paese.

Il Gran Premio d’Europa che si disputò a Monza nel settembre del 1923, oltre a celebrare la vittoria italiana grazie alle vetture Fiat (l’Alfa si ritirò in seguito alla morte del pilota Sivocci), sancì anche il definitivo passaggio dell’automobilismo da sport di élite a fenomeno sportivo di massa, capace di appassionare e di mobilitare gli appassionati del motore così come gli operai delle fabbriche produttrici: 200.000 spettatori affollarono un autodromo trionfante di entusiasmo e di tensione agonistica. Il successo si ripeteva l’anno successivo, che sancì a Monza il crollo «sportivo» della Fiat e l’i­nizio dell’ascesa Alfa Romeo, con quattro vetture piazzate nei primi quattro posti [58].

Ancora alla fine degli anni Venti gli sport meccanici dominavano le pagine de Lo sport fascista [59], organo «ufficiale» della politica sportiva del regime, assieme a scherma, pugilato, calcio, rugby e alpinismo.

Gradualmente, tuttavia, alcuni elementi iniziarono a minacciare il primato automobilistico all’interno della politica sportiva del regime. In parte riconducibili a quella che sarà poi la politica autarchica del regime e che, in alcuni suoi aspetti – basti pensare alla campagna a favore del risparmio delle fonti energetiche – prese avvio ben prima della svolta di metà anni Trenta. Una campagna che ovviamente toccava da vicino un settore come quello automobilistico, ancor più nella sua declinazione sportiva, dove competitività e ricerca del primato mal si conciliavano con risparmio e ricerca di surrogati energetici [60].

Altri motivi possono essere rintracciati nella politica automobilistica del regime a favore dell’affermazione – poi come si sa mai del tutto realizzatasi – di una motorizzazione di massa che andasse a rispondere alle esigenze della classe medio-borghese: e dunque, predilezione per l’automobile di serie, l’«utilitaria», a danno della fuoriserie e del «mito della velocità» [61]. Perché, come aveva intuito un editoriale de L’Industria Sportiva e del Motore cogliendo un aspetto che al regime stesso non fu mai del tutto evidente,

L’automobile in Italia non può essere inserito in pro dello sviluppo industriale perché il suo costo e il suo uso richiedono una dispersione di quella ricchezza accumulata quotidianamente col lavoro. Per superare questa situazione poco valgono nel nostro paese le grandi prove automobilistiche di velocità. Esse creano sì fra la gioventù sportiva quell’atmosfera di entusiasmo che la spinge a partecipare ad interessarsi delle macchine e dei loro piloti, ma tutto ciò rappresenta un fenomeno puramente spirituale privo di ogni elemento di una qualsiasi aspirazione pratica [62].

Non è un caso che anche negli articoli dedicati agli sport meccanici o ai saloni automobilistici, l’attenzione fosse concentrata sulle industrie che più puntavano sull’u­tilitaria o sui veicoli industriali (Bianchi, Ansaldo) piuttosto che sull’Alfa Romeo, che mostrava di voler rimanere coerente alla sua scelta sportiva.

Il 1930 segnò in tal senso un vero e proprio anno di svolta. E non a caso, se si pensa che stavano proprio allora giungendo in Europa le prime conseguenze della crisi che aveva investito gli Stati Uniti l’anno precedente, e che in Italia, come altrove, rappresentò anche l’occasione di una prima stretta autarchica, attraverso una retorica del «risparmio» e del «sacrificio» che non tardò a investire anche la politica automobilistica [63]. Tracciando un bilancio delle vicende dell’automobilismo sportivo in Italia Lo sport fascista, se da una parte riconosceva il ruolo avuto a inizio secolo dalle competizioni sportive – e dalle vittorie – nel favorire il progresso dell’automobilismo e del­l’industria del motore, dall’altra non mancava di sottolineare la nuova funzione «sociale» di «veicolo utilitario» attribuita all’automobile dal regime. La svolta era ben rappresentata dall’intensificarsi di una campagna di stampa a favore dell’automobili­smo «turistico» o «di regolarità» a danno del mito della velocità [64]. Quello che da taluni veniva denunciato come un abbandono dello sport da parte dell’industria automobilistica [65] appariva dunque piuttosto come la naturale conseguenza della politica economica di un regime che aveva finito per trovare molto più funzionali alla sua propagandata «popolarizzazione» dell’automobile le esposizioni industriali piuttosto che le gare sportive [66].


3.2. L’industria sportiva a servizio dello sport spettacolo

L’esaltazione del primato italiano negli sport meccanici – primato sportivo e industriale insieme – in occasione del Decennale [67] ne sanciva insieme anche l’inizio della crisi nel quadro della politica sportiva del regime.

Nel 1933, per la prima volta, all’interno della XIV Fiera di Milano trovava posto la Mostra dello sport. Fino a quel momento col nome di Padiglione dello sport era stato indicato il Salone automobilistico che ogni anno occupava una parte della Fiera di Milano [68]. Un semplice cambio di denominazione? Non esattamente. Si trattava piuttosto di un passaggio sostanziale, colto anche dagli addetti ai lavori. Se, infatti, fino a quel momento la mostra aveva accolto solamente ciò che aveva per scopo «la valorizzazione dei congegni e delle macchine», il nuovo padiglione voleva invece espressamente valorizzare «tutto quanto ha attinenza con le altre branche dello sport che non richiedono l’ausilio del motore a scoppio». Un’«adunata di cose», come la definiva Lo sport fascista, e non più solo di macchine [69]. Era la stessa rivista a dedicare poi alla mostra un intero e dettagliato articolo il mese successivo, sottolineando il salto di qualità avvenuto [70]:

… biciclette, motociclette, automobili, motoscafi, velivoli, e i loro infiniti accessori non costituiscono la totalità della produzione sportiva […] Quante maglie verranno annualmente consumate da sciatori, escursionisti, alpinisti, calciatori, atleti, ginnasti e, in genere, da tutti gli sportivi militanti che, in parte più o meno grande, devono coprire, durante l’eserci­zio dello sport, il loro corpo? Quante scarpe speciali da montagna, da tennis, da giuoco del calcio? Pur limitandoci all’equipaggiamento individuale, ecco lo sport come fonte di attività varia e grandissima per i produttori. Questi, poi, vedono nuovi orizzonti loro aprirsi per il fatto che l’irrompere sempre più franco della donna nell’arringo sportivo prepara una clientela particolarmente raffinata ed esigente cui non bastano gli indumenti o le calzature preparati in serie … Ma l’abito sportivo non è tutto; si devono produrre anche gli oggetti che servono alla pratica dei vari sport ... [71].

Queste poche righe coglievano e sintetizzavano la svolta produttiva in atto, ma soprattutto svelavano il ruolo attivo e consapevole avuto dal regime nell’indirizzare tale svolta.

Particolare attenzione veniva riservata a quegli sport di élite (golf, tennis, sci, ippica), in cui l’Italia aveva accumulato un evidente ritardo, nella pratica e quindi anche nella produzione in relazione all’oggettistica, affidandosi per quest’ultima pressoché totalmente a ditte straniere. Relativamente a tali sport, la sfida che attendeva i produttori nazionali era duplice: realizzare prodotti di qualità e superare il «misoneismo» di alcuni consumatori, che era come dire la fidelizzazione che alcune case produttrici straniere erano riuscite a realizzare in Italia. È ovvio come dietro alle formule neutre fosse neppure troppo velatamente nascosto l’intento autarchico di un regime che, qui come altrove, stava cercando «di svincolarsi dalla servitù commerciale d’oltre frontiera» [72], in una battaglia per l’autosufficienza produttiva ancora legata più a motivi propagandistici che strettamente contingenti.

Il fascismo, insomma, aveva lanciato la propria sfida all’industria delle «cose», in un quadro di nazionalismo sempre più esasperato dove vittorie sportive e vittorie economiche dovevano procedere di pari passo nel fare dello sport uno degli specchi di un regime che voleva presentarsi, all’interno e all’estero, forte e vincente.

Non vi era tuttavia solo il crescente nazionalismo autarchico alla base del sostegno del regime all’industria sportiva «leggera» e dell’esaltazione di quegli oggetti e di quegli indumenti «segnati dalla sigla inimitabile del buon gusto e dello spirito pratico della razza» [73]. L’evoluzione che conobbe l’industria sportiva negli anni Trenta accompagnava e insieme si poneva al servizio della svolta attuata dal regime in tema di politica sportiva. Una svolta che, dopo una prima fase, non priva di contraddizioni, segnata da una convivenza tra sostegno allo sport per tutti e sviluppo dello sport spettacolo, vide a inizio anni Trenta il regime attuare una scelta più marcata a favore dello sport spettacolo come strumento della più vasta politica di ricerca del consenso [74]. Una tensione mai del tutto risolta – quella tra sport per tutti e sport spettacolo – che del resto rispecchiava altre tensioni interne a un regime che stentava a definire un proprio e unico modello ideologico-culturale. Esemplificative di tutte queste tensioni ma anche della svolta degli anni Trenta furono le vicende legate al calcio. Ovviamente la rapidità e la misura con cui il calcio si diffuse negli anni Trenta non rappresenta un fenomeno prettamente italiano. È indubbio tuttavia che la consapevole appropriazione del calcio da parte del fascismo a partire dalla Carta di Viareggio del 1926 ebbe un ruolo fondamentale nel dare nuovo impulso alla sua diffusione in Italia. Il calcio divenne ben presto la vetrina privilegiata per esporre tutto ciò che di meglio il fascismo intendeva mostrare al mondo [75], e insieme il compromesso perfetto tra le posizioni «integraliste» e quelle «ricreative» all’interno della politica sportiva del regime [76].

Ecco allora che, all’interno della logica di uno sport-spettacolo [77] che si prestava agli scopi propagandistici del regime – sport come «strumento di governo» [78], dunque – l’industria sportiva diveniva strumento privilegiato di questa dinamica, fornendo gli strumenti attraverso i quali lo sport sarebbe riuscito a portare il nome dell’Italia in giro per il mondo.

Le vecchie e gloriose società sportive, bandiere viventi dei pionieri dell’idea; le fresche falangi giovanili delle camicie nere, dal balilla, all’avanguardista, al milite; le formazioni del dopolavoro; la nuova aristocrazia che si forgia non più soltanto nelle aule severe ma anche negli stadi degli atenei; e, più in là, officine sonanti di motori, vibranti di ali: ecco tutto un esercito in marcia, una gente che si rinnova nei corpi, negli spiriti, nelle armi, una stirpe che, al cenno ispirato del Capo, ritrova, dopo tanto smarrirsi, le vie della potenza e della gloria [79].

La mostra dello Sport chiarì la misura del cambiamento in atto. Dal catalogo ufficiale [80] risultavano le seguenti categorie legate all’industria sportiva, così rappresentate da imprese italiane: abbigliamento sportivo (5 imprese) [81]; armi (9 imprese); articoli per football (1 impresa); articoli sportivi (38 imprese); attacchi per sci (2 imprese); attrezzi ginnastici (4 imprese); bocce da gioco (1 impresa); articoli per boxe (2 imprese); calzature sportive (7 imprese); carabine (5 imprese); fucili (9 imprese); articoli per golf (1 impresa); medaglie (1 impresa); munizioni (7 imprese); pattini (1 impresa); pistole (5 imprese); polveri da caccia (5 imprese); racchette da tennis (6 imprese); reti per sport (2 imprese); rivoltelle (1 impresa); articoli per rugby (2 imprese); sacchi da montagna (4 imprese); sandolini smontabili (1 impresa); sci (8 imprese); slitte (1 impresa); spingarde (1 impresa); sport invernali (1 impresa); tende da campo (1 impresa); volo a vela (1 impresa). Ovviamente spesso erano le stesse imprese a essere incluse in più di una categoria. In totale risultavano, alla luce di questa considerazione, 65 imprese qualificabili come industrie sportive. Per quanto riguardava la localizzazione geografica, da sottolineare il monopolio di imprese localizzate nel nord Italia (soprattutto Lombardia, ma anche Torino, Genova, Bolzano, Treviso, Bologna); una sola impresa localizzata a Roma.

Se sport e industria erano dunque stati eletti dal regime a strumenti privilegiati per affermare l’immagine della superiorità e dell’efficienza del fascismo, l’industria sportiva diveniva la sintesi naturale di questa dinamica.

Per comprendere la rilevanza, anche di medio-lungo periodo, di questa seppur cronologicamente breve fase della storia sportivo-industriale collocabile nella prima metà degli anni Trenta, si possono accennare alcuni casi aziendali.

Fu proprio in questi anni, ad esempio, che si posero le basi di un simbolo dell’ita­lianità sportiva come la Superga. Nata a Torino nel 1911 e specializzatasi dapprima (dopo una fase in cui produsse un po’ di tutto, dai giocattoli ai copertoni per biciclette ai canotti) nella produzione di stivali impermeabili di gomma per le mondine del Vercellese, fu a cavallo tra anni Venti e anni Trenta che la ditta torinese decise di spostare la produzione alle calzature sportive (da tennis, pallacanestro, ginnastica, yachting), applicandovi quella stessa tecnica di vulcanizzazione della gomma ormai ben sperimentata e perfezionata nelle produzioni precedenti [82].

E fu sempre negli stessi anni che si delineò il primo nucleo di quello che sarebbe divenuto – ed è tutt’oggi – uno dei principali distretti sportivi italiani: quello di Montebelluna, nel trevigiano, anch’esso specializzato in calzature sportive. Inserendosi nella scia di tradizione già ottocentesca di produzione di calzature, nei primi anni Trenta alcune aziende della zona colsero prontamente la svolta anche culturale in atto e decisero di convertirsi alla produzione di calzature sportive destinate soprattutto a sport alpinistici e sci (tra i nomi più noti, quello di Dolomite).

Come dimostrano questi esempi, la svolta degli anni Trenta a favore della produzione sportiva «leggera», sebbene apparentemente transitoria, bastò a porre le basi di uno sviluppo che avrebbe caratterizzato in modo strutturale la storia del «made in Italy» sportivo nel secondo dopoguerra.


3.3. Verso una nuova mobilitazione

La primavera del 1935 segnava forse il punto più alto della parabola ascendente dell’industria sportiva «delle cose» spinta dalla politica sportiva ed economica del regime. Se volessimo scegliere un momento simbolico, potremmo prendere la copertina del fascicolo dell’aprile 1935 de Lo sport fascista, in cui l’industria sportiva «leggera» si conquistava il posto fin lì riservato agli eroi dello sport e alle loro imprese: una racchetta Freyrie era invece qui la protagonista, impugnata da una giovane tennista.

Ma era una vittoria effimera, quella dell’industria sportiva «leggera». A partire da quel momento, infatti, nubi di guerra tornarono ad addensarsi all’orizzonte, e con la svolta imperialista in politica estera il regime tornò a ribadire il connubio «guerra e sport», di cui era naturale corollario lo sviluppo dell’industria pesante più propriamente legata a quei settori sportivi in cui più sottile era il confine tra competizione sportiva e competizione bellica.

Sport e industria divennero, di nuovo, un terreno di confronto che a partire da un certo momento travalicò il valore esclusivamente sportivo o industriale della contesa e venne assurto a campo di prova di un confronto bellico di cui si iniziavano a cogliere le prime avvisaglie.

Come esordiva significativamente un articolo pubblicato su Lo sport fascista già nel 1931, «esercito e sport furono e saranno sempre legati da vincoli indissolubili perché ambedue richiedono e forniscono agli uomini identiche attitudini e doti fondamentali, cioè: idealismo, ardimento, gagliardia di corpo, fermezza di propositi, spirito di sacrificio e di disciplina» [83]. Ma l’articolo andava oltre, sottolineando con chiarezza il ruolo dello sport come «palestra che ci fornirà i valorosi piloti delle macchine necessarie» alla motorizzazione dell’esercito del futuro.

Come era accaduto negli anni Dieci, anche negli anni Trenta le cronache sportive e quelle economiche iniziarono a riempirsi di metafore belliche, sempre più esplicite. Fino a quando la guerra d’Etiopia riportò in auge il trittico sport-industria-guerra.

Guerra e sport era il titolo dell’editoriale con cui Lando Ferretti apriva il numero dell’agosto 1935 de Lo sport fascista:

Altra mentalità, altro stile quello fascista anche nel campo dello sport: da quando lo liberammo dalla incomprensione dei dotti, dai timori dei pavidi, proclamammo ch’esso era per noi preparazione alla guerra più che alle vittorie d’Olimpia […] Tredici anni di sport fascista non sono stati vissuti invano se oggi, sui volti dei partenti per l’Africa Orientale, si legge il virile proposito di accorrere alle battaglie cruente di domani come ai ludi sportivi del passato [84].

Nei mesi successivi l’industria sportiva «pesante» tornava protagonista, monopolizzando anche le pagine pubblicitarie. Le copertine de Lo sport fascista dei mesi di settembre e di novembre 1935 sancivano in modo chiaro il passaggio, rappresentando la prima un atleta che impugnava il suo giavellotto, ma la cui ombra si trasformava nella figura di un soldato che impugnava il moschetto; la seconda, ancor più significativa, unendo in una sorta di collage il profilo di un’auto sportiva a quelli di un carro armato e del motore di un aeroplano, quasi a voler sottolineare il confine sempre più labile tra applicazione sportiva e applicazione bellica della più avanzata industria meccanica nazionale.

Ed era del resto l’editoriale del fascicolo di novembre a chiarire se ce ne fosse stato bisogno questo passaggio: «... cuori e motori, uomini e macchine, energie morali e mezzi meccanici si moltiplicano, si temprano, si esaltano in una consapevole ansia di potenza […] Intanto in tre mesi, a Milano, tre rassegne di macchine – velivoli, automobili, motocicli – stanno per dimostrare al mondo l’eccellenza fascista nel campo della meccanica» [85].

Conseguenza dell’attacco all’Etiopia, «il blocco di fame e di morte» imposto dalla Società delle Nazioni al paese aggressore dette ufficialmente inizio alla politica autarchica del regime.

In realtà, come abbiamo visto, la politica a difesa della produzione nazionale e del­l’autosufficienza era iniziata ben prima, e aveva trovato nella battaglia del grano del 1925 e nella rivalutazione della lira del 1926 i prodromi di una svolta che senza dubbio l’arrivo in Europa delle conseguenze della grande crisi aveva poi contribuito a rafforzare e a definire. La guerra dell’Italia era iniziata da lontano. Di fatto, fin dalla fine degli anni Venti e poi soprattutto con gli anni Trenta, quando il regime aveva scelto di puntare sulla politica estera di potenza che ebbe nell’autarchia il suo naturale corollario economico. Quello che le sanzioni fecero fu semmai di fornire al regime uno stra­ordinario strumento di propaganda per piegare la popolazione ad accettare – dietro la retorica della «iniqua» prepotenza di nazioni prevaricanti nei confronti delle legittime aspirazioni espansioniste di un’Italia onesta e lavoratrice – sacrifici nei confronti dei quali non erano mancate resistenze.

Ebbene, tutte queste scelte avranno un peso fondamentale nel segnare la caratterizzazione della seconda fase di sviluppo dell’industria sportiva. Ad esempio, bloccando o frenando quelle aziende che, come l’Alfa, avevano puntato sull’internazionalizza­zione. L’industria meccanica, e in particolare quella automobilistica, venne infatti inserita tra quelle ritenute fondamentali per la difesa della nazione, e come tale sottoposta a una serie di misure protezionistiche che, se da una parte favorirono aziende come la Fiat che potevano contare su una sorta di monopolio interno, dall’altra bloccarono le velleità internazionalistiche di chi puntava su prodotti elitari e a votazione prettamente sportiva come l’Alfa. La casa automobilistica, ancora una volta sull’orlo del fallimento, venne infine salvata finendo inglobata nell’Iri, l’istituto nato nel 1933 come strumento di salvataggio di fronte alle conseguenze della grande depressione arrivata inesorabile anche in Europa, e che da intervento contingente di emergenza finirà per istituzionalizzarsi segnando il profilo del modello industriale italiano per i decenni successivi.

La guerra d’Etiopia, prima, e il secondo conflitto mondiale, poi, ebbero dunque il potere di determinare una ripresa della produzione dopo la battuta d’arresto seguita alla crisi del 1931. Ciò fu vero soprattutto per i settori della produzione «pesante».

Come era accaduto in occasione del primo conflitto mondiale, così anche la seconda guerra mondiale determinò una mobilitazione pressoché totale delle forze produttive dei paesi belligeranti.

Per l’industria sportiva, ciò significò soprattutto una rinnovata spinta alla «tecno-industria applicata allo sport: branca essenziale dell’intero dinamismo di una nazione, e all’occasione anche amplificabile e identificabile con la stessa sua forza espansionistica chiamata ai paragoni supremi della lotta per l’esistenza» [86].

Se è vero che le esigenze belliche imposero un «collocamento a temporaneo riposo» [87] della motocicletta e dell’automobile sportive, è altrettanto vero che favorirono quella che da più parti venne definita una vera e propria «motorizzazione» del conflitto: «… solo lo sport, informato ad un ideale superiore, può elevare gli uomini all’altezza delle esigenze della guerra moderna, meccanica, motorizzata, automatizzata …» [88].

«Motorizzazione» che significava esaltazione e consacrazione di quella «industria sportivo-bellica-utilitaria» [89] che la politica sportiva del regime aveva promosso e sviluppato.

L’effetto della guerra sull’industria sportiva legata ai settori «pesanti» lo si poté misurare in occasione dell’edizione del 1940 della Mostra milanese del Ciclo e del Motociclo, «la più affollata per pubblico di visitatori delle mostre del genere che mai si siano viste nella metropoli lombarda» [90], e dell’edizione 1941 della Fiera campionaria di Milano [91].

Quello che emergeva con evidenza era il contributo dato dalle necessità belliche al miglioramento nella tecnologia e soprattutto nei materiali: biciclette leggerissime grazie a leghe metalliche «autarchiche», biciclette elettriche, miglioramenti nel telaio erano solamente alcune delle innovazioni ammirate dai visitatori e decantate dai cronisti. Un nuovo, interessante, elemento iniziava inoltre ad affiorare leggendo tra le righe delle cronache economico-sportive: una nuova attenzione alla produzione sportiva di tipo artigianale [92], che avrebbe poi rappresentato una delle linee di sviluppo dell’in­dustria sportiva del dopoguerra.

Anche celata dietro le impellenze di un conflitto totalizzante che ben poco spazio lasciava alle velleità sportive delle nazioni, l’industria sportiva italiana proseguiva dunque silenziosamente il suo cammino di perfezionamento e di consolidamento. Quel cammino che le avrebbe permesso di conquistarsi, nell’Italia ormai ricostruita e definitivamente affermatasi come potenza industriale, un posto di tutto riguardo all’interno del tessuto produttivo nazionale.


NOTE

[1] Sui primi passi istituzionali dello sport in Italia cfr. F. Bonini, Le istituzioni sportive italiane: storia e politica, Torino, 2006.

[2] Accadde, insomma, quello che si era verificato già all’indomani dell’Unità d’Italia, quando le prime importanti fabbriche italiane di attrezzi ginnici si erano sviluppate in stretta connessione con due delle più antiche scuole di ginnastica: quella della Società torinese e quella della Palestra centrale di Napoli, riuscendo a garantire in breve tempo al paese un’emancipazione dall’estero in relazione a tale settore produttivo. Cfr. P. Ferrara, L’Italia in palestra. Storia, documenti e immagini della ginnastica dal 1833 al 1973, Roma, 1992, pp. 144-145. Alla fabbrica torinese e a quella napoletana si era ben presto aggiunta l’azienda di Giuseppe Pezzarossa di Bari, su cui si può vedere D.F.A. Elia, Storia della ginnastica nell’I­talia meridionale, Bari, 2013, pp. 128-176.

[3] F. Fabrizio, Fuoco di bellezza, Milano, 2011, pp. 102-105.

[4] Gli anni Venti videro anche l’affermazione di una mitica corsa, come la Mille Miglia, che riuscirà a sopravvivere alla caduta di quel regime che pure l’aveva vista nascere e accompagnerà gli italiani fino al miracolo economico. Sulle Mille Miglia cfr. D. Marchesini, Cuori e motori. Storia delle Mille Miglia, Bologna, 2001.

[5] G. Robustelli, L’Esposizione industriale, in Album-ricordo dell’Esposizione del 1884 in Torino, Milano, 1884, p. 3.

[6] La prima esposizione in assoluto del Regno d’Italia fu l’Esposizione nazionale di Firenze del 1861, proprio a celebrare l’unificazione del Regno. Si trattò tuttavia di un’esposizione che rifletteva un’Italia ancora essenzialmente agraria, dove le poche categorie industriali rappresentate furono quelle legate alla tradizione di lunga data di industria tessile presente nella penisola. Cfr. M. Picone Petrusa, M.R. Pessolano, A. Bianco (a cura di), Le grandi esposizioni in Italia 1861-1911, Napoli, 1988.

[7] Sull’Esposizione del 1881 come prima importante legittimazione della bicicletta in Italia, nonché come primo banco di prova della grande industria italiana cfr. G.G. Roseo, L’industria e il commercio dei velocipedi nel mondo, Milano, 1912, pp. 149-150.

[8] L’Esposizione italiana del 1881 in Milano. Illustrata, Milano, 1881, pp. 103, 143-144. Lo sport fu semmai presente all’esposizione come esibizione, con gare di scherma e corse ippiche organizzate nei giorni della manifestazione. Sull’Esposizione di Milano del 1881 cfr. anche Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano. Guida del visitatore, Milano, 1881.

[9] L’Esposizione generale italiana in Torino nel 1884. Catalogo ufficiale, Torino, 1884. Da notare, a dimostrazione di quanta strada lo sport dovesse ancora fare in termini di legittimazione, l’assenza dell’e­ducazione fisica all’interno della sezione «Didattica» ospitata dall’esposizione.

[10] Sulle Esposizioni Riunite di Milano del 1894 cfr., tra gli altri, R. Pavoni, O. Selvafolta (a cura di), Milano 1894. Le Esposizioni Riunite, Milano, Camera di commercio industria artigianato e agricoltura, 1994.

[11] Le Esposizioni riunite di Milano 1894. Unica pubblicazione illustrata autorizzata dal Comitato, Milano, 1894.

[12] Ivi, pp. 158, 162-163.

[13] Ivi, p. 178.

[14] M. Franzinelli, Il Giro d’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano, 2015, p. 19; C.H. Caracciolo, La bicicletta nella città, tra Ottocento e Novecento, in Hevelius’ Webzine, febbraio 2010 (http://
www.hevelius.it/webzine/leggi.php?codice=119).

[15] Cfr. I. de Mohr, Le biciclette, in Le Esposizioni riunite di Milano 1894, cit., pp. 182-183.

[16] Le Esposizioni riunite di Milano 1894, cit., pp. 143-144. Per i premi assegnati cfr. ivi, pp. 190-191.

[17] Esposizione nazionale del 1898. Catalogo generale, Torino, 1898.

[18] Esposizione di Milano 1906. Guida ufficiale, Milano, 1906. Anche l’Esposizione di Brescia del 1904 aveva visto una sezione «Armi e Sport». Cfr. S. Onger, Ridefinire l’immagine della città: l’espo­sizione di Brescia del 1904, in Storia in Lombardia, 3, 2011, pp. 80-95.

[19] Torino Esposizione 1911. Monografia illustrata edita dalla Direzione Generale del Touring Club Italiano, TCI, 1911.

[20] L’attenzione che gli organizzatori riservarono allo sport non si esaurì nel padiglione dedicato alle industrie del settore. In occasione dell’Esposizione venne infatti costruito, su iniziativa del marchese Carlo Compans di Brichanteau, futuro primo presidente del CONI, lo Stadium, inaugurato ufficialmente il 30 aprile del 1911 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, della regina Elena e di «una folla enorme, quale raramente ci è accaduto di veder raccolta in Torino». La vera inaugurazione fu tuttavia quella del 6 maggio, quando lo Stadium ospitò il Concorso ginnico nazionale. Cfr. La mirabile festa inaugurale dello «Sta­dium» alla presenza dei Sovrani, in La Stampa, 1 maggio 1911. Si trattava di una struttura in stile greco-romano, capace di ospitare circa 40.000 spettatori seduti più 30.000 in piedi (le cronache della giornata inaugurale parlavano di circa 80.000 spettatori) e attrezzata con tre ordini di piste in grado di accogliere gare ciclistiche, corse di cavalli e corse podistiche; in più, strutture per gare di nuoto, di lotta, di lancio del disco, di tiro a segno, di scherma, di tennis e di football. Cfr. P. Balocco, L’Esposizione Internazionale di Torino del 1911, Torino, 2011, pp. 144-149. La struttura accolse tutto l’intenso programma sportivo del­l’Esposizione, tra cui un concorso ginnico, un concorso ippico e «gare di palloni sferici», a cui si aggiunsero, ovviamente tenuti altrove per evidenti problemi logistici, il raid di aviazione Torino-Roma-Torino (in linea con l’emergente anche se ancora sopito spirito militaristico del momento), gare di dirigibili, la corsa automobilistica del Moncenisio e la corsa ciclistica Roma-Torino. Cfr. Lo Stadium, in L’Espo­sizione di Torino. Giornale ufficiale illustrato dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro 1911, a. I, n. 7, luglio 1910, pp. 97-100 e Allo Stadium, ivi, a. II, n. 21, 10 maggio 1911, pp. 335-337.

[21] Sui rapporti tra esercito e addestramento ginnico cfr. M.P. Ulzega, A. Teja, L’addestramento ginnico-militare nell’esercito italiano (1861-1945), Roma, Stato Maggiore dell’esercito-Ufficio storico, 1993.

[22] La fine del letargo, in L’industria sportiva, a. III, n. 3, 1 marzo 1912.

[23] Aviatori ed aeroplani militari, in L’industria ciclistica e sportiva, a. 2, n. 10, 1 novembre 1911. Cfr. anche T. Falcone, Sull’uso bellico dell’aeroplano, in L’Industria Sportiva. Automobilismo-Ciclismo-A­viazione-Turismo, a. III, n. 11, dicembre 1911-gennaio 1912, pp. 33-35.

[24] Cfr. La bicicletta Bianchi per militari, in L’industria sportiva, a. III, n. 4, 1 aprile 1912.

[25] I primi esperimenti di impiego militare della bicicletta risalivano in Italia agli ultimi anni del XIX secolo. Tra il 1895 e il 1897 si erano registrati i primi casi di impiego di biciclette in alcune manovre militari; cfr. La bicicletta ai capitani, in Rivista Mensile del Touring Club Ciclistico Italiano, a. VI, n. 3, marzo 1900, pp. 49-50. Nel 1899 si era avuto un esperimento con vere e proprie esercitazioni di reparti di bersaglieri ciclisti dotati di biciclette pieghevoli. Cfr. La compagnia militare dei ciclisti, ivi, a. V, n. 10, ottobre 1899. Cfr. anche I granatieri-ciclisti a Custoza, ivi, a. VI, n. 5, maggio 1900, p. 85. Come l’Italia, altri paesi in questi stessi anni decisero l’adozione di velocipedi per l’esercito. Cfr. a tal proposito G.G. Roseo, L’industria e il commercio dei velocipedi nel mondo cit., p. 158, che definisce il 1895 «l’anno d’oro del ciclismo militare».

[26] La bicicletta nell’esercito italiano, in L’industria sportiva, a. III, n. 9, 1 settembre 1912. Fino a quel momento l’esercito aveva adottato le biciclette pieghevoli prodotte dall’officina del Genio di Pavia. Cfr. La nuova bicicletta pieghevole militare, in Rivista mensile del Touring Club Italiano, a. XII, n. 8, agosto 1906, p. 247.

[27] Cfr. R. Piloni, L’industria della bicicletta a Milano dalla fine dell’Ottocento al 1914, in Storia in Lombardia, n. 2, 1985, pp. 81-99.

[28] Grande Mostra Internazionale Industrie Sportive. Bologna, agosto-settembre 1912, Bologna, 1912.

[29] Ibidem.

[30] M. Morasso, Scontri di avanguardia, in Motori, cicli e sports, a. VII, n. 28, 13-20 luglio 1914, pp. 5-6.

[31] M. Morasso, Dal 1914 al 1915. Le sane energie che hanno salvato l’Italia, in Motori, cicli e sports, a. VII, n. 50, 31 dicembre 1914-6 gennaio 1915, pp. 5-9.

[32] M. Morasso, Scontri di avanguardia, cit.

[33] M. Morasso, La guerra e le nostre industrie, in Motori, cicli e sports, a. VII, n. 30, 29 luglio-5 agosto 1914, pp. 7-8.

[34] Le novità dell’industria automobilistica nel 1916. Verso il primato, in Motori, cicli e sports, a. VIII, n. 47 bis, 27 dicembre 1916-2 gennaio 1917, pp. 7-8. Si trattava di un numero speciale della rivista interamente dedicato alle novità della produzione di guerra.

[35] Sulla dotazione di biciclette all’esercito cfr. S. Giuntini, Lo sport e la grande guerra. Forze armate e movimento sportivo in Italia di fronte al primo conflitto mondiale, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio storico, 2000 e Id., Sport e Grande Guerra. I futuristi al fronte e il Battaglione lombardo volontari ciclisti automobilisti, in A. Teja, V. Ilari, G. Alegi, E. Belloni, F. Fabrizio, S. Giuntini, D. Tamblè (a cura di), Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della Società italiana di storia dello sport, serie speciale, 2015, pp. 226-234.

[36] M. Franzinelli, Il Giro d’Italia, cit., p. 88.

[37] Alcune statistiche parlavano di 17.729 parti staccate importate nel 1910 per un valore totale di 8.864.500 lire (contro le 7.845 per un valore di 3.222.500 lire importate nel 1907), di cui 8.283 solo dalla Germania. Cfr. G.G. Roseo, L’industria e il commercio dei velocipedi nel mondo, cit., pp. 172-178.

[38] F. Amatori, Impresa e mercato. Lancia 1906-1969, Bologna, 1996, pp. 22-23.

[39] M. Vitale, G. Corbetta, A. Mazzuca, Il mito Alfa, Milano, 2004, pp. 1-27.

[40] M. Morasso, La decisione delle Case confederate di non correre e non esporre in Italia, in Motori, cicli e sports, a. VII, n. 1, 8-14 gennaio 1914, pp. 5-6.

[41] F. Amatori, Impresa e mercato, cit., p. 40.

[42] Sulle caratteristiche della mobilitazione industriale in Italia cfr. P. Di Girolamo, Produrre per combattere: operai e mobilitazione industriale a Milano durante la grande guerra, 1915-1918, Napoli, 2002; L. Tomassini, Lavoro e guerra: la mobilitazione industriale italiana 1915-1918, Napoli, 1998.

[43] D. Bigazzi, Il Portello. Operai, tecnici e imprenditori all’Alfa Romeo 1906-1926, Milano, 1988, pp. 207-218.

[44] Ivi, pp. 153-318.

[45] Ivi, pp. 342-364.

[46] M. Vitale, G. Corbetta, A. Mazzuca, Il mito Alfa, cit., pp. 1-27.

[47] F. Amatori, Impresa e mercato, cit., p. 49.

[48] Ivi, pp. 49-57.

[49] Le novità dell’industria automobilistica nel 1916, cit., pp. 7-8.

[50] I benefici effetti della nostra guerra, in L’industria sportiva e del motore, a. VII, n. 1-2, 1916.

[51] L’industria dell’aviazione in Italia, in L’industria sportiva e del motore, a. VII, n. 7-8, 1916.

[52] G. Besana, La III Esposizione Internazionale del Motociclo, in L’Industria sportiva e del motore, a. XIII, n. 1-2, gennaio-febbraio 1922.

[53] Su Ugo Ojetti cfr. L. Cerasi, Ugo Ojetti, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 79, 2013.

[54] Per queste vicende cfr. D. Bigazzi, Il Portello cit., pp. 474-488; M. Vitale, G. Corbetta, A. Mazzuca, Il mito Alfa, cit., pp. 12-18.

[55] D. Bigazzi, Il Portello, cit.

[56] Si veda ad esempio, per la Lancia, F. Amatori, Impresa e mercato, cit., pp. 67-121. Sebbene Vincenzo Lancia, a dispetto del suo passato da pilota, avesse espresso la volontà di non produrre vetture da competizione, non mancarono in questa fase alcune «incursioni» di modelli Lancia, Lambda e Aprilia nello specifico, nel mondo dell’automobilismo sportivo.

[57] Per questi dati cfr. F. Amatori, Impresa e mercato, cit., p. 68.

[58] Su queste vicende cfr. D. Bigazzi, Il Portello, cit., pp. 526-546.

[59] La rivista fu fondata nel 1928 e diretta da Lando Ferretti, presidente del CONI dal 1925 al 1928 e proprio in quell’anno sostituito dal segretario del Pnf Augusto Turati, dopo i deludenti risultati dello sport italiano alle Olimpiadi di Amsterdam.

[60] La campagna a favore del risparmio di carburante venne fin dal 1925 portata avanti, in modo forse inaspettato, anche da riviste molto vicine all’industria sportiva del motore, come L’Industria Sportiva e del Motore.

[61] Il Salone di Milano – Aprile 1925, in L’Industria Sportiva e del Motore, a. XVI, n. 6, giugno 1925. La campagna a favore dell’«utilitaria» non riguardò solamente il campo automobilistico ma anche quello motociclistico. Ben evidente fu, già a partire dal 1928, questo indirizzo della politica motoristica del regime nelle pagine de Lo sport fascista, soprattutto nelle rubriche dedicate ai saloni automobilistici e motociclistici che si tenevano annualmente in Italia e in Europa. Cfr. ad esempio L. Boccali, Il salone del­l’automobile. Rilievi sulla produzione italiana, in Lo sport fascista, a. I, n. 1, giugno 1928, pp. 117-120; P. Sommi Picenardi, Il salone dell’automobile a Roma, ivi, a. I, n. 7, dicembre 1928, pp. 43-45; Il salone a Roma, ivi, a. II, n. 2, febbraio 1929, pp. 67-70; G. Robecchi, L’Esposizione motociclistica di Milano, ivi, a. II, n. 2, febbraio 1929, pp. 71-72; A. Todri, Anticipazioni sul Salone dell’Automobile, ivi, a. III, n. 3, marzo 1930, pp. 63-64; Motori, ivi, a. III, n. 4, aprile 1930, pp. 1-2.

[62] L’automobile nella realtà presente, in L’Industria Sportiva e del Motore, a. XVII, n. 1, gennaio 1926.

[63] Macchine italiane ai saloni stranieri, in Lo sport fascista, a. IV, n. 11, novembre 1931, pp. 65-69. Cfr. anche Il V Salone di Milano, ivi, a. V, n. 3, marzo, 1932, p. 53; R.T. Zanetti, Cose viste al Salone, ivi, a. V, n. 4, aprile 1932, pp. 40-44. Non a caso del Salone del 1932 veniva esaltata soprattutto la presentazione della Fiat 508 Balilla, la «vetturetta» su cui tante speranze aveva riposto il fascismo.

[64] R.T. Zanetti, Evoluzione dello sport automobilistico italiano, in Lo sport fascista, a. III, n. 1, gennaio 1930, pp. 19-22. Sulla funzione «sociale» dell’automobile cfr. anche P. Sommi Picenardi, L’opi­nione del Duce: l’automobile garanzia sociale, ivi, a. I, n. 3, agosto 1928, pp. 105-106.

[65] R.T. Zanetti, Campioni d’Italia 1930, in Lo sport fascista, a. IV, n. 1, gennaio 1931, pp. 13-15.

[66] Il salone di Milano, in Lo sport fascista, a. IV, n. 4, aprile 1931, pp. 1-3. Sulla politica automobilistica del regime cfr. V. Castronovo, Fiat. Un secolo di storia italiana 1899-1999, Milano, 1999; S. Maggi, Storia dei trasporti in Italia, Bologna, 2009; O. Calabrese, L’utilitaria, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari, 1996, pp. 537-557.

[67] L. Ferretti, Decennale, in Lo sport fascista, a. V, n. 11, novembre 1932, pp. 1-5.

[68] Nata da un’idea maturata fin dal 1916, dunque in pieno clima bellico, la Fiera campionaria di Milano vide la luce con la sua prima edizione nel 1920. A differenza delle esposizioni tenutesi fino a quel momento, la Fiera si distingueva, almeno nelle intenzioni dei suoi ideatori, per una connotazione maggiormente commerciale e rivolta agli operatori economici, oltre che per la sua cadenza annuale. Il Padiglione dello Sport, che accoglieva il Salone dell’automobile, fece la sua comparsa a partire dalla quarta edizione, quella del 1923. Cosa diversa era invece la Mostra dello Sport, inaugurata appunto nel 1933, e che dal 1934 divenne Mostra dello sport e delle armi. Sulla Fiera di Milano cfr. C. Besana, La Fiera campionaria di Milano, in S. Zaninelli (a cura di), Storia dell’industria lombarda, III. Sviluppo e consolidamento di un’economia industriale. Dalla prima alla seconda guerra mondiale, a cura di S. Zaninelli, A. Cova, P. Galea, C. Besana, Milano, 1992, pp. 241-267; G.M. Longoni, Dalla Mostra del Sempione alla Fiera. Alcune riflessioni su Milano e le esposizioni, in P. Audenino, M.L. Betri, A. Gigli Marchetti, C.G. Lacaita (a cura di), Milano e l’Esposizione internazionale del 1906. La rappresentazione della modernità, Milano, 2008, pp. 11-23.

[69] La mostra dello sport alla fiera milanese, in Lo sport fascista, a. VI, n. 3, marzo 1933.

[70] Lo sport alla XIV fiera di Milano, in Lo sport fascista, a. VI, n. 4, aprile 1933, pp. 1-4.

[71] Ivi, p. 3.

[72] Ivi, p. 4. Sulla mostra dello sport cfr. anche Mostra dello sport: mostra della perfezione, in Lo sport fascista, a. VI, n. 5, maggio 1933, pp. 64-67. A partire dagli ultimi mesi del 1933 le pagine finali di ogni numero della rivista erano dedicate a una sorta di rassegna pubblicitaria sulle industrie sportive; anche qui, accanto alle industrie legate agli sport meccanici (Michelin, officine meccaniche Lombi, ditta Luigi Magistroni, ditta Ettore de Stefani, pneumatici D’Alessandro, Gilera, Frera) andarono aumentando quelle legate all’oggettistica e all’abbigliamento (sci Freyrie, ditta Termenini, sartoria sportiva Ettore Carabelli, sartoria Merati, ditta Mariani & C. per scarpe e abbigliamento sportivo, maglieria Perelli, racchette Pezzotta e Zuliani, articoli sportivi F.A.P.S.).

[73] L. Ferretti, Tutto lo sport alla Fiera di Milano, in Lo sport fascista, a. VII, n. 4, aprile 1934, pp. 3-5.

[74] Su questi temi cfr., tra gli altri, F. Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Rimini-Firenze, 1976.

[75] Sul rapporto controverso tra fascismo e gioco del calcio cfr. S. Martin, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, 2006; A. Papa, Football e littorio, in M. Canella, S. Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, 2009, pp. 15-18. Il successo dell’operazione fascista a favore del calcio fu tale che rischiò di produrre effetti «collaterali» imprevisti e invisi allo stesso regime, soprattutto nella misura in cui la passione calcistica tendeva a riproporre ed esacerbare un campanilismo che denunciava fino a che punto certe identità locali continuassero a esistere a dispetto di ogni tentativo del regime di creare e rafforzare l’identità nazionale. Il calcio, insomma, utilizzato dal regime per unire la nazione, anche attraverso la creazione di un campionato nazionale, rischiava piuttosto di dividerla, risvegliando tra la popolazione un senso identitario locale piuttosto che nazionale, e riproponendo così agli occhi del mondo l’insuccesso del fascismo nel portare a compimento una piena e completa nazionalizzazione delle masse.

[76] A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, 2002, pp. 127-132.

[77] Cfr. A. Banti, L’importanza dello spettacolo sportivo, in Lo sport fascista, a. IX, n. 2, febbraio 1936, pp. 31-33.

[78] L. Ferretti, Programma, in Lo sport fascista, a. I. n. 1, giugno 1928, pp. 3-4.

[79] Ibidem.

[80] XIVa Fiera di Milano campionaria internazionale 12-27 aprile 1933. Catalogo ufficiale, Milano 1933.

[81] Un’industria sportiva che conobbe una particolare fioritura negli anni Trenta fu quella dell’abbi­gliamento sportivo. Un settore particolare perché, pur inserendosi nelle dinamiche sopra descritte, conobbe anche una particolare declinazione al femminile, che apre un interessante quesito sul ruolo riconosciuto alla donna come acquirente di abbigliamento e accessori. Riconoscimento da cui derivava anche la nuova importante presenza femminile nella pubblicità, ivi compresa quella dei prodotti sportivi. Era ancora una volta Lo sport fascista a inaugurare l’argomento, con un articolo pubblicato in occasione della prima Mostra nazionale della moda apertasi a Torino nell’aprile del 1933 (cfr. Livia [Livia Lo-Faso Auteri], La moda di noi sportivi, in Lo sport fascista, a. VI, n. 6, giugno 1933, pp. 52-56). Quello che si sosteneva, in sostanza, era il ruolo di primo piano avuto dallo sport nel favorire e accelerare una svolta modernista nell’abbigliamento (non solo sportivo) all’insegna della praticità (cfr. L. Lo Faso Auteri, La moda sportiva alla Mostra nazionale di Torino, ivi, a. VII, n. 5, maggio 1934, pp. 88-91). Secondo l’efficace formula utilizzata dalla rivista di Lando Ferretti, se la modernità aveva «vinto» anche i più scettici, era stato lo sport a «convincerli» della necessità di una svolta non più procrastinabile. Ma l’aspetto più interessante era appunto quello della centralità riconosciuta alla donna nel favorire questa svolta «di costume». Ancora una volta, tuttavia, il forte accento posto sull’industria dell’abbigliamento sportivo – al cui tema venne dedicata da Lo sport fascista una rubrica fissa, «Moda e sport», oltre a vari approfondimenti – rispecchiava anche scelte di politica economico-industriale che videro il regime da una parte promotore della nascita dell’Ente moda, dall’altra impegnato ancora una volta nella battaglia autarchica che ebbe una sua pagina non secondaria nella ricerca di surrogati nazionali alle fibre tessili di derivazione estera. Orbace, canapa, «lastex», lino, «fiocco», «sodolin» erano solo alcuni degli esempi di autarchia tessile. (cfr. L. Lo-Faso Auteri, Lo sport alla Mostra della moda, ivi, a. VII, n. 10, ottobre 1934, pp. 55-59; Fiorella, Alla V Mostra della moda ho visto …, ivi, a. VIII, n. 5, maggio 1935, pp. 73-79).

[82] Cfr. Quell’odore inconfondibile di gomma. L’epopea Superga, dallo stivale alla sneaker, in M. Donda, Ai piedi del successo. La Calzatura, i consumatori, il mercato, Milano, 2006, pp. 74-82.

[83] A. Pugnani, Esercito meccanizzato o esercito motorizzato?, in Lo sport fascista, a. IV, n. 4, aprile 1931, pp. 28-34.

[84] L. Ferretti, Guerra e sport, in Lo sport fascista, a. VIII, n. 8, agosto 1935, pp. 7-8.

[85] L. Ferretti, Cuori e motori, in Lo sport fascista, a. VIII, n. 11, novembre 1935, pp. 10-11. Nell’ottobre del 1935 era intanto stato inaugurato a Milano il primo Salone internazionale aeronautico. Cfr. Il primo Salone internazionale aeronautico a Milano, ivi, a. VIII, n. 8, agosto 1935, pp. 63-65. Sulle esposizioni legate agli sport meccanici cfr. anche S. Favre, Col «Salone fascista» il motociclismo italiano ha dimostrato che anche qui l’Italia sa fare da sé, ivi, a. IX, n. 2, febbraio 1936, pp. 65-69; G. Boriani, La «mostra della ripresa», ivi, a. IX, n. 12, dicembre 1936, pp. 69-70.

[86] S. Favre, Il motorismo italiano nei confronti d’ogni giorno e d’ogni evento, in Lo sport fascista, a. X, n. 7, luglio 1937, pp. 10-13.

[87] Sivre, La «Rosa di tutti» e la Mostra, in Lo sport fascista, a. XII, n. 12, dicembre 1939, pp. 12-14.

[88] S. Favre, Dallo sport alla guerra, in Lo sport fascista, a. XIII, n. 7, luglio 1940, pp. 12-16. Sulla «motorizzazione sportiva» della guerra cfr. anche P. Taruffi, Motociclismo bellico, ivi, a. XIII, n. 8, agosto 1940, pp. 19-21; G. Rossi, Le vittorie della «motorizzazione», ivi, a. XIII, n. 11, novembre 1940, pp. 22-24.

[89] G. Rossi, Le vittorie della «motorizzazione», cit., p. 24.

[90] Ang., Superba affermazione dell’industria italiana alla Mostra del Ciclo e del Motociclo, in Lo sport fascista, a. XIV, n. 1, gennaio 1941, pp. 23-28.

[91] U. Mascilli, Moto e ciclo di guerra, in Lo sport fascista, a. XIV, n. 5, maggio 1941, pp. 27-31.

[92] Cfr. ad esempio F. Palmisano, Dopo la 23a mostra del Ciclo e del Motociclo. Gli intensi sviluppi di oggi e di domani, in Lo sport fascista, a. X, n. 1, gennaio 1942, pp. 33-37.